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All you need is

(E il caso vuole che quando io ero in quella città la ascoltavo mentre mi perdevo per i vicoletti e ora, che in quella città ci sono tornata per altre ragioni di cui vado ora a raccontare, eccola che ritorna con un nuovo album. Mi piacciono queste sovrapposizioni tra la musica e le mie esperienze. E adesso devo ancora capire dove e quando la riuscirò a vedere: se qui o là. Spero là.)

Sono partita per un viaggio. Più o meno. Avevo accennato a qualcosa tempo fa, avevo alluso a delle regole che mi ero messa e che avrei potuto infrangere. Viene fuori che, alla fine, del foglio delle regole ne ho fatto una palletta e l’ho buttata nel cestino. Io parto, non mi importa.

La volta precedente che mi ero imbarcata in un viaggio del genere dovevo averlo preso più come un viaggio spirituale e avevo sostenuto che ci volesse fede. Ma per una che in chiesa ci va solo per i matrimoni o i funerali, fa scena muta per tutta la cerimonia e si guarda con sospetto attorno pensando a quanto è surreale tutta la situazione, forse rifugiarsi nella fede non è la soluzione. E i fatti lo hanno provato.

Allora cerco di trarre vantaggio dai miei errori precedenti, invece di lasciare perdere un’occasione per paura di rimanerci ancora bruciata. E questa volta è un altro viaggio, metaforico e non, quello in cui mi sono imbarcata e quando si parte è bene fare una lista, per ricordarsi quello che serve, per non dimenticarsi le cose a casa.

Serve un biglietto aereo. Più d’uno, andata e ritorno. Per quella città in cui ascoltavo Sharon van Etten e uno per lui direzione Svezia. Serve un biglietto del treno, come quello su cui viaggio ora, con il mare sulla destra, grigio e arrabbiato come il mare d’inverno, che inverno non è. Ne serviranno altri di biglietti, credo.

Serve pazienza. Per convivere con le spigolosità che ho accumulato nel tempo, per la mia facilità di giudicare qualcosa dalla prima impressione. Serve pazienza per capire le spigolosità altrui e i punti di vista che non sono i miei, a volte così uguali e a volte no. Prendere quegli angoli e guardarli, non cambiarli. Che dire “lo cambierò” non ha mai portato a niente di buono e chissà che tutti quegli angoli non vadano a combaciare un giorno.

Serve un piumone più grande, chè l’estate Svedese è soltanto un ricordo e nemmeno dei più belli.

Serve una scatola in cui riporre tutti il “nostro”, per dividerlo dal “loro”. Ci sono cose che sappiamo solo in due. Cose che credo nemmeno questo blog verrà a sapere. Probabilmente è per questa ragione che mi ci è voluto così tanto a scrivere questo post.

Serve pazienza, che l’ho già detto ma ne serve ancora. Per quando non siamo insieme, che è la maggioranza del tempo. Meno poeticamente, serve uno smartphone, una serie di app di messaggistica online e skype. Preferirei non servissero ma servono eccome. Serve pazienza anche per passare la giornata ad aspettare di parlarsi e poi finire a raccontarsi cosa si è mangiato a pranzo, se c’era il sole o no e se la coinquilina è tornata a casa o è ancora fuori con quello là.

Serve un libro di ricette perchè ho sfoderato i miei più grandi successi culinari degli ultimi 28 anni e adesso sto raschiando il fondo del barile. Che non sono una massaia ma lo spirito da matrona Italiana si impossessa sempre di me in queste occasioni. Serve davvero perchè lui è più bravo di me a cucinare.

Serve dello spazio per riporre i bagagli di esperienze sentimentali accumulati in questi ultimi anni. Tanti piccoli bagagli per me, uno solo grande grande per lui. Alcuni di questi bagagli sono leggeri e si spostano alla svelta, altri pesano e rimangono in vista, a ricordare che ci sono stati e ancora occupano spazio.

Serve un nuovo vocabolario per colmare le differenze lessicali. Le parole di questo vocabolario sono:  cara ve, ces!, criminale, riposo gli occhi, tesoro. Dal dizionario sono state cancellate altre parole (alcune di queste non andrebbero mai usate a prescindere): baci baci, branda, buondì.

Servono altri due vocabolari, uno per ciascun paese in cui abitiamo.

Serve un piano, perchè a fare questo avanti e indietro mi sono già quasi stancata. Il piano si sta delineando poco per volta, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, sperando che le fondamenta su cui si trama questo piano reggano. Chè non si sa mai, anche i piani meglio pensati possono andare a finire in niente.

E con questo penso di aver preso tutto.

Si parte.

Questa è la fine di un’epoca

Verso le sei di sera mi è arrivata una mail, è di uno che si definisce il mio “former spooner”. Mi dice che ha due notizie, una bella e una brutta. Gli dico di dirmi la brutta per prima. Dice che mi lascia. Io non capisco, non stiamo (più) insieme, come pensa di lasciarmi? Allora gli chiedo qual è la bella notizia. Dice che ha trovato lavoro. In fucking Galles.

Da un lato, sono contenta che io sia una delle prime persone che ha pensato di avvisare, nonostante il tempo che è passato, lo spooning e, soprattutto, gli altri cazzi e mazzi che ci siamo sciroppati. Siamo rimasti in buoni rapporti. Di quei rapporti che io sono bravissima a crearmi e per cui anche lui ha un certo talento, quelli in cui non è finita fino alla fine e la fine sembra non arrivare mai. Che non penso a lui una volta al giorno, e nemmeno una a settimana forse, ma che quando lo vedo mi rendo conto che nonostante i cazzi e mazzi di cui sopra è forse la persona che mi ha conosciuto meglio in questi ultimi anni.

Ci siamo incontrati a Dicembre del 2010 in Svizzera, facevamo parte dello stesso gruppo di lavoro, entrambi a fare il dottorato in Scandinavia, entrambe a vederci ogni sei mesi in giro per l’Europa durante meeting di lavoro. Solo che noi si abitava vicini, in due paesi diversi ma vicini. Durante uno di questi meeting io, con il mio solito spirito da Madre Teresa, lo avevo invitato a una festa a casa mia di lì a una settimana e gli avevo detto che sarebbe potuto rimanere a dormire per non dover tornare a casa nottetempo. Io mi ero posta il problema di possibili momenti imbarazzanti per decidere chi avrebbe dormito dove ma sono stati brillantemente risolti da una terapia antibiotica a cui si stava sottoponendo e che lo fece collassare sul mio letto alle 10 di sera, io cinque ore dopo mi andrò ad addormentare su un materasso di fortuna. Viva la cavalleria. Da lì al passo successivo c’è voluto poco e non c’è voluto troppo nemmeno al passo successivo ancora, quello in cui la sua ex-ragazza giorno dopo giorno se lo riprende senza trovare alcuna resistenza da parte mia, non troppo convinta di volermelo tenere. Negli anni ci sono stati tira e molla, promesse a me stessa che mai e poi mai avrei ceduto alle lusinghe, ma soprattutto momenti imbarazzanti con i nostri colleghi durante i meeting in cui, la segretezza di quegli incontri era minata da dettagli snocciolati soprappensiero e relative arrampicate sugli specchi per giustificare la conoscenza di certi dettagli delle rispettive esistenze.

