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Revolucion Buenaventura
Era il 6 Gennaio e stavo per bere un tè che non aveva nessun sapore. Il bar, apparentemente molto rinomato e in pieno centro, si chiamava Buenaventura, Horno San Buenaventura. E se sei una a cui piacciono i segni del destino non puoi fare altro che credere che quella non fosse una coincidenza.
Qui urge un rewind spaventoso perchè la mia latitanza dal blog (che posso spiegare!) rende tutto molto fumoso.
Allora, appena arrivata a Barcellona ricevo la mail da un’azienda a cui avevo mandato un curriculum, di quelli senza troppa speranza messo insieme alla buona, e mi invitano per un colloquio per metà Dicembre. Per due settimane quindi sono stata impegnata nella preparazione di una presentazione su misura per questa azienda, oltre che nell’invio matto e disperatissimo di altri brillioni di CV. Una cosa che ho scoperto in questo mese di Dicembre da disoccupata (anche se in trasferta) è che io sono una che non è capace di rimanere a casa senza far niente. Fare il planning settimanale delle pulizie/lavanderia di tutto, anche il cambio estivo/preparazione di un menù variato e sano non sono cose per me. La vita da casalinga non è il mio pane e nemmeno la vita di quella che se ne va allegra a zonzo senza prospettive in tempi brevi. Mi piacerebbe essere quella che prende e se ne va senza paranoie del futuro e invidio chi lo fa, ma è saltato fuori che questa non è roba per me. Che ci posso fare?! Buono a sapersi, dico io.
Nonostante la lunga preparazione per l’intervista, non ero particolarmente nervosa per il colloquio in sè. Mi sono detta che in qualche modo l’avrei svangata. E se proprio fosse andata male che ci sarebbero state altre occasioni. Così in un viaggio quasi Fantozziano (sveglia alle 3.30 del mattino, taxi e volo alle 6.20. Rientro 10 ore più tardi con un’ora di jet lag e occhiaie da panda) mi sono recata all’intervista. La prima intervista vera della mia vita, se non contiamo quella del dottorato in cui avevano sbagliato a segnare il giorno e nessuno era preparato per ricevermi. Io, nel mio inadeguato look total black con i jeans neri pure loro, non sapevo a cosa andavo incontro. L’intervista andò, a mio parere, peggio delle più tetre previsioni. Durante la mia presentazione sono stata interrotta più volte con domande a bruciapelo e dopo la presentazione non è andata meglio. Praticamente un esame di Chimica Organica di quasi 2 ore, che io chimica non sono, durante il quale stramaledicevo il mio professore di quel corso di inizio triennale, quello che si era lamentato che solo 19 persone su 200 avessero passato l’esame. Esame composto di tre, dico tre!, prove in itinere di durata di tre, ridico tre!, ore ciascuna. Corso in cui l’assistente per le esercitazioni (il Dott. Porta) era stato ripudiato per volontà popolare e sostituito da un dottorando (si chiamava Andrea) che ha fatto più del bene lui in qualche ora che il professore e il Dott. Porta in un corso intero. E con questo vorrei anche aprire una parentesi su quante informazioni totalmente inutili conservo nella mia memoria. Terabyte di ciarpame che vengono buoni solo ad allungare questo post di dimensioni già spropositate.
Dicevo. L’intervista è stata le Termopili, una Caporetto, Waterloo e tutte le altre debacle degli ultimi millenni. Quando il fuoco incrociato di domande è finito mi sono risieduta al tavolone presidenziale con poltrone in pelle umana della sala riunioni e mi è stato detto “Hai qualche domanda da fare tu a noi?”. Che cosa vi chiedo?! Come ho recitato?! Capirai… Sta figuraccia che ho fatto! Ho abbozzato una domanda che nemmeno ricordo e ho disconnesso totalmente. Dopo, quando mi hanno affidato a qualcuno per farmi fare un giro della struttura, penso di aver avuto un’espressione catatonica e di aver annuito a caso e sorriso qua e là. Insomma, un’esperienza fortemente traumatica.
Così, sono tornata a casa con le pive nel sacco e non la volevo più nemmeno nominare quell’intervista. Anzi, ero già pronta il lunedì seguente a ricevere una mail di benservito, visto che poi sarebbero arrivate le vacanze di Natale, e mi ero fatta l’idea che avrebbero scelto prima della pausa. Con mia sorpresa non ci furono più notizie. Non prima di Natale e non dopo. Almeno non fino al 6 Gennaio.
Quel 6 Gennaio, davanti al tè insapore, vedo una mail del responsabile risorse umane che mi chiede un numero di telefono alternativo perchè non riesce a contattarmi ed inizio ad agitarmi. Se mi vuoi dire che non hai scelto me, perchè mi vorresti telefonare? Rispondo e aspetto. Arriva la chiamata ed esco in strada, che era appena meno rumorosa del bar in cui stavo. Mi dicono che il posto è mio, se lo voglio. Seguono, pezzi di frase a caso in inglese mentre mi esibisco in pubblica piazza in una galleria di espressioni di stupore.
Nei giorni seguenti alla telefonata non potuto fare a meno di chiedermi se fossero davvero sicuri, se non ci fosse stato uno scambio di file da qualche parte, se le identità non fossero state confuse. Sai che bello arrivare il primo giorno e sentirsi dire “Ah, ma sei tu?! No, perchè c’è stato un errore… Ma davvero credevi che avessimo scelto te?!”.
A botta fresca ho pianto. Non per la gioia ma per la consapevolezza di avere un sacco di cose da fare in poco tempo, ripartire da zero in un posto nuovo che non conosco, almeno all’inizio da sola, e per dover lasciare una vita da señora che non mi soddisfa ma che ha i suoi vantaggi. Poi ho iniziato a razionalizzare e a pensare che se tra tutti hanno scelto me un motivo ci sarà. Che gli inizi sono sempre un po’ spaventosi. Però un’altra cosa che ho imparato in questi anni è che a me gli inizi mi fanno sì tremare le gambe ma poi mi gasano anche. Sono quelle situazioni in cui devi tirare fuori il meglio di te e questa sfida m’intriga da sempre.
E quindi sono qui, in una camera d’albergo di una cittadina universitaria a nord di Londra, bagnata dal fiume Cam (giusto per non confondersi con quell’altra!), alla ricerca di un nuovo posto da chiamare casa. Ho un contratto firmato nella borsa, un po’ di emozione per il mio primo vero lavoro e anche un po’ di strizza.
Di solito ad inizio anno ci tengo a scrivere un post sui buoni propositi per l’anno nuovo. È una di quelle cose che ritengo imprescindibili, che ci sia un blog da scrivere o che siano riflessioni che faccio tra me e me. Quest’anno invece, un po’ perchè avevo ospiti Svedesi a cavallo del nuovo anno e un po’ perchè il 2 Gennaio sono partita per una vacanza*, non ho scritto niente. E nemmeno mi sono impegnata a pensarci a cosa volevo per questo nuovo anno, in un limbo di procrastinazione e incertezza su ciò che sarebbe stato di me e sarebbe stato meglio per me.
Credo che alla fine questa notizia (leggi botta di culo) sia stata una benedizione. Forse. Così quest’anno il mio proposito è già bello e che pronto. Affrontare a testa alta questa nuova situazione, cercando di trarne tutto il meglio possibile, sia sul lavoro che per il resto. E buenaventura a noi!
