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A-way

Temevo sarebbe successo prima o poi: mi tocca iniziare un post scusandomi per l’assenza. Che poi magari si stava vivendo benone anche senza il mio sproloquiare, sia chiaro, ma mi sento in debito io e lo devo mettere per iscritto.

Sono in debito di qualche storia, almeno di un concerto, un viaggio e di una rubrica “Prove di fuga”, se non di qualcos’altro, ma qui viene sera e c’è tutto da fare (come diceva la mia professoressa di lingue delle medie).

La ragione di questo non scrivere è proprio la mancanza di tempo per l’essere troppo a zonzo e quando non sono in giro sono in casa a fare pacchi, come questa sera, in cui mi sono autoinflitta una reclusione al sabato perchè sono uscita mercoledì, giovedì e venerdì, e se poi mi prende uno scioppone si sa con chi prendersela. E perchè comunque i pacchi non si fanno da soli.

Pacchi, dicevo. Sto impacchettando tutto perchè trasloco. Niente di trascendentale sulla carta, vado ad abitare a un paio di chilometri da dove sono ora, un po’ più distante dal mio ufficio per delimitare geograficamente casa e lavoro, un po’ meno circondata da quella menomata mentale della mia (ormai) ex coinquilina.
Costei è stata citata in questi luoghi ormai due anni fa e lungi da me andare a rivangare istanze passate, presenti e (speriamo di no) future. Però posso dire che ha messo a dura prova i miei nervi comportandosi scorrettamente in ogni modo possibile e immaginabile. Alla fine tutto è andato più o meno per il meglio per entrambe le parti, io ho avuto quello che chiedevo senza scendere al suo becero livello e lei ci ha guadagnato un centinaio di euro e un bilancio stranegativo di punti karma.

Se sono riuscita a superare il mobbing della mia coinquilina negli ultimi mesi lo devo un po’ anche a Christopher Owens, l’ultimo dei cantanti disadattati che mi scaldano tanto il cuore e che mi canta sempre la canzone giusta al momento giusto. Quest’anno con l’inno della buona creanza che ho messo sopra, l’anno scorso con l’album della storia a distanza naufragata penosamente, un po’ di anni prima con delle canzoni bellissime e basta in un disco che si chiama “Father son and holy ghost” che il mio compagno di ufficio aveva sperato in una mia conversione e invece poi viene fuori un capellone biondo, una decina di toni di tinta più chiara di gesù. Tra poco uscirà un suo nuovo album e se tanto mi da tanto parlerà di traslochi, ricerca di lavoro e di una deludente vita amorosa.

Nonostante la recente overdose di Christopher Owens, qualche notte fa mi è apparso in sogno Manuel Agnelli, che anche lui è un po’ un gesù con i capelli più scuri. Mi ha detto (in inglese) che andrà tutto bene, mi ha ricordato quali sono, o dovrebbero essere, le mie priorità e poi è suonata la sveglia.

Credo di aver bisogno di una pausa ma dopo questo trasloco si cambia musica. Figurativamente parlando.

C’era una volta un re (l’ultima della serie)

C’era una volta un re

Seduto sul sofà

Che chiese alla sua serva

“Raccontami una storia!”

La storia incominciò…

 

C’era una volta una casa, con la muffa negli angoli delle pareti, una scrivania da ufficio, un armadio a ponte e due letti. In quella stanza sgarruppata iniziarono ad abitare due fanciulle: una ero io, l’altra era lei. Io e lei ci eravamo scelte dopo qualche mese di conoscenza per andare a vivere insieme nel periodo dell’università e visto che non eravamo ricche ereditiere, avevamo deciso di condividere una stanza, con tutto quello che implica essere nello stesso spazio per cinque giorni a settimana, respirare la stessa aria, addirittura, seguire gli stessi corsi.

Abbiamo iniziato nella casa con la muffa, per poi arrivare alla casa dei ghiacci, che d’inverno dormivo affogata sotto a due piumoni tirati fin sopra la testa, io, invece lei, che viene dalla montagna, affrontava il freddo con un certo aplomb. Quella casa fredda, una casa di bulle diceva un cartello in cucina, ne ha viste di tutti i colori. Ha visto lei che si lasciava con il primo moroso di sempre, lei che piangeva ascoltando una canzone che nemmeno mi ricordo più, forse era De Andrè, ma mi chiedo se mai la radio blu metallizzato della cucina lo abbia suonato De Andrè. Lei ha avuto qualche momento in cui non sapeva bene dove andare a parare, ma poi ha iniziato a parlare del suo amico, quello di cui è spuntata una foto in camera, dove sorridono a una festa con il pollice in su tutti e due.

Il suo amico, più grande di lei ma solo in età, ha sempre avuto un problema, che è comune a tanti ma proprio tanti, quello che non sapeva se voleva, cosa voleva e soprattutto perchè voleva. Il suo amico, oltre ad avere quel problema, ne aveva anche un altro, ovvero che il papà era ammalato e in poco tempo se ne andò. Lei, che è una con i controcazzi, in quel periodo si prese cura di lui, che si prendeva cura di suo padre, senza avere niente in cambio, senza pretendere niente.

Dopo qualche mese, dopo l’estate, mentre io e lei stavamo condividendo altre stanze più provvisorie, piene di letti a castello e di zaini di girovaghi in un’isola lontana, mi raccontò che lui non ancora si era deciso. Però forse era un po’ più convinto di prima. Un po’. Ad ogni mese che passava, lui si decideva un po’ di più. Un po’.

Ci è voluto un altro po’, ma alla fine la settimana scorsa si sono sposati. Perchè a volte uno lo sa subito, a volte uno lo ha sempre saputo e altre volte uno lo sa un po’.

C’era una volta un re, seduto sul sofà…

… Che chiese alla sua serva: “Raccontami una storia!”. La storia cominciò.

C’era una volta in un tempo lontano una coinquilina che amava leggere i giornali. Le piaceva così tanto che anche se era una poco più che ventenne studentessa senza fisso stipendio li comprava quasi tutti i giorni.

Il caso volle che a vendere i giornali ci fosse un bel ragazzo. La coinquilina se ne innamorò subito, anche se dal gabbiotto dell’edicola si vedeva solo il viso le mani e un po’ di busto: l’edicolante l’aveva ammaliata fin dal primissimo Corriere della Sera. Da lì in poi, ogni giorno la coinquilina aspettava con ansia il momento dell’acquisto del giornale, sperando che ad attenderla ci fosse il bell’edicolante e non un altro commesso.