Quello non sarà stato un amore travolgente, era sicuramente un altro calesse, ma conto sulle dita di una mano le cose che non gli ho detto. Non ci vediamo spesso, anche se abita solo di là dal ponte, ma era una di quelle copertine di Linus che sono solita lasciare in giro: magari non le usi da un po’ ma sai che comunque sono lì da qualche parte. E per quanto ne so anche lui mi crede la sua coperta di Linus in terra Svedese.

Questa cosa della coperta di Linus a vederla scritta mi sembra di un cinismo incredibile, ma fino a che ad essere così disillusi si è in due che male si fa?

Il fatto che le persone se ne vadano di continuo è il problema di essere a casa in un paese che alla fine casa non è. Per quanto ce lo continuiamo a ripetere che gli Svedesi non mordono e che gli si può parlare, come un mantra con cui vogliamo autoconvincerci, va sempre a finire che le persone che ho attorno sono dei nomadi come me (cosa c’è da ridere? Non ho detto gonadi). Era già successo, sta succedendo e succederà ancora, fino a quando non sarò io a levare le tende.

Non sono triste, sto solo prendendo coscienza di questo stato delle cose. Anzi, mi è anche spuntato un sorriso in faccia per saperlo finalmente con un lavoro, anche se le cose sono successe così in fretta, prima intervista l’altro ieri, seconda intervista ieri e oggi la comunicazione ufficiale. Lunedì parte per un sopralluogo del fucking Galles. Non ho ancora capito quando si trasferirà ma ne parleremo Giovedì sera, quando andiamo insieme al concerto.

Ma di questo e del concerto ne parleremo poi. Per il momento ho voluto mettere questo titolo importante e banale, chè alla fine la fine di un’epoca non è. Soprattutto per lui, questo è l’inizio di un’epoca.

Non è un paese per denti

Una volta ogni qualche anno ho un problema ricorrente ai denti. Niente di grave, però dato che sono una persona in buona salute per 362 giorni l’anno, i restanti 3 giorni in cui ho qualche magagna ho un livello di sopportazione infimo e divento una persona insopportabile. Fu su queste premesse che si consumò la piccole tragicomica vicenda di me, i miei denti e la Svezia tutta.

La scorsa settimana ero una iena. Avevo un’infiammazione alle gengive e sebbene non sia una questione di vita o di morte è uno di quei fastidi martellanti che sono in grado di far perdere la pazienza ai santi. Tutto quello di cui avevo bisogno era una pulizia dentale e una pacca sulla spalla, niente di trascendentale quindi. Non fosse che abito in Svezia.

Il sistema sanitario Svedese è bislacco e per mia fortuna ne ho testato le prestazioni in rarissime occasioni. Ogni Svedese (o sedicente tale) è assegnato a un ambulatorio (che si chiama Vårdcentralen) che sarebbe un po’ il nostro medico di famiglia. In Italia, quando ero malata andavo dal medico di famiglia in orario di visita e passavo interminabili ore nella sala d’attesa con le vecchiette dai malanni immaginari, quelli che sbuffano perchè devono solo farsi una firma e vedono approssimarsi l’arrivo delle calende greche in quella sala d’aspetto, il tutto vivacizzato dal via vai di informatori scientifici. In Svezia non c’è niente di tutto questo. Se sei malato devi chiamare la vårdcentralen e, dopo aver passato una buona mezz’ora in coda ad aspettare il tuo turno, ti risponde un’infermiera. Queste infermiere sono addestrate a far vacillare la tua più solida convinzione da ipocondriaco e a convincerti che non hai niente. Se proprio il problema persiste puoi richiamare tra una settimana, ma è sottinteso che se non ti fai più sentire è molto meglio. Purtroppo l’infermiera Svedese nulla può davanti a una donna Italiana, conscia del sordido meccanismo, che può mettere in scena un teatrino con i controcazzi in arte del lamentarsi applicata.

Ma perchè racconto tutta questa cosa della vårdcentralen? Se in Italia il dentista pubblico è una figura losca, in genere rappresentata da uno studente fresco di laurea alle prime armi al quale non affideresti nemmeno il cane da pisciare, in Svezia, paese del socialismo endemico, il dentista pubblico è la prassi. Per andare dal dentista si fa come con la vårdcentralen: si chiama il numero, si fa la coda e se sai lamentarti con sufficiente convinzione ti ricevono il giorno stesso. Quindi, lo stesso pomeriggio, vado baldanzosa incontro al mio doloroso destino quando l’inaspettato succede.

La dentista mi visita e mi dice: si hai ragione tu, non ci sono carie ed è tutto a posto ma hai bisogno di una pulizia dentale.
E questo già lo sapevo.
Torna tra un mese per la pulizia.
Un mese? Un mese con questo fastidio? È forse una punizione divina per tutte quelle volte che non ho passato il filo interdentale?

Quando vado a pagare l’obolo per la visita (tempo totale 10 minuti) l’infermiera alla reception mi da un foglietto per ricordarmi dell’appuntamento e io richiedo se non ci fosse la possibilità di venire prima. L’infermiera guarda lo schermo del computer, scrolla la testa e mi dice “Se si liberasse un posto ti chiamo”, che è un po’ come quando una di quelle bellocce di provincia dice allo spasimante di turno “sono impegnatissima ma se mi rimane una sera libera usciamo insieme” e dopo quella frase non si farà sentire mai più. Sconsolata, io e i miei denti siamo tornati sui nostri passi ma come dicevo la pazienza nei tre giorni di malattia annui non è il mio forte, per cui ho decido che è il momento di prendere in mano la situazione: chiamare un dentista privato.

Il fatto con i dentisti privati in Svezia è che sono creature mitologiche metà uomo e metà sanguisughe perchè nessuno li ha mai visti ma tutti ti mettono in guardia perchè sono carissimi. Considerando che per la prima visita avevo speso ben 7 euro (ma solo perchè lo stato ti abbuona 40 euro di dentista all’anno e io me li sono giocati tutti lì) e considerando che ero ingodibile dopo un giorno, figurati cosa sarei diventata dopo un mese, mi sono lanciata in questa impresa. Apro le pagine gialle e chiamo il primo dentista, che però alle 16.30 aveva già chiuso lo studio ed era andato a giocare a squash o a golf o a un qualunque sport che si confà a un dentista. Non mi sono rassegnata e gli ho mandato una mail spiegando la situazione e se non aveva un buco nella sua fitta agenda. Il giorno seguente mi risponde dicendo che lui ha già troppi pazienti (!!!) e che proprio non ce la fa a visitarmi. Caro dentista golfista, intanto se tu lavorassi più di sei ore al giorno avresti molto più tempo per nuovi pazienti e in secondo luogo non ho intenzione di mettermi a campeggiare nel tuo studio per tutto l’inverno, vengo e tempo mezz’ora me ne vado. Ma lui non ha tempo, c’è già un bordello di gente che si ostina a venire a farsi curare da lui quando invece lui nella vita ha il solo obiettivo di battere Lotti.