*un fantastico mini-foto-reportage della vacanza presto su questi schermi!
Hey, that’s no way to say goodbye
Questi giorni. In questi giorni ce ne sono troppe da raccontare, alcune allegre, altre meno. Bisogna iniziare con ordine, anche se questa sarebbe la seconda, a voler andare con ordine, ma va bene così.
In anni come questi, senza un posto fisso in cui abitare, circondata da persone che arrivano, passano e (irrimediabilmente) vanno, sono diventata immune agli ultimi saluti. Che, nota bene, non devono essere vissuti come delle estreme unzioni, perchè queste persone continueranno ad essere, altrove, senza avermi più attorno, che a quanto mi hanno detto è una cosa fattibile. E se con il tempo ho perso il dramma aggiunto ad ogni saluto, non ne sminuisco invece il valore. Quando saluti qualcuno per la forse ultima volta credo che sia come riconoscere a quella persona il fatto che ci sia stata per quel lasso di tempo e che la sua presenza fosse stata (più o meno) indispensabile.
Ho visto ogni sorta di saluti.
Ho visto saluti fatti con leggerezza, come se ci dovessimo rivedere il giorno dopo. Una ragazza che è stata qua in Svezia per qualche mese e con cui non ho particolarmente legato, l’ultima sera che era qui ha fatto la strada per tornare a casa insieme a me e arrivate al bivio della strada ci siamo salutate con un abbraccio, di quelli un po’ Svedesi che ti spolveri la spalla a vicenda, e un “dai, ci si vede presto, in Italia o in Svezia!”. E ognuno è andato per la sua strada.
Ci sono saluti fatti come se fossero un film. La mia amica Spagnola dei tempi dell’Olanda l’avevo salutata già la sera prima di andarmene ma la mattina dopo, mentre stavo buttando la spazzatura la vedo all’altro capo del corridoio, che sta per uscire. Anche lei mi vede, rimaniamo un secondo a guardarci e io con gli occhi umidi le dico “P. you are the best”.
Alcuni saluti li ho raccontato già in capitoli precedenti. Fatti da parole sincere e di abbracci strettissimi, di quelli che mettono a dura prova le costole.
Altri saluti invece li ho fatti senza sapere che sarebbero stati gli ultimi, e le persona in questione è attualmente vivente e in salute. Un saluto normale, per quanto fossero anormali quegli incontri, il salutarsi, tergiversare, tornare indietro per un ultimo bacio e poi andare senza voltarsi, lui. Nei mesi a venire ho rivisto al replay quel saluto un’infinità di volte, pesandone i secondi, le pause, a cercare significati lasciati tra le righe, chiedendomi se fossi solo io a non sapere che quello era l’ultima volta che ci saremmo visti.
L’ultimo saluto di questa carrellata si è consumato un paio di giorni fa. A partire, e qui prometto che lo tiro in ballo per l’ultima volta, è quello che se ne va a fucking Cardiff. Ci siamo visti in un pomeriggio di sole in una Copenhagen bellissima, scintillante nella sua semplicità che non è sciatteria ma alto design. Il luogo dell’incontro era il nuovo mercato coperto, una costruzione di vetro con all’interno bar, ristoranti e piccole gastronomie con prodotti da tutto il mondo. Ci sediamo ad un caffè che dà sulla strada, la gente che passa dall’altra parte del vetro. Abbiamo parlato per un paio d’ore di una chiacchiera sciolta sugli ultimi preparativi prima della partenza, i piani, la sua nuova casa. Ci siamo aggiornati a vicenda sugli ultimi avvenimenti delle rispettive vite, io gli ho detto della mia persecuzione e lui della sua stalker Polacca, che non si rassegna alla sua partenza. Pochi riferimenti al passato, uno scherzo da parte sua al fatto che andrà a finire che andrò anch’io a lavorare a fucking Cardiff. A me è uscito un discorso delirante che faceva più o meno così “dovremo ricordarci di questo incontro perchè la prossima volta che ci vedremo saremo diversi” alludendo a “le bellezze che allor più non avrai e che avesti nel tempo passato“ di cui parlava de Andrè. Lui non capisce e mi prende in giro, mi fa vedere il suo principio di calvizie, anche se con quei capelli cortissimi dello stesso colore della pelle è una sfida a trovarla. Insomma, il mio tentativo balengo di uscire con un pensiero profondo è stato mandato miseramente in vacca ma il pomeriggio è stato piacevole e va bene così.
Si è fatto tardi e ci avviamo alla metro, quando scendiamo le infinite rampe di scale mobili di Nørreport manca mezzo minuto all’arrivo del mio treno. Qualche parola di circostanza e quando si sente il rombo avvicinarsi ci abbracciamo, con lo spolvera-spalla alla Svedese, senza convinzione. Salto sul treno e non mi giro.
Tutto quello che riesco a pensare sulla metropolitana è che questo non è il modo di salutarsi.
Hai ascoltato la pioggia?
Non voglio parlare di tempo, sia chiaro. Questo è un altro di quei post in cui parlo di un concerto a cui sono andata e il titolo del post è quel che è perchè traduco in Italiano il titolo dell’ultimo album. E questo non è nemmeno un album ma un EP perchè siamo ancora allo stato embrionale di cantante e in un certo modo anche di concerto: il cantante perchè è nato nel ’93 (facendo sembrare Tom Odell un anziano) e il concerto perchè era in un locale molto piccolo con al massimo un centinaio di persone, nonostante fosse sold out.
Per una volta nella breve vita di questa serie di post ci sono buone possibilità che il cantante sia conosciuto in Italia, meno all’estero, nonostante lui sia di Bristol, che è guarda caso in Galles che fa parte del Regno Unito, che sembra essere un po’ il filo conduttore dei mie ultimi post. Comunque divagazioni a parte, il Gallese che mi ha cantato a venti metri un paio di sere fa è George Ezra. E in questo caso è d’obbligo mettere al massimo il volume, e far partire il video in cima al post (sperando che non parta la pubblicità) e ascoltare in religioso silenzio e straordinaria ammirazione il primo minuto e spiccioli di solo voce. La qualità audio del video non rende giustizia alla performance dal vivo, che è ancora più vibrante, ancora più blues, ancora più brivido sulla schiena.
A un certo punto di quel minuto si vede che alza lo sguardo e inizia a guardare il pubblico, uno per uno, e anche l’altra sera mi sono trovata più d’una volta ad avere un prolungato contatto visivo con il mio migliore amico George. Chè anche i cantanti hanno gli occhi e a un certo punto dovranno pur guardare da qualche parte. Per non provocare svenimenti, deve aver scelto di ignorare le teenager in visibilio appena giù dal predellino e si è affidato agli occhi di quelli più contenuti nelle seconde linee del pubblico (che sono contemporaneamente seconde linee e penultime linee visto il bugigattolo in cui ci troviamo). In seconda linea ci siamo io, il mio amico L. e i suoi due compagni di viaggio.
Il mio amico L. l’ho conosciuto ai tempi dell’Erasmus, faceva parte del gruppo di amici hippie da morire che giravano in lungo e in largo la Svezia in autostop, con cui ci si divertiva con poco (tipo rubare le chiavi del monolocale di un amico, riempirgli la stanza di palloncini per vedere la faccia che fa) e che si cibavano di bacche e radici. Infatti prima del concerto mi hanno portato in un ristorante a Vesterbro che serve solo cose biologiche, e avrei trovato la cosa fantastica se nel piatto che ho ordinato ci fosse stato qualcos’altro oltre alla verdura biologica, tipo qualche carboidrato biologico, un legume solingo, o qualcosa che non fosse fatto di fibre e acqua. Fortunatamente c’era la birra più buona che esista a farmi dimenticare (anche un po’ letteralmente) la fame e anche un buon numero di cose da fare la mattina dopo al lavoro, ma questa è un’altra storia.