Gli introiti di quell’edicola crebbero esponenzialmente in quel periodo perché quando la coinquilina raccontò alle amiche dell’aitante venditore tutte vollero valutare con i propri occhi quel portento di giornalaio. Chi comprò ricariche del telefono, chi Focus e ci fu perfino chi comprò il Cioè. I giudizi sull’edicolante non erano unanimi ma questo non faceva vacillare l’infatuazione della coinquilina.
I mesi passavano, le copie del Corriere si impilavano in un angolo del corridoio ma la coinquilina non otteneva altro dall’edicolante che un giornale e un sorriso (e per il primo doveva pure pagare). L’esasperazione delle sue altre coinquiline stava raggiungendo il limite: la coinquilina era sempre più innamorata e quelle poverette dovevano ascoltare le lodi dell’edicolante, impotenti davanti alla totale mancanza di interesse per la povera coinquilina innamorata.

Allora un’altra coinquilina, quella che aveva comprato Cioè, fece una magia. Una sera la coinquilina del Cioè, grazie alle informazioni carpite durante i numerosi acquisti all’edicola e a due valenti aiutanti, dal nome Pagine Gialle e Facebook, scoprì nome e cognome dell’edicolante e li rivelò alla coinquilina innamorata. Grazie al magico folletto blu, che i più ricordano con il nome di Facebook, la coinquilina scrisse all’edicolante la peggiore lettera d’amore che il mondo delle fiabe ricordi. Per giustificare questa inaspettata interazione si inventò una scusa falsa come banconota da 7 euro e mandò un messaggio all’edicolante. Con grande stupore delle altre coinquiline, il baldo edicolante rispose subito, nonostante la piatta inventiva della coinquilina. Lo sbigottimento arrivò alle stelle quando leggemmo il suo messaggio: l’edicolante non si poneva problemi logico-probabilistici per l’arrivo di quel messaggio, ma anzi se ne rallegrava è auspicava che presto, oltre a un giornale, là coinquilina avrebbe voluto sorseggiare una bevanda facendogli dono della sua compagnia.

Grande festa alla corte di Francia per quelle parole, che può essere riassunta con un urletto isterico e da lì a poche ore i due si incontrarono fuori dall’edicola e si piacquero troppissimo.

Dopo quel giorno, tanti altri giorni felici seguirono. Ce ne fu anche qualcuno triste ma per lo più erano bellissimi. Ed insieme giunsero fino all’altro ieri, quando dopo quattro anni insieme convolarono a giuste nozze.

E vissero per sempre felici e contenti.

Infine. Finalmente.

Durante il film Dans la maison il ragazzo chiede al professore come dovrebbe essere il finale di un libro. Il professore risponde che la fine non deve essere nè ovvia nè troppo fantasiosa ma allo stesso tempo il lettore deve pensare: “sì, non sarebbe potuta andare in nessun altro modo se non così”.

In un finale circolare, citando Dans la maison da dove tutto è iniziato, racconto gli ultimi giorni di Albione (meglio tardi che mai).

Le puntate precedenti si perdono negli abissi di questo blog: in breve eravamo rimasti che io ero rimasta da sola ma tutto sommato serena ad Albione in attesa che il Belga tornasse da una vacanza di dieci giorni con la sua ragazza. Dal giorno del suo ritorno alla data mia partenza c’è sì e no una settimana.

Infine, finalmente, il Belga ritorna. Con lui c’è un naso bruciato dal sole delle bianche scogliere di Dover e un virus intestinale. La mia malefica pianificazione di uscite e eventi si vede fortemente rallentata dalla sua debilitazione fisica. E poi succede qualcosa che nemmeno il più infido degli sceneggiatori avrebbe potuto prevedere.

Io faccio un sogno.

Sono le ore appena prima del risveglio, quando i sogni hanno una parte di realtà e una parte di fantasia, e per questo rimangono impressi nella memoria anche dopo che ci si sveglia. Nel sogno c’ero io e qualcuno che mi baciava, con calma, come se avesse tutto il tempo di questo mondo e non dovesse fare altro per il resto dei suoi giorni. Era il ragazzo del tuffo di testa, la colossale sbandata che mi ero presa durante il mio tempo Olandese. L’ultimo fotogramma che mi ricordo nel sogno ero io che gli chiedevo: “Perchè sei arrivato adesso? Perchè ci hai messo tutto questo tempo?”.

Fine del sogno. Sveglia, giù dalle brande, con ancora nella memoria questo incontro del tutto imprevisto.

Passa un giorno e mentre il Belga continua a vomitare l’anima io sono da sola nella mia stanza. Il computer, così come il telefono, sono delle brutte bestie: fanno sì che le persone siano vicine anche quando non lo sono. Per prendere coscienza delle vere distanze dovremmo solo avere a disposizione carta e penna. Scrivo una lettera, la straccio, la riscrivo, la imbuco, aspetto con ansia che arrivi, sia letta, riceva una risposta. Ai giorni nostri invece c’è Skype, mannaggia a lui!, quindi aggirando l’ostacolo dello spazio-tempo, cedo ai miei fermi propositi illuministi che dicono che un sogno è solo un sogno, e gli scrivo. Scrivo una stronzata qualsiasi, ai limiti del senza senso. Cosa ancora più senza senso, lui mi risponde subito.

Iniziamo a scrivere, una battuta dopo l’altra, con lo stesso ritmo serrato dei bei tempi che furono e alla fine questi tempi che furono vengono ripescati, si apre un vaso di Pandora rimasto tanto tempo in disparte e lui mi dice quello che avrebbe dovuto spiegare sette mesi fa. Tu mi piacevi tanto ma la scelta era tra vedersi, piacersi e rimanerci malissimo quando te ne saresti andata o non vedersi e rimanerci male solo un po’.

E qui adesso avrei potuto iniziare una polemica infinita su rimanerci male/malissimo/malerrimo, giochi che valgono le candele, razionalità vs. incoscienza anche a 20 anni e passa, scuse di merda che potrebbero celare altre verità. Invece, contro ogni previsione e contro ogni logica rispetto a quello che mi aveva appena detto mi chiede: “Ci vediamo?”.

La domanda mi coglie impreparata, glisso, rispondo vaga e scherziamo riguardo viaggi attorno al mondo per incrociarci. Ci avrei pensato un po’ su, come quando provi un vestito e dici alla commessa che ci pensi ma tu lo sai che andrai a guardare cento altri vestiti e poi ritornerai a comprare quello.

