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C’era una volta un re (l’ultima della serie)

C’era una volta un re

Seduto sul sofà

Che chiese alla sua serva

“Raccontami una storia!”

La storia incominciò…

 

C’era una volta una casa, con la muffa negli angoli delle pareti, una scrivania da ufficio, un armadio a ponte e due letti. In quella stanza sgarruppata iniziarono ad abitare due fanciulle: una ero io, l’altra era lei. Io e lei ci eravamo scelte dopo qualche mese di conoscenza per andare a vivere insieme nel periodo dell’università e visto che non eravamo ricche ereditiere, avevamo deciso di condividere una stanza, con tutto quello che implica essere nello stesso spazio per cinque giorni a settimana, respirare la stessa aria, addirittura, seguire gli stessi corsi.

Abbiamo iniziato nella casa con la muffa, per poi arrivare alla casa dei ghiacci, che d’inverno dormivo affogata sotto a due piumoni tirati fin sopra la testa, io, invece lei, che viene dalla montagna, affrontava il freddo con un certo aplomb. Quella casa fredda, una casa di bulle diceva un cartello in cucina, ne ha viste di tutti i colori. Ha visto lei che si lasciava con il primo moroso di sempre, lei che piangeva ascoltando una canzone che nemmeno mi ricordo più, forse era De Andrè, ma mi chiedo se mai la radio blu metallizzato della cucina lo abbia suonato De Andrè. Lei ha avuto qualche momento in cui non sapeva bene dove andare a parare, ma poi ha iniziato a parlare del suo amico, quello di cui è spuntata una foto in camera, dove sorridono a una festa con il pollice in su tutti e due.

Il suo amico, più grande di lei ma solo in età, ha sempre avuto un problema, che è comune a tanti ma proprio tanti, quello che non sapeva se voleva, cosa voleva e soprattutto perchè voleva. Il suo amico, oltre ad avere quel problema, ne aveva anche un altro, ovvero che il papà era ammalato e in poco tempo se ne andò. Lei, che è una con i controcazzi, in quel periodo si prese cura di lui, che si prendeva cura di suo padre, senza avere niente in cambio, senza pretendere niente.

Dopo qualche mese, dopo l’estate, mentre io e lei stavamo condividendo altre stanze più provvisorie, piene di letti a castello e di zaini di girovaghi in un’isola lontana, mi raccontò che lui non ancora si era deciso. Però forse era un po’ più convinto di prima. Un po’. Ad ogni mese che passava, lui si decideva un po’ di più. Un po’.

Ci è voluto un altro po’, ma alla fine la settimana scorsa si sono sposati. Perchè a volte uno lo sa subito, a volte uno lo ha sempre saputo e altre volte uno lo sa un po’.

C’era una volta un re (again)

che chiese alla sua serva

“Raccontami una storia!”

La storia incominciò…

No, non ho un Alzheimer galoppante che mi fa ripetere le stesse cose. C’è che quest’anno pare sia l’anno dei matrimoni e io mi sento in dovere di riportare che nel mondo non ci sono solo sfighe apocalittiche e che alla fine qualcosa per il verso giusto ci può anche andare (forse). A questo punto servirebbe un’altra precisazione, cioè che credo non esista una diretta correlazione tra matrimonio e lieto fine, uno non implica l’altro (e non necessariamente lo esclude). Di più, venga messo agli atti che personalmente non sono un’invasata da matrimonio, non ho una cartella con gli anelli in cui custodisco ritagli di giornale ordinati in ordine cronologico dal ’93 in avanti con abiti bianchi, centrotavola e carrozze con cavalli per organizzare un sobrio “grande giorno” in stile Walt Disney.

Il mio, qui, vuole solo essere un piccolo omaggio e un promemoria che qualcuno nel mio mondo è contento.

Adesso, la storia cominciò.

Questa storia non è una storia che comincia con un c’era una volta perchè quando c’era quella volta io non c’ero. I due protagonisti si incontrarono sui banchi di scuola, al liceo. Lei era (ed è ancora) timida e studiosa e lui era (ed è ancora) il classico “scappato da casa”, quello che è un po’ uno spirito libero e della scuola non gliene importa un gran chè.