Non mi sono data per vinta perchè sono una rompicazzo con la testa dura, così ho chiamato un altro dentista, con lo studio un po’ meno in centro e senza e-mail. Mi risponde una signora e dopo che le spiego la situazione mi dice che se voglio posso venire tra un’ora. Incredula mi precipito al tempo stabilito con un sorriso stampato in faccia, per quanto possa sorridere una che deve pur sempre andare dal dentista! Al secondo piano di un palazzone c’è lo studio, mi accoglie la dentista in persona, una signora sulla sessantina, gentilissima, che mi fa notare che sono cinque minuti in anticipo e che lei è in pausa caffè ma mi fa accomodare in sala d’aspetto e mi dice che torna tra un po’. Al suo ritorno, la signora dentista è accompagnata da una sua coetanea che deduco essere l’assistente. Alle due zie qui, che chiameremo per comodità Pinuccia e Vanda (nomi di semi-fantasia di mie zie realmente esistenti), si vede che gli piace mettere le mani in bocca alla gente e fanno un lavoro preciso: prima mi contano i denti che non si sa mai (sono 32, due denti del giudizio sono stati stroncati sul nascere), poi fanno la tanto agognata pulizia dentale e infine tirano fuori da un improbabile cassetto una pasta per limitare la sensibilità dei denti al freddo (che quando me la mettevano una leggeva le istruzioni e l’altra eseguiva, che dio solo sa cosa mi hanno messo in bocca!). A visita conclusa la Pinuccia mi fa il conto, 70 euro di visita e 40 di pulizia, poi mi guarda e si vede che le faccio un po’ pena perchè tira su un bel rigone sulla voce visita e relativo costo e mi rimpinza di campioncini di dentifricio nemmeno fossi da Sephora. Prima di andarmene mi sono sentita in dovere di ringraziare ancora una volta, anche se lo avevo già fatto prima e durante la visita, e la Pinuccia mi dice con un sorriso imbarazzato che il suo lavoro è un servizio e che non ha fatto niente di speciale. Il che in effetti corrisponde a verità ma dopo aver elemosinato una mezz’ora dal dentista per due giorni me ne ero dimenticata.

Il motivo per cui scrivo è che stamattina all’alba delle 7.45 mi suona il telefono. Mentre io facevo passare in rassegna l’almanacco delle sfighe apocalittiche per cui qualcuno deve chiamarmi così presto, rispondo ed è l’infermiera della vårdcentralen dentistica:  si è liberato un posto e mi chiamava per sapere se potevo andare (al chè la mia reazione interna era più o meno un Mo va a cagher,  anche se ammetto lo stupore per la parola mantenuta). Questa storia un po’ delirante la racconto per dire che non è tutto oro quel che luccica, nemmeno la Svezia lo è, ma che la mia fiducia nell’umanità ha subito un impennata tutto grazie alle mitiche zie Vanda e Pinuccia.

Before midday

Triangles are my favourite shape: three points where two lines meet.

Se hanno fatto tre film che si chiamano, nell’ordine, Before sunrise, Before sunset e Before Midnight, allora io posso scrivere un post con questo titolo, Before midday. Perchè la storia finisce a mezzogiorno, perchè è la storia di due persone, un lui e una lei, perchè uno è una vecchia conoscenza di questo blog e quando si parla di lui si parla sempre di film.

Notturno, esterno. Una grande costruzione grigia e austera sullo sfondo. Lei sta di fianco alla sua bicicletta, si guarda attorno. Ha un mezzo sorriso in faccia, lo stomaco in subbuglio da ore. Sta pensando che arrivare in anticipo agli appuntamenti le è sempre piaciuto, le piace quel guardarsi attorno, cercare di indovinare la direzione da cui la persona arriverà, vedere un puntino lontano che si avvicina: guardarlo, abbassare lo sguardo e sorridere.
Un urlo e due mani arrivano da dietro e la prendono di sorpresa. Lei si gira, è lui. Si abbracciano, come l’ultima volta, con le costole che le sembrano destinate a rompersi in quella presa forte. I primi minuti sono d’imbarazzo, sono passati sei mesi dall’ultimo incontro e le cose da dire escono in ordine sparso, una sull’altra, come se non ci fosse già tempo a sufficienza e troppe parole da dirsi.

Interno, bancone di un locale affollato, musica e chiacchiericcio di sottofondo. Lui e lei ordinano delle birre in bottiglia e si fanno dare due bicchieri. Lui in uno slancio di cavalleria prende le birre e i bicchieri e si avvia verso il tavolo. Assieme ai bicchieri lui prende anche il vasetto delle mance, lei cerca di fermarlo ma non è in grado di proferire parola. Ride, come non rideva da mesi a questa parte, una risata bonaria, cristallina, il suono rotondo che fluisce, circola, ricircola e contagia. Anche lui.

Interno, camera di lei, è nel letto, sola. Si sveglia e ripensa al sogno che ha fatto, uno di quei sogni che ti prendono di prima mattina, che non sai mai se ti sei già svegliata o se sei ancora sotto le coperte. Sa che quello che ha sognato non succederà, ride perchè il suo subconscio non ci è ancora arrivato.

Esterno, davanti a casa di lei. Lui arriva con il suo zaino, l’ultima notte avrebbero dovuto passarla insieme in una città vicina ma all’ultimo momento i piani sono cambiati e lui passerà la notte da lei, su un materasso di fortuna. Arriva alla porta con un sorriso e un bacio sulla guancia per lei, di quelli che le labbra schioccano sulla pelle, sotto lo zigomo. Lui entra, sale le scale e si siede al tavolo e beve un bicchiere d’acqua, giusto il tempo per rischiarare la voce e ricominciare a parlare con lei. Continueranno a farlo per le prossime sei ore.

Esterno, stazione dei treni, poche persone sulla banchina, un ragazzo con la giacca di jeans è seduto su un gradino. Lei lo conosce e lo saluta, il ragazzo fa lo stesso ma è alterato dall’alcol. Iniziano a parare in attesa del treno che arriverà da lì a poco. Il ragazzo ha un forte accento francese che, unito all’alcol, rendono la comprensione delle sue parole difficili. Il ragazzo fa qualche domanda di circostanza a lui e poi chiede “Why are you leaving?“. O almeno entrambi, lui e lei, così capiscono e poco importa che la domanda fosse in realtà “Where are you living?“. Lui risponde “Perchè ci sono delle persone che mi aspettano”, lei soppesa quella risposta e pensa che non le dispiacerebbe se lui non partisse affatto, ma lui questo non lo sa.