Quella notte, per una misteriosa legge del contrappasso non ho dormito, pensando a dove e come ci saremmo potuti vedere, ma soprattuttoa tutti i perchè. Perchè dopo mesi questo se ne esce dal nulla così propositivo, sicuro come non fu allora. Perchè io avrei dovuto imbarcarmi in un’impresa del genere, le cazzo di distanze, skype, i pochi idilliaci giorni al mese che non sono nemmeno lontanamente uno spaccato della realtà. Perchè sì, perchè non sempre serve una buona ragione e nemmeno una ragione, perchè le cose si fanno di pancia e basta.

La mattina dopo, stremata da una notte a fantasticare, incontro il Belga in cucina che chiede l’unica cosa che non avrebbe dovuto chiedere: “Dormito bene?”. La deprivazione da sonno mi rende sempre molto sincera e lì su due piedi gli racconto tutta la rava e la fava, il fatto che io ci dovrei pensare, ma è molto più sì che no. Lui ascolta divertito, lo hanno sempre interessato i miei piccoli psico-drammi. Gli dico che in questo momento non sono particolarmente critica quindi lui ha tutto il diritto di dire che sto facendo una cazzata. Dice che non ha grande esperienza in merito, che non è detto che deve andare per forza tutto bene, magari dopo un giorno le cose prendono una brutta pige, però non sa bene cosa consigliare. Dev’essere mattina pure per lui, anche se ha dormito.

Siamo ormai agli sgoccioli di Albione, climax ascensionale prima dei titoli di coda.

Negli ultimi fotogrammi ci sono io che penso, io che comunico le mie decisioni (via skype), io che prenoto voli, treni e tutto il resto. Con un po’ di tremarella e con mille ore di sonno arretrato. Io che pianifico un viaggio, che lo cambio, lo ripianifico e infine confermo.

Negli ultimissimi fotogrammi ci sono io che esco a cena con il Belga in un ristorante con la luce soffusa, e ridiamo, parlo dei fatti miei senza troppi pudori e lui a me, la candela sul tavolo, la grande finestra che dà sulla strada. Non posso fare a meno di estraniarmi per un momento dalla conversazione e immaginare un passante che ci guarda da quella grande finestra. Se avessi chiesto al passante “ma secondo te io e quello lì cosa siamo?”, lui avrebbe probabilmente detto “due che escono inseme”. Quella sera al ristorante c’era un’altra coppia, parlavano a stento, non sorridevano e nemmeno ci provavano. E noi invece ridevamo, oh se ridevamo.

Le cose non sono sempre come sembrano. Chi non si parla e si ama (forse). Chi è complice e non compagno. Chi ti vuole e non lo dice.

Quando mi ha salutato l’ultima sera mi ha abbracciato così forte che pensavo mi sarebbero saltate un paio di vertebre. Era un abbraccio sincero e penso che nessuno mi abbia stretta così forte prima d’ora. Ognuno per la propria strada. Non so la sua, ma la mia non sembra così brutta.

Titoli di coda.

Ciao Albione. Ciao.

Fine primo tempo

(Se mi dicessero che questa è l’unica canzone che posso ascoltare da qui alla fine dei miei giorni, non la prenderei troppo male)

Sono arrivata a poco più di metà della mia avventura Albionese ed è già tempo di bilanci. Così come è successo durante il periodo Olandese, sono felice. Sono felice della stessa felicità per cui non c’è niente di incredibilmente perfetto da farmi svegliare alla mattina con un sorriso. Ma che lo voglia o no, quel sorriso ce l’ho in faccia.

Sono quasi quattro settimane. Ci sono stati giorni in cui mi sono chiesta che cosa ci facevo qui. Per la prima settimana non ho nemmeno disfatto la valigia, ce l’avevo aperta in mezzo alla camera, con ancora i vestiti piegati all’interno. Nemmeno dovessi decidere di chiuderla, prendere la porta e tornare da dove sono venuta. E invece niente, dopo un po’ la valigia l’ho disfatta e adesso ci ho pure preso gusto.

Scrivo di sabato sera, perchè sono a casa. Il sabato sera a casa era una cosa che non mi succedeva da secoli: il fine settimana, per me sacro e dedicato a qualsiasi attività purchè fuori di casa e in compagnia, non è più imprescindibile. Alla fine qui conosco una manciata di persone, nella casa stasera penso ci saremo solo io e la Cinese.

L’Italiano è probabilmente fuori con la Brasiliana (ve l’avevo detto che c’è una Brasiliana? No? Bè, mi sta sul cazzo e questo è più o meno quanto). L’Algerino è disperso altrove. L’Hondurena visto che non spiccica una parola di Inglese è andata a Vienna per una settimana, magari il Tedesco le riesce più congeniale. L’Indiano se ne è andato e non ritorna più. Il Tedesco sta copulando con la sua ragazza (poichè ho scoperto che questa è la ragione per cui non è mai a casa). Il Belga sta copulando con la sua ragazza pure lui, probabilmente, visto che per qualche giorno è a Londra, con lei e mille altre persone. E io invece sono qui, con la piantina di basilico che il Belga mi ha pregato di curargli in sua assenza, come in una rivisitazione della scena finale di “Leon”, dove alla fine rimango da sola, io con la piantina. Che poi io nemmeno le so curare le piante e se non ci si crede, chiedete a mia mamma del genocidio botanico quella volta che i miei sono andati in vacanza per una settimana e mi hanno lasciato i vasi da innaffiare. Ho seriamente pensato che i miei mi avrebbero disconosciuta quella volta.

Le altre persone che conosco sono le ragazze del laboratorio e con loro sono uscita ieri sera. Alle cinque siamo andate al pub per “una birra”, che è diventata un’altra birra, che è diventata una cena, seguita da tre giri di sambuca e ancora una birra. Morale della favola, alle undici il pub ha chiuso e ci ha buttato per strada, che mai fu così difficile da percorrere anche se erano solo dieci minuti fino alla mia prigione. Oltre a non avere il senso della misura per l’alcool, devo dire che quelle ragazze mi piacciono. A differenza di molta altra gente che conosco attraverso il lavoro, non si prendono troppo sul serio, il che è sempre un valore aggiunto quando il tuo progetto di ricerca riguarda cose che nemmeno a quelli che lavorano nel tuo campo gliene potrebbe fregare di meno.

Questo è il mucchietto di persone che mi accompagnano in questa avventura. Certo, ci sono tutti gli altri, quelli che sono disseminati da qualche parte nel mondo e che di tanto in tanto mi mandano una e-mail con dentro un po’ d’amore sfuso.

E sono felice.