Lui in questa storia non fa la sua comparsa fino al quinto anno della laurea, ovvero dopo cinque anni da quando c’ero io in questa storia. Di lui per i primi tempi non si sa niente, si sa che c’è e si sa che lei alla domanda “ma hai un ragazzo?” rispondeva sempre “Sì, ma il mio ragazzo è brutto”. Non lo diceva con cattiveria, ma con un sorriso in faccia che contagiava anche il suo interlocutore, nonostante quell’uscita bizzarra.

Un giorno però il suo ragazzo brutto la lasciò. Lui aveva dei dubbi, sentiva che la loro storia era diventata una cosa da grandi, perchè erano insieme da tanto tempo, da un tempo in cui erano troppo piccoli per mettere i pensieri in fila e capire che cosa cosa stava succedendo davvero. Una sera eravamo ad una festa di compleanno e alla radio passò “A te” di Jovanotti e lei, nonostante la festa, nonostante il ristorante affollato, nonostante gli amici intorno, nonostante tutto pianse come una bambina. Quella canzone che era l’emblema di tutto un mondo (perso?) per lei, aveva aperto la diga e non si era riuscita a contenere. Intanto c’era stata una tesi da scrivere, un’estate, e quando tornammo dalla pausa estiva lei era pronta per la laurea. E anche lui incominciava a tornare, piano piano, come chi si è accorto di aver fatto una stronzata ma non ti vuol dare la soddisfazione e allora un mattoncino alla volta cerca di disfare un muro, sperando che non ce ne si accorga.

Tutto era come fu e il fidanzato brutto lo vidi per la prima volta alla laurea successiva e con grande stupore si scoprì che forse non era candidato a posare per il prossimo catalogo H&M ma non era nemmeno poi così brutto. Scambiammo una battuta in tutto, forse. Dovevo barcamenarmi anch’io per un’imminente laurea tra mille uffici e quando lo rividi era al suo matrimonio.

Lui arrivò in anticipo, lei un po’ meno. Ma arrivò!

Alla festa suonarono tante canzoni di Jovanotti, il DJ ignaro passò anche “A te” e io mi chiesi se lei si ricordava di quell’episodio della festa al ristorante e delle lacrime inconsolabili e se lei ci ripensasse mai al fatto che per un po’ lui se ne era andato e come la faceva sentire. Questa volta non pianse ascoltando “A te”, anzi, come ripetè più volte nel corso del ricevimento “Non ho pianto oggi! Non ho pianto!”, lei per prima stupita che non si fosse commossa mai durante tutto il giorno.

E vissero per sempre felici e contenti.

Serramenti

(Che poi uno i serramenti non li deve per forza chiudere, no?)

Succede che ci sono delle sere di Gennaio in cui uno si rimane da soli con i propri pensieri e non si può fare a meno di farsi delle domande (che non bisognerebbe farsi in una fredda sera di Gennaio), tipo “Dove sarò tra cinque anni?”, “Che cosa starò facendo?” o più in generale “Che cazzo sto facendo ora della mia esistenza?”.

Questa vita da nomade in cui mi sono cacciata è bella. Quando siedi a un bar e racconti la tua storia, le città in cui vivi, hai vissuto e in cui tornerai o meno ci sono persone che genuinamente ti invidiano. Peccato, che con questo stile abitativo molto temporaneo non sia possibile creare legami stabili. Non con cose, luoghi e sopratutto persone.

Le persone sono il vero problema: apri porte, finestre e tapparelle, fai entrare persone nella tua vita, altre escono e alla fine è un bazar in cui tanti passano e pochi rimangono. Forse è così per tutti ma la mancanza di un luogo fisico in cui raccogliere tutte queste persone fa sentire il loro passaggio ancora più fugace.

Le persone non sono il problema: il problema è che uno ci si affeziona alle persone, in meno di un giorno, forse meno di un’ora. Disaffezionarsi è il problema.

Succede che ho aperto una finestra per qualcuno. Volevo farlo entrare, lo volevo così tanto che mi svegliavo nel cuore della notte per pensare a quanto sarebbe stato bello se. Immagino che volere a volte non sia abbastanza. Non so se anche lui aveva le stesse intenzioni, così forti, ma è certo che se c’è qualcuno che ha mancato di volontà è stato lui. Lo dico senza rancore: mi sono messa in gioco, ho chiesto, ho scritto, ho ballato, ho sorriso. Adesso scrollo le spalle. Mancano pochi giorni alla fine dell’Appartamento Olandese e ho già due valigie da riportarmi in Svezia, non mi posso portare dietro altri fantasmi.