Il mio amico L. è senza ombra di dubbio lo Svizzero più fantastico che io conosca, e non solo per quella storia dei palloncini o perchè a distanza di anni mi chiama e andiamo a un concerto o perchè quasi tutti gli Svizzeri che conosco abbiano fatto tutto il possibile per risultarmi detestabili. Lui è uno di quelli che un po’ invidio: nella vita fa il critico musicale per un giornale Svizzero che parla di cinema teatro e musica, che non sarà Pitchfork o Rolling Stone, però va a un sacco di concerti gratis. Ok, la paga da giornalista è una miseria così per arrotondare aiuta a organizzare festival cinematografici e anche questo sembra proprio un brutto lavoro. È una vita un po’ sregolata, fatta di non sapere che ne sarà da qui a un mese ma per il momento, a lui, va bene così. Soprattutto perchè da quattro anni a questa parte è una fonte inesauribile di ottimi consigli e perchè anche se siamo cambiati tutti e due quando L. è in giro succedono sempre cose magiche. Dopo il concerto, stavamo andando a prendere una birra, un’altra, e sulla via c’era una chiesa con delle persone dentro. Così siamo entrati e ci hanno dato in mano una candela e sparse per la chiesa c’erano delle foto da guardare in quella luce flebile, che non erano foto bellissima ma io non lo avrei mai trovato senza L.
L. secondo me si è un po’ innamorato di George Ezra e infatti lo aveva già visto a Zurigo ma ha colto l’occasione di rivederlo anche a Copenhagen e non gli si può dare poi torto. Quando fanno quella domanda stupida da Novella 2000 e chiedono “qual è la cosa che attrae di più in un uomo?” e sento rispondere “le mani”, io prenderei quelle stesse mani e assesterei un coppino bello secco: che cosa te ne fai della mani se poi uno ha una voce come Paperino? George Ezra ha una voce che io potrei ascoltare per giorni, unita a uno di quegli accenti british sciogli-mutande che buttiamolo via. Non solo canta con quella voce profondissima ma pure ci parla, come Filippo Timi ma con una faccia un po’ più raccomandabile.
Avevo già ascoltato George Ezra su consiglio di L. qualche mese fa e mi era piaciuto ma se non ci fosse stato lui non so se sarei andata a vederlo suonare. Gli arrangiamenti dell’album sono fatti un po’ alla cazzo di cane, soprattutto quello di Did you hear the rain?, che nella versione Spotify ha per tutti i 2 minuti e 57 di canzone una specie di soffio a ritmo che mi ha dato noia fin dal primo ascolto. Fortunatamente, al concerto George Ezra arriva da solo e suona con la sua chitarrona bene, ma proprio bene, e quando chiude il concerto con questa canzone decreto che chi gli ha mixato l’album dovrebbe essere esposto alla gogna. A un certo punto si mette anche a fare i coretti in farsetto perchè non ha le coriste ma ci piace così, un po’ ruspante.
A metà concerto suona la sua canzone più famosa, Budapest, e racconta in breve la storia che ci sta dietro. A quanto pare, era in giro a fare il backpacker e doveva prendere un treno per andare a Budapest ma lo perse e a Budapest non ci arrivò mai. E ci starebbe un bel chissenefrega, non fosse che la ragione per cui perse il treno era che ha fatto le ore piccole nella bolgia della festa al parco durante l’Eurovision dell’anno scorso a Malmö, a cui ero anch’io. Insomma, Geroge Ezra: uno di noi.
Ammetto che la voce e le musiche fanno la parte del leone, mentre i testi sono un po’ miseri ma il ragazzo ha potenziale. A vostro rischio e pericolo lascio qui sotto il video a un’altra sua canzone che sto cantando ininterrottamente da due giorni e che mi ci vorrà un esorcista per mandarla via dalla mia mente. Schiacciate play, se avete il coraggio.
Prove di fuga #1 – Cronaca semiseria di cosa si scrive su un curriculum
Questo sarà il primo post di una luuuuunga serie, in cui io racconto di come stia provando con tutta me stessa a lasciare questa valle di lacrime e trasferirmi altrove. Ma come posso decidere dove andare a piantare le tende? Al momento l’unica motivazione che ho per trasferirmi in un altro posto è il lavoro. Niente amorazzi esotici, niente chioschetti su spiagge deserte, ma solo una banalissima ricerca di un nuovo impiego. Anche perchè volente o nolente in sette mesi, su per giù, la festa (Svedese) è finita e la prospettiva è fare la disoccupata mantenuta dallo Stato in Svezia alle porte dell’inverno, che se mi conosco un po’ vorrebbe dire che tempo un mese e divento una serial killer*. Quindi, iniziamo ad andare alla ricerca di questo nuovo lavoro.
Contro ogni previsione, trovare un’offerta interessante è stato abbastanza semplice. Non solo ne ho trovata una, ma ben quattro, tutte nel mio campo in una nota multinazionale alle porte di Londra. Che poi la ragione per cui mi sono presa bene con queste offerte di lavoro è che appunto sarebbe nei pressi di Londra. Difatti:
Prima cosa che ho fatto: controllare la fattibilità di essere pendolare Londra-Fabbrica nel sobborgo e la risposta è che ce la si può fare con 25 minuti di treno che probabilmente costeranno un rene di abbonamento ma va bene, si vive (a Londra) una volta sola.
Seconda cosa che ho fatto: controllare le offerte del mercato immobiliare nei pressi della stazione di Londra da cui parte il treno per la Fabbrica nel sobborgo. Anche qui, gli affitti costano una sassata ma confido tantissimo in un generoso stipendio e mi ripeto che si vive (a Londra) una volta sola. Al momento la mia vita a Londra è perfetta: ho una casa, prendo il treno ogni giorno e vado nella Fabbrica nel sobborgo a fare cose bellissime mentre la sera vedo tutti i concerti del mondo, sempre grazie al generoso stipendio di cui sopra, elargitomi a spruzzo.
Terza cosa che faccio (dopo, ma molto dopo): inizio a guardare come fare per ottenere effettivamente il lavoro. Che dicci poco, insomma. La procedura per l’applicazione è tutta on-line e pare una cosa lunga, fatta di pagine da compilare una dopo l’altra. La prima è facile, vogliono un’anagrafica e recapiti vari: la so! Ma alla pagina dopo sono già ferma. Come prevedibile, devo caricare un curriculum. Curriculum che l’ultima volta che l’ho preso in mano era la primavera del 2010, avevo messo una foto del 2008 in cui avevo dei capelli chilometrici e nelle esperienze lavorative avevo inserito anche “receptionist in un ostello in Irlanda”, che al momento un po’ ecchissenefrega. Quindi mi metto le mani nei capelli (tutt’altro che chilometrici) e riscrivo lo stramaledetto curriculum: fosse facile!