Inizio a sospettare che la ragione di questa estasi, la mia droga, sia questa possibilità che mi è stata data, quella di viaggiare. Una vita da semi-nomade. La vita in Svezia, quattro mesi di fuga in Olanda, un paio in Svezia e poi ancora in Inghilterra. Ogni volta che approdo in un posto nuovo ho la possibilità di ripartire da zero. Zero è un numero che fa un po’ paura però è il brivido che conta, che ti dà la scossa e ti fa cominciare. Ogni volta posso reinventarmi ed essere quello che voglio.

In Svezia, all’inizio, ero quella piena di buoni sentimenti, quella che fa-la-cosa-giusta e dio solo sa a quali terribili risultati ha portato tutta la mia voglia di correttezza.

In Olanda sono diventata Italiana, ho rispolverato un amore per la mia nazione e per le persone che ci vivono. Come ogni mio amore, anche quello per l’Italia è un amore mal riposto, mi pare di capire.

Qui sono una radical-chic che ognuno nel mondo si dovrebbe sentire in dovere di odiare, imparo di film che anche la mamma del regista si è rifiutata di vedere e il Belga mi legge le poesie decadenti mentre mangio gli involtini primavera, mia unica vera fonte di sostentamento.

Il problema è che non posso condurre una vita con la data di scadenza in eterno. Verrà il giorno in cui dovrò mettere la testa a posto, in un unico posto, e provare a rimanerci. Temo quel giorno e allo stesso modo lo aspetto curiosa, per vedere chi sarò allora e quanto detestabile sarò diventata. Per il momento mi godo l’effimera felicità di questa nuova vita, che tra tre settimane finirà in un secondo, proprio come è incominciata.

Finestre

Avevo lasciato il post precedente in sospeso, avevo voglia di scrivere di cosa mi fa(ceva) stare così bene. Avevo superato le mille parole per raccontare del Tunisino e decisi di non accozzare argomenti diversi, ripromettendomi di aggiungere un capitolo successivo quanto prima.

Eccolo qui il capitolo, con un finale a sorpresa.

Nel mio bestiario degli abitanti delLa Casa avevo fatto un accenno a un Belga, descrivendolo come l’unica persona normale in questa casa (o almeno l’unico che sembrasse una brava persona e con cui si poteva avere una conversazione). Ma questo era dieci giorni fa. E di acqua, da allora, ne è passata sotto i ponti.

da allora, gli incontri con il Belga si fanno sempre più frequenti: ceniamo più o meno alla stessa ora, lui prima io dopo, e per questo di solito si siede con me e chiacchieriamo mentre cucino e mentre ceno. Magari dopo prendiamo un te. Magari chiacchieriamo ancora un po’. Litri di tè, fiumi di tisane.

Dopo l’ennesimo tè mi chiede se voglio andare a vedere un film con lui: l’appuntamento è venerdì sera. Che io non avevo capito se era un appuntamento. Se qualcuno in età da marito mi chiede di andare a vedere un film con lui cosa devo pensare? In realtà, a quel giorno la cosa che più mi preoccupava era il suo orientamento sessuale: innanzitutto ero determinata a scoprire se fosse gay o meno.

Siamo al cinema e durante i trailer (tempo in cui ridacchiamo facendo commenti) passa il nuovo film di Ryan Gosling, lui mi chiede se ho visto Drive. Ammetto che non l’ho visto e aggiungo sorniona: a differenza di molte ragazze non ho visto tutti i film con Ryan Gosling, per i miei gusti non è un gran meraviglia. La risposta è stata: se fossi una ragazza, neanche a me farebbe impazzire. Colpito e affondato.

Guardiamo il film, bello, piacevole, e poi andiamo per una birra. Mi porta in una bettola con i tavoli sporchi, che avevamo deciso essere uno standard imprescindibile per la scelta del bar, e beviamo una birra a un tavolo d’angolo accanto a una finestra. Non c’è musica nella sala ma non ci importa, non ci sono momenti di silenzio. Lui non appoggia la schiena alla panca, ha i gomiti al tavolo, la schiena in avanti e mi parla guardandomi negli occhi, sorride. Io faccio più o meno lo stesso, le mani attorno alla bottiglia di birra, le spalle in avanti. Dopo due birre e una breve passeggiata mi accompagna a prendere un taxi mentre lui inforca la sua bici per arrivare a casa. Io arrivo per prima, ovvio. Ma dopo due minuti mi arriva un messaggio: è lui.

La giornata successiva lo vedo solo a sera, ancora ceniamo insieme e lui dice che deve finire un lavoro e che andrà in camera a scrivere. Dopo un’ora un messaggio: è ancora lui. Mi invita per una partita a biliardo. Due partite a biliardo, discorsi semi-seri sui vegetariani, i poster della sala comune e politica. Si è fatto tardi e torniamo a casa.

Domenica lo vedo appena tornata dal mio giro di spese, mi aiuta a sistemare le nuove stoviglie che ho comprato e, ovviamente, ceniamo insieme.

Lunedì, ancora ceniamo insieme. Con noi c’è l’Italiano, che probabilmente non ci può soffrire entrambe, si siede in disparte e prende la porta quanto prima, lasciandoci soli, giusto in tempo perchè mi inviti ancora al cinema per la sera successiva. Questa volta andiamo a vedere un film molto triste (non bellissimo, non bruttissimo, un film triste però) e alla fine siamo tutti e due un po’ provati e decidiamo di camminare a casa, anche se ci vuole un’ora e io ho il computer di lavoro ancora sulle spalle e lui ha una bici. Riparliamo del film, di come io avessi preso in antipatia il protagonista, non gli racconterò che mi sembra l’ex partner di mia cugina; parliamo di tatuaggi, di quelli orribili come l’Hello Kitty di una ex di un mio amico e lui mi dice “Aspetta di vedere il mio!”. Non lascio cadere questa uscita e incalzo chiedendo una descrizione. Se ne esce con una battuta: se fino ad adesso ero abbastanza confusa riguardo al nostro rapporto, adesso inizio ad essere diversamente confusa. Cambiamo argomento e parliamo di storie d’amore, lui mi racconta di quando da bambino andava in bicicletta a scuola con una ragazza bellissima, e del suo amico che pedalava con loro dal paese successivo, che si innamorò della ragazza bellissima e che, ad oggi, sono ancora insieme. In questo turbine di buoni sentimenti rilancio con la storia della mia coinquilina e dell’edicolante (ah, ma questa ve la racconto tra un paio di mesi!). Ridiamo, lui mi prende in giro perchè il mio ufficio è senza finestre, mi passa una mano sulla schiena e mi promette di regalarmi una finestra il giorno successivo.