Succede che avevo socchiuso una porta tempo fa. Fortunatamente non sono l’unica persona al mondo che fa questa vita raminga e succede che io e lui ci veniamo a trovare nella stessa nazione. Ai capi opposti, ma sempre nello stesso Stato, e fino ad ora non era mai successo. Ci sentiamo, parliamo, ridiamo, io sorrido di quel sorrido che lui conosce bene. Lui mi racconta della sua vita Olandese, temporanea come la mia, e dei suoi nuovi incontri, del suo mentore, una ragazza Italiana di Pisa. Gli dico che dovrebbe provarci, perchè io sono una disinvolta e incentivo i miei ex ragazzi a saltare addosso a chiunque gli capiti a tiro.

E lì lui si mette a parlare di porte. Dice che ha chiuso parecchie porte e prima di aprirne di nuove vorrebbe cercare di capire se ne ha lasciata una socchiusa. Forse ci vedremo la prossima settimana. Forse.

Di lui mi piace che posso prenderlo in giro e lui può prendere in giro me. È bello ed insieme siamo uno il complemento dell’altro. Lui capisce quello che faccio al lavoro, frustrazioni, scazzi, (rare) gioie. Crede che io sappia cucinare,l’illuso. Tra noi due lui è la fighetta, io sono quella tutta d’un pezzo che dà consigli e sa consolare. Lui è la drama queen della situazione e la interpreta con la maestria di uno che ha vissuto in un paese del Sud Europa per tutta la vita con una punta di esoticità lasciata da quegli anni in cui era nella sua isoletta in mezzo all’Atlantico.

Di lui non mi piace che per almeno altri quattro mesi non saremo nella stessa nazione e nemmeno in paesi confinanti. Russa come un trattore e ovviamente dorme abbracciato a me, con la pesta appoggiata al mio collo. A volte non sa di avere torto e non sa fermarsi anche quando sa di fare un errore. Di lui non mi piace che tradì la sua ragazza di allora (con me…) e lei non lo è mai venuto a sapere.

Penso alle porte, socchiuse e non, al fatto che non mi sono svegliata stanotte a pensare quanto sarebbe bello se ci incontrassimo la prossima settimana, ma ho sognato l’altro, quello della finestra, quello che mi fa scrollare le spalle. Poi oggi quando il maledetto subconscio era domato ho pensato alle porte, se aprirle, se lasciarle come sono.

Ho promessa a me stessa di ricordarmi che devo morire, penso che farsi prendere dall’entusiasmo per essere finalmente nello stesso posto possa giustificare un incontro, ma quanti altri fine settimana dovremo incontrarci prima di capire cosa dobbiamo fare con questa porta?

L’imbarazzante momento in cui

Ovvero de l’arte della exit strategy.

Credo che ci sia il bisogno di queste righe perchè la filmografia americana di massa ci bombarda con brillioni di film in cui è tento facile innamorarsi. La trama è semplice ed è sempre la stessa: incontro, interesse, accidente, peripezia, lieto fine. Mischia le carte di Propp, mettile in un ordine a caso e butta un finale melenso che di sicuro non ti sbagli.

Perchè non va sempre come nei film, può capitare che tu esci con qualcuno e poi… non ci esci più. E davanti a queste situazioni si può essere del tutto insensibili, continuare a vivere la propria vita come se nulla fosse, incontrare l’ormai ex uscente e fare come se nulla fosse ma successo, oppure si può essere me.

Nel caso questo anno di blog non avesse ancora fugato il dubbio, me stessa è la causa prima di ogni complicazione della mia esistenza. Davanti a qualsiasi situazione sentimentale adoro crogiolarmi in centinaia di perchè e percome, analizzare ogni frase, sguardo, intenzione e infine affogare nelle mie stesse supposizioni. Se non vivessi ogni flirt come un’esperienza totalizzante probabilmente inizierei a preoccuparmi di avere un cuore morto (because a heart that hurts is a heart that works, cit. Placebo).