Interno, locale affollato, lui e lei sono in piedi con una birra. Parlano di una cosa farebbero se incontrassero una persone uguale in tutto e per tutto a loro. A volte fanno queste conversazioni senza senso, ma le portano avanti con serietà, come se quello fosse un problema che li riguarda quotidianamente, che è bene discuterne e risolverlo. La loro concitazione deve aver attirato l’attenzione di alcuni ragazzi seduti lì vicino che si alzano e vengono a parlargli. Lui si ritrova una bionda un po’ chiatta con degli occhiali senza lenti, lei ha un tizio bassino con i rasta e un anello al naso dalle dimensioni preoccupanti. La marcatura è a uomo, i due figuri cercano di separarli. Sia lui che lei sono in imbarazzo. Dopo qualche minuto entrambe le conversazioni languono, lui e lei con la birra ormai finita ad un segno complice decidono di abbandonare il campo. Il ragazzo chiede a lei il numero di telefono, lui dà a lei dei colpetti con il gomito come un gesto d’intesa. Lei deve mantenere un certo aplomb e non scoppiare a ridere mentre salva quel numero, che non userà mai.

Interno, stazione dei treni sotterranea. Lei dice che quella stazione si chiama Triangolo e che a lei fa molto ridere l’architettura della stazione. Lui dopo poco realizza che è pieno di triangoli, ovunque, all’interno, all’ingresso, sui muri. Quasi subito arriva il treno. Lui e lei salgono e continuano a parlare, tanto per cambiare. Lei chiede quando sia il suo compleanno perchè lui non le ha mai voluto dire il giorno esatto e continua a non volerlo fare. Spiega che la ragione di questo segreto è che delle persone a lui care si sono dimenticate di fargli gli auguri, una volta fu una sua ragazza, un’altra volta sua sorella se ne dimenticò, da allora non vuole che si sappia di questo giorno e che se può si rifugia in un posto isolato in cui stare da solo. Lei pensa alla fragilità di lui nascosta sotto l’apparenza di un ragazzo normale, a quelle zone sensibili che lui le ha già mostrato alcune volte, al suo evitare le delusione proprio perchè evita di mettersi in condizione di averle, le delusioni. Lei pensa che gli regalerebbe una scatola con 31 pacchetti, uno per ogni giorno del mese, così non potrebbe dimenticarsi del suo compleanno. Lei pensa anche che non ce ne sarà bisogno.

Interno, casa di lei, camera da letto. Lui e lei sono appena tornati ed è il momento di cambiarsi e andare a letto. Vanno in bagno a turno, lei è un po’ imbarazzata, non hanno mai condiviso una camera prima d’ora. Lui dormirà su un materasso di fortuna ai piedi del letto di lei che lascia poco spazio per muoversi nella camera. Quando lei torna dal bagno lui è già avvolto nelle coperte, sul materasso ai piedi del letto. Dopo gli ultimi accordi per il risveglio al mattino successivo spengono le luci. Lui si rigira nel letto. Lei pensa a cosa succederebbe se si alzasse e si infilasse sotto le coperte sul materasso ai piedi del letto. Dopo pochi minuti lei dorme.

Interno, casa di lei, cucina. Lui e lei stanno facendo colazione, lei guarda l’orologio. La conversazione la mattina è più lenta e scattosa rispetto al fiume in piena dei due giorni precedenti. A un certo punto parlano anche del tempo, forse complice la pioggia che batte forte sui vetri della finestra. Lei guarda l’orologio perchè il treno per l’aeroporto parte a mezzogiorno, mancano una ventina di minuti, giusto il tempo necessario perchè lui corra alla stazione. Lei glielo fa notare, dice che non vuole buttarlo fuori di casa ma che se vuole prendere quel treno deve andarsene ora. Lui si alza dal tavolo e in tutta tranquillità lava i denti, non prima di aver raccontato una storiella divertente sul dentifricio che è solito usare, raduna le poche cose che aveva lasciato ancora in giro, infila la giacca e prende un ombrello che lei gli offre per ripararsi dalla pioggia. Lui le promette che gli restituirà l’ombrello quando lei andrà a fargli visita. Lei lo accompagna giù dalle scale fino alla porta, si abbracciano, le costole vacillano come al solito, lui fa per andare, poi torna, le scocca un altro bacio sulla guancia e infine se ne va. Lei chiude la porta e risale le scale, guarda fuori dalla finestra ma lui ha già voltato l’angolo della strada e non si vede più.

A tutti serve una buona ragione per andare al lavoro

(Ho abbozzato diversi post davvero pesanti, della stessa densità dell’iridio, ma quello di cui ho voglia qui e ora è qualcosa di leggero e quindi eccoci qui a raccontare di questa ennesima stronzata)

Sono passate già tre settimane e due giorni da quando le mie vacanze sono finite, e mancano tre mesi esatti a Natale, giusto per dare l’idea di quanto non mi pesi questo ritorno al lavoro. Mille scadenze, di cui una, la più grande scadenza di tutte, è fissata moralmente per il prossimo Giugno, quindi sono qui a testa bassa a pedalare.

Ça va sans dire, che le scadenze (e occasionalmente un po’ di amore sfuso per il mio lavoro) sono quelle che mi mandano al lavoro tutte le mattine verso le otto e mezza. Però quest’anno al mio ritorno dalle vacanze ho trovato una piacevole sorpresa ad attendermi, che aveva la forma di nuovo PostDoc bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante.

Costui viene da un’università in cui ho contatti (e in cui dovrei aver transumato per un certo periodo l’anno scorso) e una sua ex-collega a Luglio mi aveva detto che un ragazzo sarebbe venuto a Settembre. Io ho preso l’informazione, l’ho scritta su un post-it che ho incollato nel lobo occipitale destro, poi sono andata in vacanza e il post-it deve essersi staccato ed è finito dietro a tutto l’adipe che ho immagazzinato a furia di panelle e arancini. Così il primo giorno di ritorno dalle vacanze, mentre stavo affogando tra le migliaia di revisioni del mio articolo, vengo prelevata da uno dei professori che mi vuole assolutamente presentare ad un nuovo PostDoc che è appena arrivato. E lì appena lo vedo ho un paio di secondi di vuoto totale in cui penso che questo lo devono aver mandato per sbaglio quelli del casting dei modelli di H&M, e poi ho avuto l’epifania. Nemmeno fosse uno dei membri dei One Direction e io una fan in preda ad un attacco isterico, gli punto il dito contro e esclamo “Ma io so chi sei! Sì, A. mi aveva detto che saresti venuto!”. Ottimo inizio, una roba sobria per non farsi riconoscere.

Qualche giorno dopo arriva il fine settimana e io che sono sempre stata una Wendy per tutti i bambini sperduti che approcciano queste lande, non mi tiro indietro davanti a un PostDoc, così lo incontro per i corridoi e gli chiedo se ha piani per il sabato e se mi vuole dare il suo numero di telefono. Ma ricordiamoci che il soggetto in questione è bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante, per cui mi sento in dovere di sottolineare le mie intenzioni puramente umanitarie di questa richiesta, farfugliando una frase sconnessa che conteneva le parole “colleagues”, “beer”, “saturday” e “normal”, non necessariamente in questo ordine. Un po’ stupito per il mio essere diretta o perchè mi voglio prendere cura del suo equilibrio psicologico facendogli incontrare altri bipedi dal pollice opponibile, accetta a darmi il numero, che ovviamente scrivo correttamente solo dopo mille tentativi perchè il suo accento inglese, diciamocelo, fa un po’ cagare, in netto contrasto con le sue doti fisiche, nel caso non lo avessi sottolineato già a sufficienza.