A casa lo invito per un tè, l’India ha ormai finito le scorte con tutto il tè che ci siamo bevuti!, e continuiamo a raccontarci di quando abbiamo preso la patente e di come lui non sappia guidare. Aggiunge che è un po’ preoccupato per il prossimo fine settimana perchè ha noleggiato una macchina per fare un giro nel sud dell’Inghilterra.

Con la sua ragazza.

Toc.

Toc.

Rumore di braccia che cadono.

Sento una scossa elettrica che parte dal fondo della mia pancia e sale su. Faccio uno sforzo per non cambiare espressione e continuare a sorridere come se nulla fosse, anche se sono certa che per un millisecondo lo stupore ha avuto la meglio, non sono mai stata capace di tenermi le emozioni per me. Nonostante tutto riesco a ribattere, faccio qualche domanda in cui lui si deve dilungare a rispondere, mentre io ho tutto il tempo per raccattare le mie braccia, riattaccarle e continuare dalla mano sulla schiena, dal tè, dai racconti della patente. E’ passata ancora mezz’ora, non ci sono più stati riferimenti alla ragazza, solo un nostro davanti alle parole amico in comune che li aspetta a Londra.

Ci salutiamo e vado in camera, basita. Non era amore, non era nemmeno un calesse. Era solo che mi ci ero abituata all’idea che ci fosse qualcuno e qualcosa che mi facesse tornare a Casa con un sorriso.

Oggi abbiamo cenato ancora insieme, era contento per i commenti positivi che ha ricevuto dal suo capo e per un regalo che un suo amico gli ha mandato dal Belgio. Con mio sommo stupore, gli ho sorriso, davvero, ancora. Continuo a non capire cosa sia successo: troppa ingenuità da parte sua, castelli in aria da parte mia, una combinazione delle due o niente di tutto questo. Va bene così, avere qualcuno con cui posso parlare di tutto e ridere di gusto è già molto di più di quello che altri non hanno. Anche se.

E comunque, stamattina, una finestra per il mio ufficio fatto di quattro mura me l’ha regalata davvero.

In the house

Notiamo l’albinoicità (o albionicezza) di questo contributo video, please.

Diciamo anche che riferimenti a fatti o persone reali continuano ad essere puramente casuali. Casualissimi, direi. Pure il titolo è proprio casuale, perchè io non ho visto un film che si chiama così, no. E il film che non visto non parla di cose che accadono in una casa (o in più case a dire il vero, ma che ne so io se non l’ho visto!), o forse non succedono, e se succedono sono cose che fanno accapponare la pelle. Visto che io il film non l’ho visto magari ve lo vedete voi, questo qui.

Lascio da parte il film (o forse no) e ritorno a parlare della Casa. Il conto dei coinquilini aumenta di un’unità fisica più una paranormale.

Il Tedesco è un ragazzo più basso di me, senza collo, che parla con un accento che nemmeno il dietologo di Fantozzi. Nonostante questo sia stato presente nella casa da due settimane l’ho visto solo una volta ed era di fretta perchè stava uscendo, ça va sans dire. A giudicare dalle due parole scambiate sulla porta sta vivendo i giorni migliori della sua vita e dormire gli sembra uno spreco di tempo, e come dargli torto! Se ho capito bene se ne va tra poco, quindi non affezionatevi al personaggio.

L’Indiano non l’ho mai visto ma so che c’è. Il Belga ha sentito nenie mugugnate alle ore più improbabili del giorno e della notte e io ho visto la luce della sua camera accesa all’una di notte di Sabato. La stessa notte sono stata punita per aver visto quelle luci perchè una serie di rumori inconsulti provenivano dalla sua camera, tipo un mini trasloco, alle 6.30 di mattina. Ho anche sentito i suoi passi mentre ero in bagno. Tra le passioni dell Indiano, a parte i traslochi e la meditazione sul fuso orario di Nuova Dehli, annoveriamo la micologia vista la coltivazione di muffette nel suo barattolame in frigo.

Nella casa altre cose stanno succedendo, come quel pasticciaccio brutto con l’Algerino.

Lo incontro sabato mattina all’una, mentre io mi preparo una pasta lui fa colazione perchè la sera prima ha fatto tardi con i suoi colleghi e mangia dei biscotti al cioccolato che hanno un profumo così intenso che quasi mi fanno passare la voglia per i miei tortelloni con il sugo. Mentre io mangio lui mi fissa e qualche volta mi parla. Tengo la conversazione viva pur di non cadere in un imbarazzante silenzio e come mio solito finisco a raccontare di dettagli della mia giornata che annoierebbero chiunque. Non lui però, che quando racconto di come voglio fare la laundry ha un guizzo e realizza che prima o poi anche lui dovrà lavare i suoi averi. Ci salutiamo sul pianerottolo e io mi metto a preparare il mio bagaglio di lordura, tre borse della spesa di sudore e microbi. Quando esco dalla stanza con il mio fardello lui esce in sincrono dalla sua stanza che manco i tuffatori Cinesi e mi dice: vengo a fare la laundry pure io!

Ma ce l’hai la scheda per le lavatrici? Ce l’hai il detersivo? No, lui ha solo mezza borsina di panni vari e un tempismo perfetto. Andiamo, lo aiuto, gli presto il prestabile e facciamo partire le lavatrici: io scelgo il programma “delicati” e lui dopo un’attenta valutazione delle opzioni della lavatrice e della gamma cromatica dei suoi panni preme per “colorati”. Questo mi regala un buon quindici minuti di vantaggio sul suo programma, che significa che non dovremo più venire insieme a scaricare e caricare l’asciugatrice. Ah, sì perchè dopo la lavatrice si fa l’asciugatrice, dico io. Ma qual è l’asciugatrice?, chiede. L’asciugatrice è quella con su scritto asciugatrice, Monsieur Lapalisse. Ma le cose escono già stirate dalla asciugatrice?, incalza. Se l’asciugatrice è una di quelle buone riattacca anche l’etichetta con il prezzo e i capi sono come nuovi.

Dopo questa surreale conversazione realizzo che forse il suo fissare e il suo seguire e il suo coordinarsi altro non erano il frutto di una mamma che gli ha fatto il bucato fino ad oggi e la necessità di una mamma-bis che lo introducesse nel magico mondo di cestelli e centrifughe.

O forse no. Perchè dieci minuti dopo avermi fatto cadere le braccia con quella domanda sull’asciugatrice bussa alla mia porta e mi chiede che programmi ho per il giorno a seguire. Io, come uno scolaretto colto a rubare la merendina al vicino di banco, abbozzo. Forse, voglio andare in una città che comincia con L a fare un po’ di compere, forse. Ok, allora se vuoi posso venire anch’io, dice lui. Sì, ma tu ci sei già stato in quella città che comincia con L, non è un po’ noioso quando hai mille altri posti in cui poter andare? No, a me è piaciuta L, questo fine settimana volevo andare a N in realtà ma io ci torno pure a L! Ma guarda che io sono un notevole piede nel culo quando vado a fare shopping, forse è meglio se vado da sola. Cioè, se vuoi puoi venire a L poi però io vado a fare le mie commissioni da sola. Insomma, abbi pazienza, ci penso e ti faccio sapere se davvero ci vado a L.