Il primo grande ostacolo è trovare un template adatto, perchè un curriculum non ce lo si inventa in un momento d’estro. Scartato (dopo averlo compilato quasi totalmente!) il curriculum formato Europeo perchè a) non richiesto esplicitamente b) se fai un application in Regno Unito pare quasi che li vuoi prendere per il culo con tutte quelle bandierine dell’UE c) il formato non si adatta a quelle che sono le mie esperienze e mi fa sembrare un po’ inetta, inizio a vagare per la rete alla ricerca di un’idea e dopo un po’ di peregrinare la trovo su un motore di ricerca per l’impiego in UK.
Bene, per cominciare viene fuori che in UK si straniscono se gli metti una foto nel CV. E quindi il mio bellissimo primo piano ritagliato con sfondo tempio della Concordia alla Valle dei Templi, abbronzatura qb e fronte stralucida, probabilmente sudata, la lascio fuori a campeggiare sul profilo linked-in, a cui ho messo un bel collegamento sotto al nome per quei curiosoni dell’HR.
Per un inizio ancora più in salita, la prima parte da compilare è un paragrafo in cui fai un “Personal Statement”, una specie di microspot per te stesso. E anche se hai visto tutte le sei stagioni di Mad Men in tre mesi non vuol dire che sei diventata Peggy Olsen. Ma forse proprio perchè ho visto tutto Mad Men e perchè voglio alzare l’asticella laddove nessuno ha mai osato, in questo microspot alludo tra le altre cose anche al fatto che sono un “effective communicator”, un mix tra Vanna Marchi e il Maestro Manzi: datore di lavoro non ti deluderò!
Ben più facili da compilare, ma non per questo banali, erano i campi che riguardavano l’esperienza lavorativa e l’educazione, non fosse che ad ogni voce era suggerito aggiungere quali sono stati i “key achievements” e anche se la mia tentazione era scrivere “fare robe in pratica” non potevo certo mettercelo! In realtà qui il problema era non perdersi in paragrafi infiniti e mettere solo l’essenziale, come mi ha ricordato il mio censore del CV, quello che trova lavori sotto i cavoli in 48 ore.
Il dramma vero e proprio è stata ovviamente la parte finale, quella che accomuna i CV con i siti di appuntamenti on-line, quella in cui il tuo futuro datore di lavoro vuole sapere di te. Cielo, proprio di me vuoi sapere? Allora datore di lavoro, ti traduco pari pari le mie “Personal Skills” ma tu non ridere.
- Doti comunicative eccellenti, sia orali che scritte (come avrai sicuramente già notato da questo CV. Sic!)
- Fortemente motivata e orientata agli obiettivi (in pratica sono un ariete, ti sfondo porte e portoni con il solo ausilio della mia fronte alta)
- Socievole, alla mano e positiva (un ariete sì ma un sorriso te lo faccio pure ogni tanto! E qui è un po’ come quando ti devi descrivere e dici che sei solare, che non vuol dire un cazzo, ma questi datori di lavoro li devi pur rassicurare che non sei un automa)
- Lingue parlate: Italiano (madrelingua), Inglese (Avanzato), Svedese (Intermedio) e Francese (Principiante) (Un poker di lingue insomma, di cui il Francese lo metto sempre, anche se l’ho studiato alle medie e l’ultima volta che l’ho usato ho detto “Je te veux” invece che dire “Je t’ai vu” e c’è gente a cui è venuto un infarto ma va bene così)
Ciliegina sulla torta, il campo bianco in cui puoi mettere i tuoi interessi. Penso che scrivere “rotolarsi in un plaid fino alle prime ore del pomeriggio” non sia un opzione percorribile, quindi scrivo “mi piace viaggiare e la musica dal vivo.” (banale ma onesto) “Mi sto allenando con una squadra per un mini-triathlon che sarà nella prossima estate” (ndr la squadra sono altre due persone di cui una vive a Stoccolma ma non è che vorranno sapere le anagrafiche di tutta la squadra e poi devo tenere alto il mio spirito collaborativo di cui andavo blaterando qualche sezione più in su. In più conto sul fatto che se mai qualcuno mi prenderà in considerazione per il lavoro e vorrà cercare di ricordarsi qualcosa di me, penserà “ma sì, dai, quella svanita che vuole fare il triathlon!”)
Fine delle trasmissioni. Ci ho messo una settimana per finire due pagine e mezzo di boiate di siffatto calibro. Di contro, quando ho dovuto scrivere la Lettera di presentazione mi ci sono voluti quindici minuti per buttar giù una pagina di “Scegli me!!! Me! Me! Me!!! Dai, Scegli meeeeeeeeeee!!!”: niente di più facile. E adesso lo mando questo capolavoro della comunicazione moderna, che se le facciano pure gli Inglesi due risate!
* Rimane aperta l’opzione “viaggio per il mondo per un po’ e fotte” però mi piacerebbe molto di più intraprendere questa opzione se so di avere un’occupazione ad aspettarmi da lì a qualche mese.
Before midday
Triangles are my favourite shape: three points where two lines meet.
Se hanno fatto tre film che si chiamano, nell’ordine, Before sunrise, Before sunset e Before Midnight, allora io posso scrivere un post con questo titolo, Before midday. Perchè la storia finisce a mezzogiorno, perchè è la storia di due persone, un lui e una lei, perchè uno è una vecchia conoscenza di questo blog e quando si parla di lui si parla sempre di film.
Notturno, esterno. Una grande costruzione grigia e austera sullo sfondo. Lei sta di fianco alla sua bicicletta, si guarda attorno. Ha un mezzo sorriso in faccia, lo stomaco in subbuglio da ore. Sta pensando che arrivare in anticipo agli appuntamenti le è sempre piaciuto, le piace quel guardarsi attorno, cercare di indovinare la direzione da cui la persona arriverà, vedere un puntino lontano che si avvicina: guardarlo, abbassare lo sguardo e sorridere.
Un urlo e due mani arrivano da dietro e la prendono di sorpresa. Lei si gira, è lui. Si abbracciano, come l’ultima volta, con le costole che le sembrano destinate a rompersi in quella presa forte. I primi minuti sono d’imbarazzo, sono passati sei mesi dall’ultimo incontro e le cose da dire escono in ordine sparso, una sull’altra, come se non ci fosse già tempo a sufficienza e troppe parole da dirsi.
Interno, bancone di un locale affollato, musica e chiacchiericcio di sottofondo. Lui e lei ordinano delle birre in bottiglia e si fanno dare due bicchieri. Lui in uno slancio di cavalleria prende le birre e i bicchieri e si avvia verso il tavolo. Assieme ai bicchieri lui prende anche il vasetto delle mance, lei cerca di fermarlo ma non è in grado di proferire parola. Ride, come non rideva da mesi a questa parte, una risata bonaria, cristallina, il suono rotondo che fluisce, circola, ricircola e contagia. Anche lui.
Interno, camera di lei, è nel letto, sola. Si sveglia e ripensa al sogno che ha fatto, uno di quei sogni che ti prendono di prima mattina, che non sai mai se ti sei già svegliata o se sei ancora sotto le coperte. Sa che quello che ha sognato non succederà, ride perchè il suo subconscio non ci è ancora arrivato.
Esterno, davanti a casa di lei. Lui arriva con il suo zaino, l’ultima notte avrebbero dovuto passarla insieme in una città vicina ma all’ultimo momento i piani sono cambiati e lui passerà la notte da lei, su un materasso di fortuna. Arriva alla porta con un sorriso e un bacio sulla guancia per lei, di quelli che le labbra schioccano sulla pelle, sotto lo zigomo. Lui entra, sale le scale e si siede al tavolo e beve un bicchiere d’acqua, giusto il tempo per rischiarare la voce e ricominciare a parlare con lei. Continueranno a farlo per le prossime sei ore.