Iniziamo a uscire insieme con colleghi e con altri amici e inizio a scoprire cose di lui che farebbero venire degli svenimenti isterici a qualunque donna eterosessuale tra i 16 e i 65 anni, di cui vado a fare un dettagliato elenco:

  •  fa triathlon, corre maratone e ha un passato da ciclista
  • parla quattro lingue e vuole imparare pure lo svedese
  • è un chimico (che a mio dire è ragione necessaria e sufficiente per almeno uno svenimento)
  • preferisce i cinema piccoli ai multisala
  • gli piace Londra

Diciamo che quando ho pensato di fare questo elenco mi ero immaginata di venire fuori con una lista della spesa che non finiva più (e gli ultimi tre punti sono trascurabili per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale) e invece questa défaillance mi conferma la conclusione a cui ero più o meno giunta qualche giorno fa, non appena sono riuscita a superare le caldane e i risolini isterici quando ci incrociamo in corridoio. E la conclusione è che sarà anche bello bellissimo in maniera quasi imbarazzante ma dopo di quello, bah…

Va bene, non è da tutti sapere parlare quattro lingue e correre a destra e a manca più veloci della luce ma qui non stiamo compilando un questionario delle proprie abilità e quello che marca più crocette (check!) vince. Qui stiamo parlando di budella in subbuglio e per quanto mi riguarda il mio intestino sta vivendo in tutta tranquillità la sua vita (di merda).

Queste sono le (amare) conclusioni che traggo dopo questi mesi un po’ così e una recente sovraesposizione a film pseudo-realistico-romantici in cui con un occhio si guarda alla perfezione dell’amore in 16:9 e dall’altra ci sono degli sprazzi di cinismo quotidiano che io facevo sì sì con la testolina e mettevo una firma sotto quelle parole. Tipo quando dicevano che da giovani (sic!) siamo portati a pensare che è facile trovare persone con cui connettere e invece con il tempo ci si rende conto quelle persone capitano raramente nella vita e alla fine mandiamo all’aria quelle occasioni e ci riduciamo a “connetterci malamente”. E per quanto mi riguarda non è nemmeno detto che le connessioni di cui si parla qui sopra siano delle connessioni realmente esplorate, ma piuttosto intendo connessione che sono rimaste in potenza, sospese, racchiuse in uno spazio di tempo limitato e, soprattutto, passato.

E quindi va così. Il PostDoc rimane dov’è, senza che io nemmeno mi improvvisi una panterona da laboratorio (salvo imprevedibili rivelazioni semi-personali del sopramenzionato soggetto che mi rivoltino come un calzino e facciano sbarbattare il mio cuore come una carpa spiggiata sulle rive del Po).

Però almeno ogni giorno, quando vado al lavoro, c’è lì qualcuno che mi saluta ed è bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante. Che insomma, buttalo via!

C’era una volta un re (again)

che chiese alla sua serva

“Raccontami una storia!”

La storia incominciò…

No, non ho un Alzheimer galoppante che mi fa ripetere le stesse cose. C’è che quest’anno pare sia l’anno dei matrimoni e io mi sento in dovere di riportare che nel mondo non ci sono solo sfighe apocalittiche e che alla fine qualcosa per il verso giusto ci può anche andare (forse). A questo punto servirebbe un’altra precisazione, cioè che credo non esista una diretta correlazione tra matrimonio e lieto fine, uno non implica l’altro (e non necessariamente lo esclude). Di più, venga messo agli atti che personalmente non sono un’invasata da matrimonio, non ho una cartella con gli anelli in cui custodisco ritagli di giornale ordinati in ordine cronologico dal ’93 in avanti con abiti bianchi, centrotavola e carrozze con cavalli per organizzare un sobrio “grande giorno” in stile Walt Disney.

Il mio, qui, vuole solo essere un piccolo omaggio e un promemoria che qualcuno nel mio mondo è contento.

Adesso, la storia cominciò.

Questa storia non è una storia che comincia con un c’era una volta perchè quando c’era quella volta io non c’ero. I due protagonisti si incontrarono sui banchi di scuola, al liceo. Lei era (ed è ancora) timida e studiosa e lui era (ed è ancora) il classico “scappato da casa”, quello che è un po’ uno spirito libero e della scuola non gliene importa un gran chè.

Lui in questa storia non fa la sua comparsa fino al quinto anno della laurea, ovvero dopo cinque anni da quando c’ero io in questa storia. Di lui per i primi tempi non si sa niente, si sa che c’è e si sa che lei alla domanda “ma hai un ragazzo?” rispondeva sempre “Sì, ma il mio ragazzo è brutto”. Non lo diceva con cattiveria, ma con un sorriso in faccia che contagiava anche il suo interlocutore, nonostante quell’uscita bizzarra.

Un giorno però il suo ragazzo brutto la lasciò. Lui aveva dei dubbi, sentiva che la loro storia era diventata una cosa da grandi, perchè erano insieme da tanto tempo, da un tempo in cui erano troppo piccoli per mettere i pensieri in fila e capire che cosa cosa stava succedendo davvero. Una sera eravamo ad una festa di compleanno e alla radio passò “A te” di Jovanotti e lei, nonostante la festa, nonostante il ristorante affollato, nonostante gli amici intorno, nonostante tutto pianse come una bambina. Quella canzone che era l’emblema di tutto un mondo (perso?) per lei, aveva aperto la diga e non si era riuscita a contenere. Intanto c’era stata una tesi da scrivere, un’estate, e quando tornammo dalla pausa estiva lei era pronta per la laurea. E anche lui incominciava a tornare, piano piano, come chi si è accorto di aver fatto una stronzata ma non ti vuol dare la soddisfazione e allora un mattoncino alla volta cerca di disfare un muro, sperando che non ce ne si accorga.

Tutto era come fu e il fidanzato brutto lo vidi per la prima volta alla laurea successiva e con grande stupore si scoprì che forse non era candidato a posare per il prossimo catalogo H&M ma non era nemmeno poi così brutto. Scambiammo una battuta in tutto, forse. Dovevo barcamenarmi anch’io per un’imminente laurea tra mille uffici e quando lo rividi era al suo matrimonio.

Lui arrivò in anticipo, lei un po’ meno. Ma arrivò!

Alla festa suonarono tante canzoni di Jovanotti, il DJ ignaro passò anche “A te” e io mi chiesi se lei si ricordava di quell’episodio della festa al ristorante e delle lacrime inconsolabili e se lei ci ripensasse mai al fatto che per un po’ lui se ne era andato e come la faceva sentire. Questa volta non pianse ascoltando “A te”, anzi, come ripetè più volte nel corso del ricevimento “Non ho pianto oggi! Non ho pianto!”, lei per prima stupita che non si fosse commossa mai durante tutto il giorno.

E vissero per sempre felici e contenti.

Roba in tasca

Oggi ha ricominciato a fare freddo.

Per andare in palestra mi sono messa la giacca, visto che sulla via casa lavoro mi sono congelata, io e il mio top largo e corto che trasudava ottimismo. Ho messo la giacca, e le chiavi in tasca. Ad aspettare le chiavi c’era un rettangolino di cartone, non c’era bisogno di tirarlo fuori per sapere che cos’era: ancora un fottutissimo biglietto della metro di Parigi.