Alla fine a L non ci sono andata, un po’ per non dover lasciare a casa il porta borse o per non dovermelo tirare dietro controvoglia. Ho fatto le mie spese, ho mangiato la mia torta, bevuto il mio tè e pensato che alla fine qui non è poi così male. Ma se lo penso non è per merito dell’Algerino, oh proprio no!

À suivre…

Le mie prigioni

(Johnny Cash era più figo quando era Joaquin Phoenix, comunque)

Un primo aggiornamento dalla terribile Albione. Che a chiamarla Albione ci ho preso gusto e se il tempo è dalla mia vorrei quasi fare un salto a vedere il vallo di Adriano, giusto per dare un tono ancora più epico a questa calata nel Regno Unito.

Scrivo per descrivere dove sono e cosa sono, a futura memoria.

La casa in cui alloggio ha conquistato in cinque minuti al massimo lo pseudonimo di prigione. La mia cella camera è un cubotto di 9 metri quadri, con lato 3 per 3. L’arredamento può essere descritto come spartano, con un eccesso di generosità verso Sparta e i suoi usi, ed è dotato di un lavabo in camera. La turca in camera, come nelle migliori prigioni di Caracas non c’è, mi devo fare un piano di scale per arrivare al primo pisciatoio disponibile. Le pareti sono bianchine, una fa eccezione ed è grigina, la porta è grigia e il copriletto in comodato d’uso è azzurrino. Per terra, nella mia camera e ovunque, moquette. Moquette a spruzzo. Scale coperte di moquette, uffici universitari con la moquette, moquette con macchie dei secoli nei secoli amen.

Poi io ce l’ho sempre avuto qualche problema di relazione con la moquette, forse per copla di mia madre che mi lanciava anatemi di micosi e altre malattie appena mi azzardavo a camminare senza ciabatte in un albergo (con la moquette, ovviamente). E forse proprio per la sovraesposizione da moquette, a me questa nuova casa ha destato qualche sospetto fin da principio.

Quando arrivai, all’alba di Lunedì!, iniziai a dare un’occhiata in giro (dopo aver scoperto la miserrima dotazione della mia camera). Una vasca da bagno (roba che non vedeva dal 1997), un water, una doccia, un altro water, dieci porte che danno su altrettante stanze e una cucina in cui, fatta eccezione per un bidone dell’immondizia semi pieno, non si scorge traccia di passaggio umano. Apro il frigo per cercare di capire le abitudini alimentari degli autoctoni, e soprattutto, se gli autoctoni esistono. Il frigo è quasi pieno, ci sono bigliettini con i nomi su alcuni ripiani. Ad oggi, coloro che hanno apposto il nome sul cibo non sono ancora stati avvistati. Probabilmente se scrivi il tuo nome e lo metti in frigo morirai dopo sette giorni.

Con il passare dei giorni, sporadicamente, è stata avvistata un po’ di umanità varia, che vi vado a descrivere.

La cinese. Ogni casa condivisa che si rispetti ha una Cinese, che come tradizione parla un Inglese demmerda. A differenza mia, lei sembra apprezzare il comfort della sua cella, tanto che una volta cucinato il pasto corre a mangiarselo in camera. Spesso ho l’impressione che mi dica di sì ma non capisca davvero quello che dico.

L’algerino atipico. Questo mi ha fatto un agguato mentre io ero sulla via per il bagno. Volevo andare a fare la pipì tantissimo e non appena chiudo la porta, ecco che si apre la porta in fronte alla mia: “Ciao, ho sentito qualcuno e volevo vedere chi era!”. Per la serie: chi sei? dove vai? un fiorino! Dopo una sosta in bagno ci sediamo in cucina per fare due chiacchiere. Dice che è Algerino, anche se i tratti nord Africani non ce li ha proprio, ma visto che io sono ignorante come una capra sospetto che ci sia qualche influenza colonica nella sua stirpe e non do peso alla vicenda. Questo suona in un gruppo di musica andalusa (WTF?!) e dopo dieci minuti che parliamo mi sta già troppo addosso: domani mattina andiamo insieme in Università, ci iscriviamo insieme in palestra, andiamo a fare la spesa insieme. Ragazzo, se vuoi possiamo anche sincronizzare i nostri respiri e poi siamo una cosa sola: dammi spazio! Con mia somma sorpresa, dopo avermi promesso sincronia eterna ha metodicamente mancato ogni appuntamento che avevo proposto, nonostante una certa riluttanza nel proporre tali incontri. Ciò nonostante, quando Mercoledì sera ho rincasato alle 11 mi è venuto a bussare alla porta chiedendomi dove ero stata. La più grande canottiera del secolo: non stare addosso!

L’hondureña. Questa più che una coinquilina è un personaggio mitologico. Apparsa due volte in cucina, manco fosse la madonna del monte, con una tazza di plastica in mano si scalda un po’ d’acqua e se ne va. Il suo Inglese è talmente terribile che mi stupisco che sia sopravvissuta in questa nazione per due mesi. Mossa a pietà e per la mancanza di comprensione anche per le domande più basilari (tipo, in che stanza sei? Lei risponde, Sì, mi prendo un po’ di acqua calda) ho provato a parlare Spagnolo e si sappia che il mio Spagnolo è pressochè inesistente. Alle mie domande in Spagnolo lei mi rispondeva sempre in modalità random in Inglese. Probabilmente avrà pensato che sono come una di quei turisti Europei che vanno in vacanza in Centro America e credono di essere autoctoni perchè possono dire La cuenta por favor. Comunque lei adora il mio nome e l’ultima volta che mi ha visto si è messa a cantare una canzone.