Esterno, stazione dei treni, poche persone sulla banchina, un ragazzo con la giacca di jeans è seduto su un gradino. Lei lo conosce e lo saluta, il ragazzo fa lo stesso ma è alterato dall’alcol. Iniziano a parare in attesa del treno che arriverà da lì a poco. Il ragazzo ha un forte accento francese che, unito all’alcol, rendono la comprensione delle sue parole difficili. Il ragazzo fa qualche domanda di circostanza a lui e poi chiede “Why are you leaving?“. O almeno entrambi, lui e lei, così capiscono e poco importa che la domanda fosse in realtà “Where are you living?“. Lui risponde “Perchè ci sono delle persone che mi aspettano”, lei soppesa quella risposta e pensa che non le dispiacerebbe se lui non partisse affatto, ma lui questo non lo sa.
Interno, locale affollato, lui e lei sono in piedi con una birra. Parlano di una cosa farebbero se incontrassero una persone uguale in tutto e per tutto a loro. A volte fanno queste conversazioni senza senso, ma le portano avanti con serietà, come se quello fosse un problema che li riguarda quotidianamente, che è bene discuterne e risolverlo. La loro concitazione deve aver attirato l’attenzione di alcuni ragazzi seduti lì vicino che si alzano e vengono a parlargli. Lui si ritrova una bionda un po’ chiatta con degli occhiali senza lenti, lei ha un tizio bassino con i rasta e un anello al naso dalle dimensioni preoccupanti. La marcatura è a uomo, i due figuri cercano di separarli. Sia lui che lei sono in imbarazzo. Dopo qualche minuto entrambe le conversazioni languono, lui e lei con la birra ormai finita ad un segno complice decidono di abbandonare il campo. Il ragazzo chiede a lei il numero di telefono, lui dà a lei dei colpetti con il gomito come un gesto d’intesa. Lei deve mantenere un certo aplomb e non scoppiare a ridere mentre salva quel numero, che non userà mai.
Interno, stazione dei treni sotterranea. Lei dice che quella stazione si chiama Triangolo e che a lei fa molto ridere l’architettura della stazione. Lui dopo poco realizza che è pieno di triangoli, ovunque, all’interno, all’ingresso, sui muri. Quasi subito arriva il treno. Lui e lei salgono e continuano a parlare, tanto per cambiare. Lei chiede quando sia il suo compleanno perchè lui non le ha mai voluto dire il giorno esatto e continua a non volerlo fare. Spiega che la ragione di questo segreto è che delle persone a lui care si sono dimenticate di fargli gli auguri, una volta fu una sua ragazza, un’altra volta sua sorella se ne dimenticò, da allora non vuole che si sappia di questo giorno e che se può si rifugia in un posto isolato in cui stare da solo. Lei pensa alla fragilità di lui nascosta sotto l’apparenza di un ragazzo normale, a quelle zone sensibili che lui le ha già mostrato alcune volte, al suo evitare le delusione proprio perchè evita di mettersi in condizione di averle, le delusioni. Lei pensa che gli regalerebbe una scatola con 31 pacchetti, uno per ogni giorno del mese, così non potrebbe dimenticarsi del suo compleanno. Lei pensa anche che non ce ne sarà bisogno.
Interno, casa di lei, camera da letto. Lui e lei sono appena tornati ed è il momento di cambiarsi e andare a letto. Vanno in bagno a turno, lei è un po’ imbarazzata, non hanno mai condiviso una camera prima d’ora. Lui dormirà su un materasso di fortuna ai piedi del letto di lei che lascia poco spazio per muoversi nella camera. Quando lei torna dal bagno lui è già avvolto nelle coperte, sul materasso ai piedi del letto. Dopo gli ultimi accordi per il risveglio al mattino successivo spengono le luci. Lui si rigira nel letto. Lei pensa a cosa succederebbe se si alzasse e si infilasse sotto le coperte sul materasso ai piedi del letto. Dopo pochi minuti lei dorme.
Interno, casa di lei, cucina. Lui e lei stanno facendo colazione, lei guarda l’orologio. La conversazione la mattina è più lenta e scattosa rispetto al fiume in piena dei due giorni precedenti. A un certo punto parlano anche del tempo, forse complice la pioggia che batte forte sui vetri della finestra. Lei guarda l’orologio perchè il treno per l’aeroporto parte a mezzogiorno, mancano una ventina di minuti, giusto il tempo necessario perchè lui corra alla stazione. Lei glielo fa notare, dice che non vuole buttarlo fuori di casa ma che se vuole prendere quel treno deve andarsene ora. Lui si alza dal tavolo e in tutta tranquillità lava i denti, non prima di aver raccontato una storiella divertente sul dentifricio che è solito usare, raduna le poche cose che aveva lasciato ancora in giro, infila la giacca e prende un ombrello che lei gli offre per ripararsi dalla pioggia. Lui le promette che gli restituirà l’ombrello quando lei andrà a fargli visita. Lei lo accompagna giù dalle scale fino alla porta, si abbracciano, le costole vacillano come al solito, lui fa per andare, poi torna, le scocca un altro bacio sulla guancia e infine se ne va. Lei chiude la porta e risale le scale, guarda fuori dalla finestra ma lui ha già voltato l’angolo della strada e non si vede più.
Matt Berninger, prega per noi
I wanna hurry home to you
Put on a slow dum show for you
and crack you up.
So you can put a blue ribbon on my brain
god I am very very frightened
I’ll over do it.
Se dicessi che le canzoni sono dei piccoli vasi di Pandora dentro a cui ci vanno a cadere momenti speciali, direi una banalità. E infatti l’ho detta. Mannaggia!
Sarò così prevedibile perchè mi arriva poco ossigeno al cervello visto che è da mesi che sono già in iperventilazione perchè questo sabato, finalmente, vado a vedere, sentire, cantare i The National.
Chi hai detto che vai a sentire? I The National. E chi sono, di grazia?
Io non so se i The National sono famosi in Italia, se MTV li ha mai passati o anche una radio qualsiasi. Comunque i The National sono, a mio modesto parere, una delle band migliori che gli anni 0 abbiano visto. E, ovviamente, una band che ha segnato nel bene e nel male questo ultimo anno e mezzo.
Per ragioni fumose che anch’io fatico a spiegarmi, come vedevo la copertina di High violet (il loro penultimo album) apparire nel lettore di Spotify io mandavo avanti la canzone senza possibilità di redenzione, per cui ho dovuto aspettare fino a quando sono capitata per caso ad ascoltare Brainy, che è di un altro album, un pomeriggio qualunque poco prima di Pasqua 2012. (You know I keep your fingerprints in a pink folder in the middle of my table) Fu quella batteria dominante e che cambia in continuazione che mi ha trascinato dentro il baratro dei The National, facendomi passare anche la paura fottuta per le canzoni di High violet, chè tanto ormai era uscita anche la exteded version che aveva una copertina che mi creava meno repulsione immotivata.