Che a ripensarci è buffo: allora l’estate faticava a farsi trovare, nonostante Giugno fosse quasi finito e io me la mettevo ancora la giacca. Poi l’estate arrivo proprio in quei giorni e la giacca è rimasta appesa all’ingresso. Fino a oggi. Mentre per me l’estate ha voluto dire sì bel tempo ma anche una serie più o meno lunga di pensieri tristi. Bah, ironia.

Questa cosa delle tasche mi fa ripensare a quel compleanno di due anni fa quando un mio spasimante mi aveva regalato un borsa comprata in Iran, poichè Iraniano era il soggetto in questione. Me l’aveva impacchettata e me la diede sull’uscio di casa mia e allontanandosi mi disse di guardare nelle tasche. Aprii il pacchetto e vidi questa borsa, orrenda, ma proprio terribile, che aprii per cercare se c’era qualcosa dentro. Un biglietto giallo scritto a mano diceva che lui ha l’abitudine di guardare sempre nelle tasche, nella speranza di trovare qualcosa, che gli piace “esplorare” le tasche non solo fisiche ma anche quelle del carattere delle persone. Mi ringraziava di avergli fatto esplorare le mie (E giusto per chiarire qui parliamo di tasche metaforicissime, nessuna tasca fisica fu mai esplorata!). Quella sera iniziai a intuire che ci fosse qualcosa di più sotto, che intuito!, perchè io all’epoca non avevo idea che questo spasimasse per me. Quindici giorni dopo, più o meno, mi fece una dichiarazione “d’amore” in luogo pubblico che se ci penso ancora mi sotterro. Io lo rifiutai. Quindici giorni dopo ancora toccò a me fare una dichiarazione a una terza persona, seppur meno plateale. E venni rifiutata. Un’ecatombe, insomma. Una tragedia Shakespeariana con sangue che scorre, lacrime che sgorgano, Montecchi, Capuleti e compagnia bella.

Ce l’ho ancora quel biglietto ed è questo qui.

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E sapevo di averlo ancora, proprio perchè ieri ho trovato un altro biglietto giallo, scritto dalla stessa mano, un anno dopo. Per un periodo della mia vita questi biglietti gialli mi hanno perseguitato. Quella volta era andato in un negozio di dischi di Tokyo, mi aveva trovato un cd. Cd tra l’altro non richiesto, di un gruppo sconosciuto, che è ancora qui nella sua plastichina a prendere polvere su una mensola, accanto a Padania degli Afterhours. Quest’anno non ho ricevuto nessun bigliettino giallo, semmai mi è arrivata una mail un mese fa in cui mi diceva che una delle mie band preferite aveva fatto un nuovo cd ma non era disponibile su Spotify. Io già lo sapevo, anche perchè il cd era uscito a Gennaio, dicso non entusiasmante tra l’altro. Non gli ho mai risposto a quella mail perchè non avevo nulla da dirgli, nemmeno un grazie. Vuoi perchè sono una brutta persona, vuoi per un contrappasso universale, è che dopo due anni di no sarebbe il momento di farsene una ragione. E invece questo fesso che controlla quando escono i miei cd preferiti, che ha ascolta la mia musica, che vuole esplorare le tasche se mi servisse un rene e un polmone sarebbe in prima linea e io nulla. Niente. Neanche un pelo sulle braccia che si rizza, l’anaffettività proprio. Che è ironico, se si pensa che tutto questo sbarbattare di cuori, di tasche, di regali, di ricordi è tutto fine a sè stesso e non si concretizzerà mai in qualcos’altro. Da parte sua, da parte mia ma per altre parti. Ironia, ancora, palate di ironia.

E magari la smetterei di essere così finto-filosofica se non stessi leggendo il libro più triste della storia della letteratura moderna. Si chiama “Il museo dell’innocenza” di Ohran Pamuk. La prima pagina inizia dicendo che quello per il protagonista era il momento più felice della sua vita, facendo intuire al lettore che il resto del libro sarà una discesa negli inferi della disperazione umana. Sono a poco più di metà e al momento non vedo come possa andare peggio di così, ma ha ancora 200 e passa pagine per prendere un badile per mettersi a scavare la propria fossa, per cui sono fiduciosa che possa finire anche peggio di quanto ci si possa aspettare. E la cosa peggiore, quella che mi dovrebbe far pensare, è che questo tizio colleziona roba, oggetti che ha incontrato nella sua vita e che erano presenti a un dato momento in una certa situazione che per lui assumono valore storico, testimonianze di fatti accaduti a lui, che costituiscono un museo di storia personale.

Come il mio, fatto con i cd, i biglietti, gialli o della metro. Il biglietto della metro è rimasto nella giacca, negli scorsi giorni ho già buttato tante altre cose, scontrini, mappe e biglietti di ogni sorta, ma quel piccolo rettangolino lo ho lasciato in quella tasca grandissima, gli angoli spiegazzati dalle mie dita nervose.

Tanto io fra un paio di giorni la giacca non la uso più. La lascio qui in Svezia e come le rondini sverno.

Una fisarmonica e i tetti dai camini alti e il sacro cuore. E poi.

Questa è la scena con cui ho salutato Parigi (e te).

Ero sulla RER in direzione dell’aeroporto e questa volta, come la precedente, mi ha preso un po’ di malinconia quando ci siamo salutati. Sul treno c’era un mendicante che suonava una melodia con la fisarmonica e la carrozza riaffiorava dalla galleria, con Parigi che sfilava fuori dal finestrino.

C’erano i binari del treno e i fili che come onde si muovevano su e giù. Palazzoni alti e sottili, con camini a gruppi di tre o quattro che affollavano quei tetti dalla forma che non so spiegare ma che si vede solo a Parigi.

A un certo punto dalla selva dei palazzoni, in mezzo a due caseggiati marroni, si vede la collina di Montmartre e il Sacro Cuore.Da lontano e in mezzo a tutta quella desolazione è ancora più imponente rispetto a quando ci sei dentro e vedi tutta Parigi (ma non la Tour Eiffel).

A vederlo così mi è sembrato tutto ovvio: non siamo altro che un’isola di cose belle in mezzo a tutto il resto, dozzinale e indistinguibile.

Volevo fare una foto, per ricordarmi di quella sensazione, per averne una prova visiva. Ma quando ho finalmente trovato il telefono in un angolo nascosto della borsa era troppo tardi. Il Sacro Cuore era sparito di nuovo dietro ai palazzi e il momento era passato. E il tempo è poco, quasi insufficiente per capire cosa sta succedendo, troppo poco quasi per farne un ricordo.

E poi.

E poi non so cos’è successo. Giorno dopo giorno tu hai fatto un passo indietro, detto una parola di meno. Fino a quando sei scomparso per poi riapparire ora. Sei sfuggente, o meglio sfuggi e basta, e quando ti chiedo delle spiegazioni mi dici che hai degli impegni e io non voglio delle spiegazioni scritte in un fumetto. Le voglio sentite dire da una voce vera.