L’Italiano. Sappiate che se dovessi morire è per mano sua.  L’ho incontrato sul pianerottolo e mentre io tentavo di ingaggiare una conversazione, forte del fatto che condividiamo la stessa lingua, notavo che lui si teneva saldo alla maniglia della porta della sua camera, lanciando il chiaro messaggio che di parlare con me non ne aveva proprio voglia. I successivi incontri sono stati brevi e io, come mio solito, tenevo banco mentre lui rispondeva a stento e con monosillabi. Gli si sono illuminati gli occhi solo quando ha visto che sto leggendo un libro di Vargas Llosa, per il resto penso che non mi possa reggere. Spera che io decida di ritornare da dove sono venuta il più presto possibile e che le mie corde vocali si recidano nottetempo, così almeno la chiudo ogni tanto quella ciabatta urlante che mi ritrovo al posto della bocca. Ogni mio tentativo di coinvolgerlo in attività di gruppo si sta rivelando vano. (Perchè nel caso ci fosse qualche dubbio, mi sono autoeletta anima trascinante di questa armata Brancaleone e sono determinata ad instaurare un regime di socialità minima tra gli occupanti di questa altrimenti tristissima prigione)

Il Belga. Questo è l’unico che mi sta dando qualche soddisfazione. Oltre ad aver proposto di vedere un film di Jim Jarmush e ad aver avuto più d’una conversazione con me, questo ha anche capito che questa casa, così com’è, è un covo di pazzi. Un posto in cui ognuno ha il suo piatto e il suo bicchiere, la sua padellina e che appena finito di mangiare tutto scompare in una qualche scansia della cucina. Un posto in cui le persone non sono quasi mai fuori dalle proprie stanze e se ci sono tendono a rientrarci il prima possibile. Mi ha anche chiesto: ma come ti è venuto di venire qui appena prima delle vacanze di Pasqua? Caro mio, io faccio scelte prive di senso dal 1986: perchè cambiare proprio ora? Per noia, per mancanza di spunti e per il totale collasso di altre storie pregresse, penso che mi stia prendendo una mezza cotta per il Belga. Sospetto sia gay, ma questa non sarebbe poi una novità per le mie infatuazioni.

Ci sono altre quattro stanze che non hanno un occupante ad oggi, per cui nuovi e improbabili personaggi potrebbero capitare sulla via nei prossimi giorni. E il mistero continua…

Self-made

Oggi sono andata all’IKEA. E fino a qua non dovrebbe esserci niente di strano: in quanto Svedese con “cittadinanza morale” dovrebbe essere mio dovere mensile quello di recarmi all’IKEA e comprare qualche pezzo di legno o similare e metterlo inseme con un paio di viti.

Sfortunatamente per voi, mentre compravo mobili ho trovato anche il tempo di avere una di quelle catarsi che ti colgono d’improvviso nei posti meno consoni e quindi adesso vi beccate il pippotto post-catarsi.

Iniziamo con il ricordare, nel caso qualcuno se lo fosse perso, che questa settimana era San Valentino. Gli Svedesi, che sono socialisti in tutto quello che fanno, lo chiamano alla hjärtans dag, ovvero la giornata di tutti i cuori. Quindi in via teorica se uno ha un cuore dovrebbe sentirsi chiamato in causa e per quanto ne so più o meno tutti ce lo abbiamo un cuore, perlomeno a livello anatomico. Nonostante il dilagante socialismo Svedese che vuole includere nella festività tutti quelli che hanno le funzioni vitali a posto non posso fare a meno di pensare al significato che la festa assume altrove.

E lo faccio all’IKEA, dopo tre giorni dalla data incriminata mentre sto facendo tutt’altro. Ma adesso mi spiego.

Da quando sono tornata in Svezia ammetto di essere un po’ con la testa ancora altrove, nell’Olanda che ho lasciato poco fa e che sembra un vita e in Italia con i suoi problemi e le elezioni a breve. Il fatto che la mia Svezia sia stata scossa da un piccolo terremoto, come è fisiologico che sia dopo qualche mese di assenza, non aiuta certo a farmi riprendere il ritmo. Ho deciso così di fare un piccolo restyling alla mia camera, per coinvolgermi in qualcosa di concreto e per sentirmi a casa, ancora.

Il caso ha voluto che anche un mio amico avesse bisogno di andare a fare compere nel posto più Svedese che ci sia e così oggi ci siamo avventurati insieme. Io, come ogni volta che vado all’IKEA, avevo studiato con coscienza il catalogo, fatto una lista delle cose che mi servivano perchè ho imparato a mie spese che non si può andare e scegliere sul posto. Chè conosco gente che ci è quasi morta all’IKEA facendo questa bella pensata: prova un divano qui, scegli un tavolino là, si fa orario di chiusura e ti murano vivo nell’IKEA  e non c’è kanelbullar che tenga.

Adesso la smetto di divagare e vado al punto. Ho comprato qualche mobile di piccola taglia e un tappeto. Avevo fatto un piccolo conto delle dimensioni e della quantità e avevo concluso che avrei potuto farcela da sola, la fermata dell’autobus è a quattro passi dall’IKEA e con un solo cambio di mezzo mi ritrovo a cento metri dal mio pianerottolo. Il conto che avevo fatto si è però rivelato troppo ottimistico e quando avevamo raccattato tutto il necessario mi sono resa conto che avrei dovuto avere almeno un altro braccio per portare quelle cose da sola, ma per fortuna avevo un valente giovane che mi ha portato a casa, a me e a tutta la mia mercanzia. Sulla soglia ci salutiamo e mi porto le cose in camera, pronta a montarle.

Perchè è vero che ho fatto i conti male, che ho comprato troppa roba e sarei stata in grado di portarla a casa da sola forse, pur sembrando una creatura ridicolissima, mezza borsa blu e mezza tappeto arrotolato su una spalla, però ho un amico che mi ha aiutato. Invece, quando mi sono messa ad aprire quei cartoni, capire gli incastri, infilare viti, attaccare gambe dei tavoli, lì ero da sola.

Ho letto qualche tempo fa chissà dove un post su un blog che diceva che quello che fa male quando ci si lascia è perdere le abitudini, “io cucinavo e lui montava i mobili dell’IKEA” diceva quel post. Bè, cari miei, io i mobili dell’IKEA me li monto da sola.

Non voglio dire che questa sia la mia più grande aspirazione nella vita e nemmeno che voglio farlo per sempre, ma che là fuori (e qui dentro) c’è speranza. Dico che alla fine non è necessario essere in due, a volte uno può bastare. Essere da sola non significa essere sbagliata, come a volte qualcuno vuole farmi (farci?) credere: significa che sono sufficiente per me stessa, che posso cavarmela da sola e non mi serve che un principe a cavallo mi venga in soccorso per la minima emergenza.  E non è poco.

Ammetto di essermi graffiata e che adesso ho una bella riga rossa che si staglia sul dorso della mia mano, che l’appoggiapiedi della poltrona è un po’ zoppo e che avevo i goccioloni quando ho infilato a forza l’ultima gamba del tavolino (perchè ogni tanto all’IKEA si scazzano di metterti le viti e decidono che te la devi scavare tu la via, con la forza delle tue braccia, in quello stramaledettissimo compensato).