Il caso vuole che proprio in HIgh Violet ci fosse una canzone intitolata England (You must be somewhere in London, you must be loving your life in the rain) e chi è che sarebbe partita a giorni per una vacanza (che poi si rivelerà tragicomica) a Londra? Io, of course. E non potevo per nessuna ragione al mondo lasciarmi scappare l’occasione di avere una colonna sonora semi-personalizzata per una quattro giorni con un mio amico invaghito di me e quello che la ggente crede che sia il mio ragazzo (e che invece è solo un caro amico che si è ritrovato, sapendolo dall’inizio, a fare da chaperone). Mi ricordo che quando arrivavo in albergo (una stanza in una casa vittoriana a Bayswater con il pavimento in pendenza) distrutta da una giornata in giro mi coricavo a letto mi mettevo nelle orecchie i The National, per isolarmi per un momento da quel mondo di chiacchiere che dopo quei giorni di compagnia forzata iniziavano a diventare un po’ vuote di significati.
Una volta tornata a casa ho continuato ad ascoltarli e ad apprezzarli sempre di più, ascoltanto prevalentemente i loro tre album più recenti, High Violet, Boxer e Alligator.
Proprio da Alligator viene un’altra canzone in cui sono inciampata. Era in Olanda, avevo avuto una giornata pessima al lavoro e lui sarebbe arrivato da lì a poco a casa mia. Mi ero sdraiata sul letto, ero stanca e nervosa perchè avevo l’ansia da prestazione per quella serata, avevo lasciato acceso Spotify con l’impostazione radio, quella che più random non si può!, e inizia questa canzone (Oh come, come be my waitress and serve me tonight, serve me the sky tonight) La ascolto impegnandomi perchè non voglio perdermi nemmeno una nota, perchè era esattamente la musica che volevo sentire in un momento come quello, anche se non avevo idea di che canzone fosse. Non faccio in tempo ad andare a controllare il titolo che suona il citofono. E’ arrivato.
Quando sono ritornata in Inghilterra questa primavera mi è sembrato ovvio rispolverare la vecchia colonna sonora che tanto aveva dato soddisfazioni l’anno precedente, per cui mi sono fatta proprio una playlist che si chiama “England”, la fantasia proprio.
Il caso vuole che durante un film con il Belga (il Belga! Guarda chi andiamo a rispolverare…) la canzone finale del film su cui se hai un cuore da qualche parte ti viene un magone infinito e su cui scorrono i titoli di coda (che ci siamo visti tutti fino all’ultimo dei truccatori) era questa (Don’t leave my hyper heart alone on the water, cover me in rag and bones. sympathy. cause I don’t wanna get over you). Da allora questa canzone che già è tristissima di suo, ha guadagnato il gusto extra dell’atmosfera di quelle settimana, di un’amicizia che, va be’, mi ha fatto stare bene e mi ha fatto pensare parecchio. Alle opportunità, al coglierle, allo sprecarle.
Come se questo non fosse sufficiente per far capire che la mia grama vita e quella dei The National tutti sono legate a doppio filo, quando sono ancora in Inghilterra, poco prima che i fantasmi Olandesi ritornassero, i The National rilasciano ben due singoli del loro nuovo album (Cannot stay here I can’t sleep on the floor, drink the blood and hang the palms on the door, do not think I am going places anymore, wanna see the sun com up above New York) Da lì a poco seguirà un album, che purtroppo non amerò incredibilmente come i precedenti, quelli con le canzoni che canto ad alta voce sulla via di casa, che tanto non incrocio mai nessuno, e quelle volte che succede gli sorrido e continuo sulla mia strada. L’unica che salvo è forse (I am having troubles inside my skin, I try to keep my skeletons in, I’ll be a friend and a fuck up and everything but I’ll never be averything you ever wanted me to be. I keep coming back here were everything… slipped)
Sto notando che con il continuare di questo post le citazioni delle canzoni diventano sempre più lunghe, quindi è forse il caso di piantarla qui prima che diventii, più di quanto già non sia ora, una lunga lista di dediche da Smemoranda.
Matt Berninger, io ti vengo a vedere questo sabato. Per favore, tu apri tutti i vasi di Pandora che trovi. Non avere pietà. Chè in questo periodo un po’ grigio ho bisogno che mi rimescoli dentro tutte le emozioni di questi mesi passati insieme.
(In tutto questo sproloquio non ho commentato la canzone iniziale, Slow show, che secondo me è la più onesta dichiarazione d’amore (se, e dico SE, l’amore esiste) che si possa mai fare)
Fa la cosa giusta – Albione edition
Cos’erano? Tre settimane che non prendevo un aereo?
Non vedevo l’ora di andarmene da queste quattro case in un angolo del mondo per respirare dell’aria nuova. Aria respirata da altre seicento persone. Aria condizionata che arrivava direttamente dal polo Nord.
Se l’anno scorso mi avevano mandato a Disagioville, quest’anno sono stata rispedita ad Albione, perchè chiaramente gli organizzatori di conferenze non sono dotati di una mappamondo e continuano a rimbalzarmi tra la solita manciata di posti. La conferenza, per lo standard degli eventi di questo tipo, era una roba grossa e soprattutto lunga: cinque giorni di socialità forzata in cui gente che fa più o meno le stesse cose si ritrova in uno spazio ridotto, sperando che qualcosa di buono ne venga fuori.
Potrei raccontare mille cose: del post-doc bonazzo di Vienna, il marpione Belga, le (tropp(issim)e) birre, la ggente che tu la vedi e pensi che siano degli sfigati senza speranza che non possono sostenere una conversazione, la felicità dopo cinque giorni di avere un pomeriggio in cui puoi fare un pisolo e non ci sia nessuno che ti rompa le palle.
Però delle cose pseudo-scientifiche su questo blog non ci è dato parlarne. Pare brutto ma sono le regole. Qui si parla di roba sugosa e soprattutto fatti miei.
E’ successo che ho chiuso un capitolo, quello con il collega che vive di là dal ponte. Mi è sembrato un’infinità di tempo che non dicevo un no, che alla fine a fare due conti di no ne ho detti anche meno di un anno fa, ma questo era un no detto con sicurezza, a denti stretti. Era un no che non sapevo se sarei stata capace di dire: con il fatto che le cose sono andate a scatafascio nell’ultimo mese, un po’ di compagnia è un ottimo modo per scacciare i pensieri, o almeno rimandarli a più tardi. E invece ho detto no e mi è sembrata la cosa più ovvia da fare, la cosa giusta da fare. Non sono serviti gli apprezzamenti, le occhiate e i messaggi ambigui.
Sono rimasta sulle mie posizioni e mi va bene così.
Me lo ero ripromesso tempo fa, dopo che ci eravamo sentiti, ancora ai tempi dell’Olanda. Era il tempo di finirla con questo prendersi e lasciarsi e dopo ben due anni e una serie costante di ritorni, si può dire che è roba passata.
Ma.
Quando sono tornata in aeroporto, ieri sera, e due davanti a me si mangiavano la faccia dai baci non ho potuto non sentire che il respiro un po’ si affannava, il torace diventava stretto e l’aria non bastava. Vuoi che sia stato il ritorno a una vita “normale”, vuoi che con gli aeroporti di questi tempi ho un rapporto di amore-odio, ma nell’aspettare il treno avevo un bel po’ di cose a cui pensare.
Pensavo che anche se ne ho messo alle spalle uno, me ne rimane ancora uno da accantonare, quello più recente. Pensavo che è un periodo in cui la testa è piena di preoccupazioni e che io riesco ad affrontare un problema alla volta, quindi lui dovrà aspettare. Non che si starà struggendo perchè ho smesso di contattarlo, avendo smesso lui per primo. Solo che adesso non mi sento proprio di promettere niente a nessuno. Pensavo che lo ho pensato e penso che lui non faccia lo stesso. Penso che questo sia triste, come mi attacco alle persone e non le riesca a mettere da parte, a come adoro vivere nel passato, mentre il tempo (e le persone) là fuori vanno avanti.