Non devono essere spiegazioni buone, non ci deve essere per forza un buon motivo, ma voglio capire. Hai visto che verbi uso? Dovere e volere, e non al condizionale. Perchè se ancora non ti era chiaro, sono una che non lascia le cose incompiute. O meglio non lascio certe cose incompiute. Oggi, più che ieri, grazie a degli incontri casuali che ti fanno aprire gli occhi, so che tu sei una di quelle certe cose per cui è necessario sporcarsi le mani, è doveroso sporcarsi le mani. Mi sembra di non aver dato tutto il possibile, di non essermi messa dentro a questa storia mostrandomi completamente. Sono stata sincera ma non trasparente, sono stata carina ma non brillante.

Il problema è che quando ti parlo ancora balbetto e le parole a volte mi escono un po’ stropicciate e per una settimana prima di ogni incontro mi sveglio all’alba e non riesco più a riaddomentarmi. Forse è per questo: perchè quando ti vedo sono in debito di sonno e a volte fatico a mettere una frase insieme, che diciamocelo, non sono proprio degli ottimi presupposti.

Non voglio forzarti di fare quello che tu non vuoi, se non vuoi, ma io sono pronta adesso e voglio farlo e devo.

Perchè tu sei diverso, in mezzo a tutto questo ciarpame, dozzinale e indistinguibile.

 

 

(La prossima volta che mi trovate a scrivere robe melense di questo genere siete autorizzati a spararmi a vista)

Fine primo tempo

(Se mi dicessero che questa è l’unica canzone che posso ascoltare da qui alla fine dei miei giorni, non la prenderei troppo male)

Sono arrivata a poco più di metà della mia avventura Albionese ed è già tempo di bilanci. Così come è successo durante il periodo Olandese, sono felice. Sono felice della stessa felicità per cui non c’è niente di incredibilmente perfetto da farmi svegliare alla mattina con un sorriso. Ma che lo voglia o no, quel sorriso ce l’ho in faccia.

Sono quasi quattro settimane. Ci sono stati giorni in cui mi sono chiesta che cosa ci facevo qui. Per la prima settimana non ho nemmeno disfatto la valigia, ce l’avevo aperta in mezzo alla camera, con ancora i vestiti piegati all’interno. Nemmeno dovessi decidere di chiuderla, prendere la porta e tornare da dove sono venuta. E invece niente, dopo un po’ la valigia l’ho disfatta e adesso ci ho pure preso gusto.

Scrivo di sabato sera, perchè sono a casa. Il sabato sera a casa era una cosa che non mi succedeva da secoli: il fine settimana, per me sacro e dedicato a qualsiasi attività purchè fuori di casa e in compagnia, non è più imprescindibile. Alla fine qui conosco una manciata di persone, nella casa stasera penso ci saremo solo io e la Cinese.

L’Italiano è probabilmente fuori con la Brasiliana (ve l’avevo detto che c’è una Brasiliana? No? Bè, mi sta sul cazzo e questo è più o meno quanto). L’Algerino è disperso altrove. L’Hondurena visto che non spiccica una parola di Inglese è andata a Vienna per una settimana, magari il Tedesco le riesce più congeniale. L’Indiano se ne è andato e non ritorna più. Il Tedesco sta copulando con la sua ragazza (poichè ho scoperto che questa è la ragione per cui non è mai a casa). Il Belga sta copulando con la sua ragazza pure lui, probabilmente, visto che per qualche giorno è a Londra, con lei e mille altre persone. E io invece sono qui, con la piantina di basilico che il Belga mi ha pregato di curargli in sua assenza, come in una rivisitazione della scena finale di “Leon”, dove alla fine rimango da sola, io con la piantina. Che poi io nemmeno le so curare le piante e se non ci si crede, chiedete a mia mamma del genocidio botanico quella volta che i miei sono andati in vacanza per una settimana e mi hanno lasciato i vasi da innaffiare. Ho seriamente pensato che i miei mi avrebbero disconosciuta quella volta.

Le altre persone che conosco sono le ragazze del laboratorio e con loro sono uscita ieri sera. Alle cinque siamo andate al pub per “una birra”, che è diventata un’altra birra, che è diventata una cena, seguita da tre giri di sambuca e ancora una birra. Morale della favola, alle undici il pub ha chiuso e ci ha buttato per strada, che mai fu così difficile da percorrere anche se erano solo dieci minuti fino alla mia prigione. Oltre a non avere il senso della misura per l’alcool, devo dire che quelle ragazze mi piacciono. A differenza di molta altra gente che conosco attraverso il lavoro, non si prendono troppo sul serio, il che è sempre un valore aggiunto quando il tuo progetto di ricerca riguarda cose che nemmeno a quelli che lavorano nel tuo campo gliene potrebbe fregare di meno.

Questo è il mucchietto di persone che mi accompagnano in questa avventura. Certo, ci sono tutti gli altri, quelli che sono disseminati da qualche parte nel mondo e che di tanto in tanto mi mandano una e-mail con dentro un po’ d’amore sfuso.

E sono felice.

Inizio a sospettare che la ragione di questa estasi, la mia droga, sia questa possibilità che mi è stata data, quella di viaggiare. Una vita da semi-nomade. La vita in Svezia, quattro mesi di fuga in Olanda, un paio in Svezia e poi ancora in Inghilterra. Ogni volta che approdo in un posto nuovo ho la possibilità di ripartire da zero. Zero è un numero che fa un po’ paura però è il brivido che conta, che ti dà la scossa e ti fa cominciare. Ogni volta posso reinventarmi ed essere quello che voglio.

In Svezia, all’inizio, ero quella piena di buoni sentimenti, quella che fa-la-cosa-giusta e dio solo sa a quali terribili risultati ha portato tutta la mia voglia di correttezza.

In Olanda sono diventata Italiana, ho rispolverato un amore per la mia nazione e per le persone che ci vivono. Come ogni mio amore, anche quello per l’Italia è un amore mal riposto, mi pare di capire.

Qui sono una radical-chic che ognuno nel mondo si dovrebbe sentire in dovere di odiare, imparo di film che anche la mamma del regista si è rifiutata di vedere e il Belga mi legge le poesie decadenti mentre mangio gli involtini primavera, mia unica vera fonte di sostentamento.

Il problema è che non posso condurre una vita con la data di scadenza in eterno. Verrà il giorno in cui dovrò mettere la testa a posto, in un unico posto, e provare a rimanerci. Temo quel giorno e allo stesso modo lo aspetto curiosa, per vedere chi sarò allora e quanto detestabile sarò diventata. Per il momento mi godo l’effimera felicità di questa nuova vita, che tra tre settimane finirà in un secondo, proprio come è incominciata.

Le mie prigioni

(Johnny Cash era più figo quando era Joaquin Phoenix, comunque)

Un primo aggiornamento dalla terribile Albione. Che a chiamarla Albione ci ho preso gusto e se il tempo è dalla mia vorrei quasi fare un salto a vedere il vallo di Adriano, giusto per dare un tono ancora più epico a questa calata nel Regno Unito.

Scrivo per descrivere dove sono e cosa sono, a futura memoria.