Però adesso mi sono rimessa a posto la camera. Da sola.

Una musica può fare

Devo ingannare il tempo per quasi due ore su un intercity Olandese che di intercity ha solo il nome visto che fermerà praticamente ad ogni stazione sulla via. Altra cosa che devo ingannare è la mia vescica, che qua sono in un mare di bagagli e io di questi Olandesi non mi fido ancora. Non so se posso dirgli di dare un occhio alla mia roba per un minuto e poi quando torno non ritrovo nemmeno la bottiglietta dell’acqua (che ho bevuto, ergo questo problema potrebbe rivelarsi più annoso del previsto).

Per via di numerosi clichè internazionali ad oggi, Domenica 7 ottobre 2012, ho un’opinione piuttosto bassa di sta gente. (E’ appena passato il controllore, mi ha detto qualcosa di incomprensibile. Ma come cazzo parlano?!). Ho qualche amico Olandese e mi sono sempre sembrati un popolo di gente altissima ma con il braccino cortissimo e con l’attenzione verso il centesimo, che chissà come faranno adesso che in Svezia non ci sono più le öre. A dimostrazione di questa teoria ci tenevo a farvi sapere che alla stazione ferroviaria dell’aeroporto di Schipol hanno il tabellone che annuncia i treni sui binari con i nomi e gli orari rotanti, quelli con le caselline che girano e che fanno tatatatatatatatata e compongono nomi e orari del prossimo treno in arrivo. Penso che anche alla Stazione di Bressana Bottarone si siano evoluti verso la digitalizzazione dell’annuncio dei treni ma tant’è: questi hanno deciso che gli piace il retrò. (E per quanto vi possa interessare, il retrò è il nuovo hipster).

(E qui sul treno continuano a dir su in Olandese e io non capisco una virgola. Mi chiedo se arriverò mai e  soprattutto dove arriverò.)

Ricapitolando, io sono su un treno in Olanda (che al momento è fermo nel posto più buio del mondo) perché da adesso la storia cambia. Almeno per un po’.

Quindi ecco qua l’appartamento Olandese. Rassicuro i filo-scandinavi che la versione Svedese tornerà anche se solo tra qualche mese. L’appartamento Svedese al momento è semivuoto, probabilmente c’avrò dimenticato qualcosa che mi servirà tantissimo e mi morderò le mani per questo. L’appartamento l’ho lasciato poche ore fa e stranamente non c’è stato nessun momento catartico. Mi riferisco a uno di quei momenti in cui sembra che la tua vita sia diventata il pezzo di un film in cui tu cammini sulle note di questa canzone carismaticissima ed hai in faccia una di quelle espressioni che dicono che tu, della vita, hai capito tutto, e l’hai capito lì e in quel momento.

Un grosso freno alla catarsi può essere il fatto che mi barcamenavo con cinque pezzi di bagaglio di varie forme, pesi e dimensioni, chiaro segno di mancanza di ogni qualsivoglia arte della sintesi del bagaglio né tantomeno del gusto per l’assortimento delle valigie.

Un altro freno al momento catartico è stato la poco azzeccata colonna sonora, elargita da un lettore in modalità random, in cui il pezzo più notabile era What If dei Bombay Bicycle Club (If only one of us got the guts tonight… dice. Che è un po’ un sempreverde della mia vita amorosa ed è più in generale una bella canzone, ma oggi e solo oggi c’entrava come i cavoli a merenda).

Il momento catartico se mai c’è stato potrebbe essere arrivato ieri quando tornavo a casa a tarda notte sulle note di Home di Edward Sharpe and the Magnetic Zeros. (Ok, è passato un venditore di merendine e diceva “Shnickersh” e “Marsh” e a me fa riderissimo). Ma se Home is wherever I’m with you, allora mi chiedo se avere un appartamento (o più d’uno, come nel mio caso) abbia senso quando non c’è qualcuno con cui condividerlo. Ma del doman non c’è certezza e farsi queste paturnie va bene solo a una cert’ora della notte tornando a casa allegrotti dopo una serata Svedese (l’ultima serata Svedese per un po’).

Allora se il momento perfetto in pendant con la canzone (un po’ alla 500 Days Of Summer) non viene da sé lo si può sempre forzare e a questo proposito ci hanno pensato i Mumford and Sons.

Questi Mumford and Sons hanno fatto un primo album Sigh No More qualche anno fa, che casualmente ho iniziato ad ascoltare appena mi ero trasferita in Svezia e Little Lion Man era diventata la mia sigla personale per far fronte all’inizio del periodo Svedese che non è stato uno dei più entusiasmanti della mia vita. Altrettanto casualmente hanno rilasciato il loro secondo album Babel un paio di settimane fa, proprio alla vigilia della mia seconda partenza (io adoro crogiolarmi in questi irrilevanti segni del destino e costruirci sopra castelli con torri e fossati, nel caso non si fosse ancora capito) e da allora è stato una presenza costante nella mia playlist di tutti i giorni.

Questo disco contiene 16 canzoni che al primo ascolto sono indistinguibili e dopo un’ora di banjo e cantate a bocca aperta uno si chiede se a questi il dono della fantasia non sia stato elargito. Poi, con il tempo ogni canzone ha una sua vita, un suo spirito e diventano ognuna un pezzo particolare, forse non eccezionalmente bello, ma comunque un’entità a sé stante in quella parte del cervello dedicata a riconoscere le canzoni con solo tre note, tipo Sarabanda. Una delle canzoni più belle di quest’album è forse il singolo I will wait, che è già diventato l’inno di chiunque abbia un fidanzato lontano, ed è anche notabile una cover di The boxer di Simon e Garfunkel, che a me Simon e Garfunkel fanno tanto vacanza con la famiglia visto che era la passione dei miei genitori quando erano più giovani (e che infatti mi volevano chiamare Cecilia, incuranti che quella stronza rompeva cuori e abbassava autostime quotidianamente).

In quest’album c’è anche una canzone intitolata The Holland Road, che per una che va in Olanda e che cerca una scusa per immedesimarsi in una canzone, è un’occasione da non lasciarsi scappare. Sfortunatamente, la canzone non parla di una giovane che vaga per l’Europa di nazione in nazione, ma di un tale sofferente per amore che a un bel momento imbocca una Holland Road qualsiasi per una non meglio precisata ragione.

Non si può avere tutto dalla vita, probabilmente.

Però si può avere un inizio nuovo in Olanda, anche senza una cazzutissima colonna sonora.