Pensavo che il mio collega ed ex ragazzo mi ha chiesto se di questo qui io ne fossi innamorata e pensavo che io non sono stata capace di dire di sì. Proprio non mi veniva. Gli ho risposto che mi piaceva, tanto. Che forse è un primo passo per ammettere che tutte queste paturnie presto si dissolveranno. Magari alla fine di Luglio, che è stato brutto quanto i mesi precedenti sono stati belli.
Perchè il karma è una troia e non gliene importa se tu fai la cosa giusta.
Infine. Finalmente.
Durante il film Dans la maison il ragazzo chiede al professore come dovrebbe essere il finale di un libro. Il professore risponde che la fine non deve essere nè ovvia nè troppo fantasiosa ma allo stesso tempo il lettore deve pensare: “sì, non sarebbe potuta andare in nessun altro modo se non così”.
In un finale circolare, citando Dans la maison da dove tutto è iniziato, racconto gli ultimi giorni di Albione (meglio tardi che mai).
Le puntate precedenti si perdono negli abissi di questo blog: in breve eravamo rimasti che io ero rimasta da sola ma tutto sommato serena ad Albione in attesa che il Belga tornasse da una vacanza di dieci giorni con la sua ragazza. Dal giorno del suo ritorno alla data mia partenza c’è sì e no una settimana.
Infine, finalmente, il Belga ritorna. Con lui c’è un naso bruciato dal sole delle bianche scogliere di Dover e un virus intestinale. La mia malefica pianificazione di uscite e eventi si vede fortemente rallentata dalla sua debilitazione fisica. E poi succede qualcosa che nemmeno il più infido degli sceneggiatori avrebbe potuto prevedere.
Io faccio un sogno.
Sono le ore appena prima del risveglio, quando i sogni hanno una parte di realtà e una parte di fantasia, e per questo rimangono impressi nella memoria anche dopo che ci si sveglia. Nel sogno c’ero io e qualcuno che mi baciava, con calma, come se avesse tutto il tempo di questo mondo e non dovesse fare altro per il resto dei suoi giorni. Era il ragazzo del tuffo di testa, la colossale sbandata che mi ero presa durante il mio tempo Olandese. L’ultimo fotogramma che mi ricordo nel sogno ero io che gli chiedevo: “Perchè sei arrivato adesso? Perchè ci hai messo tutto questo tempo?”.
Fine del sogno. Sveglia, giù dalle brande, con ancora nella memoria questo incontro del tutto imprevisto.
Passa un giorno e mentre il Belga continua a vomitare l’anima io sono da sola nella mia stanza. Il computer, così come il telefono, sono delle brutte bestie: fanno sì che le persone siano vicine anche quando non lo sono. Per prendere coscienza delle vere distanze dovremmo solo avere a disposizione carta e penna. Scrivo una lettera, la straccio, la riscrivo, la imbuco, aspetto con ansia che arrivi, sia letta, riceva una risposta. Ai giorni nostri invece c’è Skype, mannaggia a lui!, quindi aggirando l’ostacolo dello spazio-tempo, cedo ai miei fermi propositi illuministi che dicono che un sogno è solo un sogno, e gli scrivo. Scrivo una stronzata qualsiasi, ai limiti del senza senso. Cosa ancora più senza senso, lui mi risponde subito.
Iniziamo a scrivere, una battuta dopo l’altra, con lo stesso ritmo serrato dei bei tempi che furono e alla fine questi tempi che furono vengono ripescati, si apre un vaso di Pandora rimasto tanto tempo in disparte e lui mi dice quello che avrebbe dovuto spiegare sette mesi fa. Tu mi piacevi tanto ma la scelta era tra vedersi, piacersi e rimanerci malissimo quando te ne saresti andata o non vedersi e rimanerci male solo un po’.
E qui adesso avrei potuto iniziare una polemica infinita su rimanerci male/malissimo/malerrimo, giochi che valgono le candele, razionalità vs. incoscienza anche a 20 anni e passa, scuse di merda che potrebbero celare altre verità. Invece, contro ogni previsione e contro ogni logica rispetto a quello che mi aveva appena detto mi chiede: “Ci vediamo?”.
La domanda mi coglie impreparata, glisso, rispondo vaga e scherziamo riguardo viaggi attorno al mondo per incrociarci. Ci avrei pensato un po’ su, come quando provi un vestito e dici alla commessa che ci pensi ma tu lo sai che andrai a guardare cento altri vestiti e poi ritornerai a comprare quello.
Quella notte, per una misteriosa legge del contrappasso non ho dormito, pensando a dove e come ci saremmo potuti vedere, ma soprattuttoa tutti i perchè. Perchè dopo mesi questo se ne esce dal nulla così propositivo, sicuro come non fu allora. Perchè io avrei dovuto imbarcarmi in un’impresa del genere, le cazzo di distanze, skype, i pochi idilliaci giorni al mese che non sono nemmeno lontanamente uno spaccato della realtà. Perchè sì, perchè non sempre serve una buona ragione e nemmeno una ragione, perchè le cose si fanno di pancia e basta.
La mattina dopo, stremata da una notte a fantasticare, incontro il Belga in cucina che chiede l’unica cosa che non avrebbe dovuto chiedere: “Dormito bene?”. La deprivazione da sonno mi rende sempre molto sincera e lì su due piedi gli racconto tutta la rava e la fava, il fatto che io ci dovrei pensare, ma è molto più sì che no. Lui ascolta divertito, lo hanno sempre interessato i miei piccoli psico-drammi. Gli dico che in questo momento non sono particolarmente critica quindi lui ha tutto il diritto di dire che sto facendo una cazzata. Dice che non ha grande esperienza in merito, che non è detto che deve andare per forza tutto bene, magari dopo un giorno le cose prendono una brutta pige, però non sa bene cosa consigliare. Dev’essere mattina pure per lui, anche se ha dormito.
Siamo ormai agli sgoccioli di Albione, climax ascensionale prima dei titoli di coda.
Negli ultimi fotogrammi ci sono io che penso, io che comunico le mie decisioni (via skype), io che prenoto voli, treni e tutto il resto. Con un po’ di tremarella e con mille ore di sonno arretrato. Io che pianifico un viaggio, che lo cambio, lo ripianifico e infine confermo.
Negli ultimissimi fotogrammi ci sono io che esco a cena con il Belga in un ristorante con la luce soffusa, e ridiamo, parlo dei fatti miei senza troppi pudori e lui a me, la candela sul tavolo, la grande finestra che dà sulla strada. Non posso fare a meno di estraniarmi per un momento dalla conversazione e immaginare un passante che ci guarda da quella grande finestra. Se avessi chiesto al passante “ma secondo te io e quello lì cosa siamo?”, lui avrebbe probabilmente detto “due che escono inseme”. Quella sera al ristorante c’era un’altra coppia, parlavano a stento, non sorridevano e nemmeno ci provavano. E noi invece ridevamo, oh se ridevamo.
Le cose non sono sempre come sembrano. Chi non si parla e si ama (forse). Chi è complice e non compagno. Chi ti vuole e non lo dice.