La casa in cui alloggio ha conquistato in cinque minuti al massimo lo pseudonimo di prigione. La mia cella camera è un cubotto di 9 metri quadri, con lato 3 per 3. L’arredamento può essere descritto come spartano, con un eccesso di generosità verso Sparta e i suoi usi, ed è dotato di un lavabo in camera. La turca in camera, come nelle migliori prigioni di Caracas non c’è, mi devo fare un piano di scale per arrivare al primo pisciatoio disponibile. Le pareti sono bianchine, una fa eccezione ed è grigina, la porta è grigia e il copriletto in comodato d’uso è azzurrino. Per terra, nella mia camera e ovunque, moquette. Moquette a spruzzo. Scale coperte di moquette, uffici universitari con la moquette, moquette con macchie dei secoli nei secoli amen.

Poi io ce l’ho sempre avuto qualche problema di relazione con la moquette, forse per copla di mia madre che mi lanciava anatemi di micosi e altre malattie appena mi azzardavo a camminare senza ciabatte in un albergo (con la moquette, ovviamente). E forse proprio per la sovraesposizione da moquette, a me questa nuova casa ha destato qualche sospetto fin da principio.

Quando arrivai, all’alba di Lunedì!, iniziai a dare un’occhiata in giro (dopo aver scoperto la miserrima dotazione della mia camera). Una vasca da bagno (roba che non vedeva dal 1997), un water, una doccia, un altro water, dieci porte che danno su altrettante stanze e una cucina in cui, fatta eccezione per un bidone dell’immondizia semi pieno, non si scorge traccia di passaggio umano. Apro il frigo per cercare di capire le abitudini alimentari degli autoctoni, e soprattutto, se gli autoctoni esistono. Il frigo è quasi pieno, ci sono bigliettini con i nomi su alcuni ripiani. Ad oggi, coloro che hanno apposto il nome sul cibo non sono ancora stati avvistati. Probabilmente se scrivi il tuo nome e lo metti in frigo morirai dopo sette giorni.

Con il passare dei giorni, sporadicamente, è stata avvistata un po’ di umanità varia, che vi vado a descrivere.

La cinese. Ogni casa condivisa che si rispetti ha una Cinese, che come tradizione parla un Inglese demmerda. A differenza mia, lei sembra apprezzare il comfort della sua cella, tanto che una volta cucinato il pasto corre a mangiarselo in camera. Spesso ho l’impressione che mi dica di sì ma non capisca davvero quello che dico.

L’algerino atipico. Questo mi ha fatto un agguato mentre io ero sulla via per il bagno. Volevo andare a fare la pipì tantissimo e non appena chiudo la porta, ecco che si apre la porta in fronte alla mia: “Ciao, ho sentito qualcuno e volevo vedere chi era!”. Per la serie: chi sei? dove vai? un fiorino! Dopo una sosta in bagno ci sediamo in cucina per fare due chiacchiere. Dice che è Algerino, anche se i tratti nord Africani non ce li ha proprio, ma visto che io sono ignorante come una capra sospetto che ci sia qualche influenza colonica nella sua stirpe e non do peso alla vicenda. Questo suona in un gruppo di musica andalusa (WTF?!) e dopo dieci minuti che parliamo mi sta già troppo addosso: domani mattina andiamo insieme in Università, ci iscriviamo insieme in palestra, andiamo a fare la spesa insieme. Ragazzo, se vuoi possiamo anche sincronizzare i nostri respiri e poi siamo una cosa sola: dammi spazio! Con mia somma sorpresa, dopo avermi promesso sincronia eterna ha metodicamente mancato ogni appuntamento che avevo proposto, nonostante una certa riluttanza nel proporre tali incontri. Ciò nonostante, quando Mercoledì sera ho rincasato alle 11 mi è venuto a bussare alla porta chiedendomi dove ero stata. La più grande canottiera del secolo: non stare addosso!

L’hondureña. Questa più che una coinquilina è un personaggio mitologico. Apparsa due volte in cucina, manco fosse la madonna del monte, con una tazza di plastica in mano si scalda un po’ d’acqua e se ne va. Il suo Inglese è talmente terribile che mi stupisco che sia sopravvissuta in questa nazione per due mesi. Mossa a pietà e per la mancanza di comprensione anche per le domande più basilari (tipo, in che stanza sei? Lei risponde, Sì, mi prendo un po’ di acqua calda) ho provato a parlare Spagnolo e si sappia che il mio Spagnolo è pressochè inesistente. Alle mie domande in Spagnolo lei mi rispondeva sempre in modalità random in Inglese. Probabilmente avrà pensato che sono come una di quei turisti Europei che vanno in vacanza in Centro America e credono di essere autoctoni perchè possono dire La cuenta por favor. Comunque lei adora il mio nome e l’ultima volta che mi ha visto si è messa a cantare una canzone.

L’Italiano. Sappiate che se dovessi morire è per mano sua.  L’ho incontrato sul pianerottolo e mentre io tentavo di ingaggiare una conversazione, forte del fatto che condividiamo la stessa lingua, notavo che lui si teneva saldo alla maniglia della porta della sua camera, lanciando il chiaro messaggio che di parlare con me non ne aveva proprio voglia. I successivi incontri sono stati brevi e io, come mio solito, tenevo banco mentre lui rispondeva a stento e con monosillabi. Gli si sono illuminati gli occhi solo quando ha visto che sto leggendo un libro di Vargas Llosa, per il resto penso che non mi possa reggere. Spera che io decida di ritornare da dove sono venuta il più presto possibile e che le mie corde vocali si recidano nottetempo, così almeno la chiudo ogni tanto quella ciabatta urlante che mi ritrovo al posto della bocca. Ogni mio tentativo di coinvolgerlo in attività di gruppo si sta rivelando vano. (Perchè nel caso ci fosse qualche dubbio, mi sono autoeletta anima trascinante di questa armata Brancaleone e sono determinata ad instaurare un regime di socialità minima tra gli occupanti di questa altrimenti tristissima prigione)

Il Belga. Questo è l’unico che mi sta dando qualche soddisfazione. Oltre ad aver proposto di vedere un film di Jim Jarmush e ad aver avuto più d’una conversazione con me, questo ha anche capito che questa casa, così com’è, è un covo di pazzi. Un posto in cui ognuno ha il suo piatto e il suo bicchiere, la sua padellina e che appena finito di mangiare tutto scompare in una qualche scansia della cucina. Un posto in cui le persone non sono quasi mai fuori dalle proprie stanze e se ci sono tendono a rientrarci il prima possibile. Mi ha anche chiesto: ma come ti è venuto di venire qui appena prima delle vacanze di Pasqua? Caro mio, io faccio scelte prive di senso dal 1986: perchè cambiare proprio ora? Per noia, per mancanza di spunti e per il totale collasso di altre storie pregresse, penso che mi stia prendendo una mezza cotta per il Belga. Sospetto sia gay, ma questa non sarebbe poi una novità per le mie infatuazioni.

Ci sono altre quattro stanze che non hanno un occupante ad oggi, per cui nuovi e improbabili personaggi potrebbero capitare sulla via nei prossimi giorni. E il mistero continua…