Quando mi ha salutato l’ultima sera mi ha abbracciato così forte che pensavo mi sarebbero saltate un paio di vertebre. Era un abbraccio sincero e penso che nessuno mi abbia stretta così forte prima d’ora. Ognuno per la propria strada. Non so la sua, ma la mia non sembra così brutta.
Titoli di coda.
Ciao Albione. Ciao.
Come un film
C’è da dire che quando trovo una metafora mi ci attacco fortissimo: il tema cinematografico la fa da padrone nel mio racconto Albionese!
Giusto per ammazzare le vostre aspettative su questo post vi dico subito che per quanto riguarda i “gossip sugosi” vi tocca aspettare ancora un po’ perchè il Belga torna Martedì. Lo so, avevo promesso sarebbe tornato questo venerdì ma è dovuto andare in Belgio e torna tra qualche giorno. Piuttosto compatite me, che a venerdì mattina mi sono alzata con lo stesso entusiasmo di un bambino alla mattina di Natale e a mezzogiono mi vedo un sms che mi annuncia l’infausto ritardo! L’improvvisa defezione non solo ha dato un’accettata ai miei livelli ormonali (che erano up in the sky with diamonds) ma ha anche fatto sì che questo fine settimana fosse del tutto senza piani.
E adesso che faccio?
Purtroppo questa foto è stata presa nell’unico momento di sole pieno e le mucche erano tutte transumate dall’altra parte del sentierino che non è così spettacolare, ma vi assicuro che con un po’ di nebbia e la luce bassa sull’orizzonte vi potete immaginare la scheletrica Keira che scorrazza felice per i campi con quella sua espressione un po’ così, quella con la bocca semi aperta, che è anche l’unica espressione che fa.
La ciliegina sulla torta è il classicissimo chiesa diroccata con annesso cimitero con lapidi assortite.
Cotale amenità giace accanto alla fermata dell’autobus (e qui la luce mi è un po’ più favorevole rispetto alla precedente immagine!) e la foto in questione è stata scattata il primo giorno d’Albione, mentre cercavo di indovinare la via di casa e il sole incominciava a tramontare. Nel caso mi fossi persa avrei sempre potuto bussare alla porta di questa chiesa diroccata e…
Fine primo tempo
(Se mi dicessero che questa è l’unica canzone che posso ascoltare da qui alla fine dei miei giorni, non la prenderei troppo male)
Sono arrivata a poco più di metà della mia avventura Albionese ed è già tempo di bilanci. Così come è successo durante il periodo Olandese, sono felice. Sono felice della stessa felicità per cui non c’è niente di incredibilmente perfetto da farmi svegliare alla mattina con un sorriso. Ma che lo voglia o no, quel sorriso ce l’ho in faccia.
Sono quasi quattro settimane. Ci sono stati giorni in cui mi sono chiesta che cosa ci facevo qui. Per la prima settimana non ho nemmeno disfatto la valigia, ce l’avevo aperta in mezzo alla camera, con ancora i vestiti piegati all’interno. Nemmeno dovessi decidere di chiuderla, prendere la porta e tornare da dove sono venuta. E invece niente, dopo un po’ la valigia l’ho disfatta e adesso ci ho pure preso gusto.
Scrivo di sabato sera, perchè sono a casa. Il sabato sera a casa era una cosa che non mi succedeva da secoli: il fine settimana, per me sacro e dedicato a qualsiasi attività purchè fuori di casa e in compagnia, non è più imprescindibile. Alla fine qui conosco una manciata di persone, nella casa stasera penso ci saremo solo io e la Cinese.
L’Italiano è probabilmente fuori con la Brasiliana (ve l’avevo detto che c’è una Brasiliana? No? Bè, mi sta sul cazzo e questo è più o meno quanto). L’Algerino è disperso altrove. L’Hondurena visto che non spiccica una parola di Inglese è andata a Vienna per una settimana, magari il Tedesco le riesce più congeniale. L’Indiano se ne è andato e non ritorna più. Il Tedesco sta copulando con la sua ragazza (poichè ho scoperto che questa è la ragione per cui non è mai a casa). Il Belga sta copulando con la sua ragazza pure lui, probabilmente, visto che per qualche giorno è a Londra, con lei e mille altre persone. E io invece sono qui, con la piantina di basilico che il Belga mi ha pregato di curargli in sua assenza, come in una rivisitazione della scena finale di “Leon”, dove alla fine rimango da sola, io con la piantina. Che poi io nemmeno le so curare le piante e se non ci si crede, chiedete a mia mamma del genocidio botanico quella volta che i miei sono andati in vacanza per una settimana e mi hanno lasciato i vasi da innaffiare. Ho seriamente pensato che i miei mi avrebbero disconosciuta quella volta.
Le altre persone che conosco sono le ragazze del laboratorio e con loro sono uscita ieri sera. Alle cinque siamo andate al pub per “una birra”, che è diventata un’altra birra, che è diventata una cena, seguita da tre giri di sambuca e ancora una birra. Morale della favola, alle undici il pub ha chiuso e ci ha buttato per strada, che mai fu così difficile da percorrere anche se erano solo dieci minuti fino alla mia prigione. Oltre a non avere il senso della misura per l’alcool, devo dire che quelle ragazze mi piacciono. A differenza di molta altra gente che conosco attraverso il lavoro, non si prendono troppo sul serio, il che è sempre un valore aggiunto quando il tuo progetto di ricerca riguarda cose che nemmeno a quelli che lavorano nel tuo campo gliene potrebbe fregare di meno.
Questo è il mucchietto di persone che mi accompagnano in questa avventura. Certo, ci sono tutti gli altri, quelli che sono disseminati da qualche parte nel mondo e che di tanto in tanto mi mandano una e-mail con dentro un po’ d’amore sfuso.
E sono felice.
Inizio a sospettare che la ragione di questa estasi, la mia droga, sia questa possibilità che mi è stata data, quella di viaggiare. Una vita da semi-nomade. La vita in Svezia, quattro mesi di fuga in Olanda, un paio in Svezia e poi ancora in Inghilterra. Ogni volta che approdo in un posto nuovo ho la possibilità di ripartire da zero. Zero è un numero che fa un po’ paura però è il brivido che conta, che ti dà la scossa e ti fa cominciare. Ogni volta posso reinventarmi ed essere quello che voglio.
In Svezia, all’inizio, ero quella piena di buoni sentimenti, quella che fa-la-cosa-giusta e dio solo sa a quali terribili risultati ha portato tutta la mia voglia di correttezza.
In Olanda sono diventata Italiana, ho rispolverato un amore per la mia nazione e per le persone che ci vivono. Come ogni mio amore, anche quello per l’Italia è un amore mal riposto, mi pare di capire.
Qui sono una radical-chic che ognuno nel mondo si dovrebbe sentire in dovere di odiare, imparo di film che anche la mamma del regista si è rifiutata di vedere e il Belga mi legge le poesie decadenti mentre mangio gli involtini primavera, mia unica vera fonte di sostentamento.
Il problema è che non posso condurre una vita con la data di scadenza in eterno. Verrà il giorno in cui dovrò mettere la testa a posto, in un unico posto, e provare a rimanerci. Temo quel giorno e allo stesso modo lo aspetto curiosa, per vedere chi sarò allora e quanto detestabile sarò diventata. Per il momento mi godo l’effimera felicità di questa nuova vita, che tra tre settimane finirà in un secondo, proprio come è incominciata.