Di conseguenza, quando le cose con un uscente iniziano a stagnare e non si capisce se il capitolo ha da chiudersi o meno, io faccio quello che ogni ventiseienne con un discreto passato amoroso alle spalle farebbe: mi faccio prendere dal panico. Anni e anni di educazione sentimentale vengono gettati alle ortiche e se questo fosse una partita a scacchi, bè io inizio a fare mosse a casaccio, perchè se non puoi batterli almeno confondili!

Tra le (recenti) pensate di maggior successo terrei a menzionare le seguenti:

(e se questo fosse un programma televisivo ora andrebbe in onda quella scritta che dice, mi raccomando che non vi venga in mente di fare a casa quello di cui leggerete qua sotto. Ne va della vostra vita! Ma se volete farlo, procuratevi delle amiche senza scrupoli dotate di una videocamera.)

1. L’uomo invisibile

Quando vi trovate obbligati a condividere lo stesso spazio vitale, fingete che il vostro ex uscente non esista.

Ridete, scherzate, sorridete con qualunque bipede vi capiti a tiro. Animali sono ammessi, a patto che riusciate a mantenere un certo applombe, che non è che potete mostrarvi disperate e desiderose di attenzioni come un cane zoppo. Voi siete totalmente autosufficienti e in quanto tali state vivendo la vostra esistenza con successo anche senza di lui.

Ma non appena entra nel vostro raggio di interazione, ecco che scatta la mossa numero 2.

 

2. Il simpatico umorista

Adesso che avete dimostrato al mondo quanto la vostra vita sia altrettanto compiuta anche senza di lui al vostro fianco (in un patetico tentativo di attirare la sua attenzione non dandogliene, psicologia inversa 1.0) è possibile, seppur non certo, che lui possa avvicinarsi a voi in un raggio di due metri. La zona entro tale raggio verrà rinominata come il vostro cerchio di terrore. Un uscente che entra nel cerchio di terrore può voler dire tutto e niente, ma per la vostra mente ottenebrata dagli estrogeni avrà il solo effetto di far aprire quella coda di pavone a piena ruota. Se avete una quarta non vi devo spigare io cosa fare, in mancanza di quello dovrete puntare sulla simpatia e direte qualcosa di divertentissimo coinvolgendolo nella vostra oltremodo esilarante conversazione.

3. Fish eye

Quando il vostro charme avvolge tutto e tutti è il momento di essere lascivi e mostrare il vostro interesse non con le parole ma con i fatti.

Dunque, lanciate occhiate da un lato all’altro della stanza per individuarlo e quindi puntare il soggetto, sperando che anche lui volga lo sguardo verso il vostro. La vostra espressione non deve far trapelare nessun sentimento in particolare, come se voi eravate assorte a elucubrare sulle cose del mondo guardando un punto all’infinito e lui si è proprio messo in mezzo tra voi e il punto, interrompendo quello straordinario flusso di coscienza. In poche parole, uno sguardo da pesce.

4. Stay casual, stay foolish

Se tutto questo imbarazzo che vi siete inflitte non è sufficiente, allora potete ancora percorrere la definitiva via dell’autoseppellimento facendo le donne-del-giorno-d’oggi.

La donna-del-giorno-d’oggi (DDGD’O) ne ha piene le palle di aspettare il principe azzurro a casa mentre va palpeggiando arcolai o addentando mele (la DDGD’O infatti rifugge da ogni clichè Disney, che viene imputato a unica causa delle sue delusioni amorose). Infatti in barba alle convenzioni sociali in auge nel Sud Europa lei scrive di suo pugno messaggi, mail, whatsapp (e sia maledetta la tecnologia!) proponendo intrattenimenti di varia natura (cibo, bevande, proiezioni di audiovisivi). Se la risposta è negativa o assente, allora la DDGD’O potrà desistere nei suoi intenti perchè è DDGD’O ma non è abituata a confrontarsi con la sconfitta. Ma se sfortunatamente i segnali dall’altra parte non sono così netti (forse, devo vedere, mi piacerebbe ma, sì sì dai e poi ti do buca) allora subentra un meccanismo di autocompensazione in cui l’opera iniziata con così tanta modernità non vuole essere abbandonata, dimostrando al mondo intero che una DDGD’O va e si prende ciò che vuole, ciò che è suo.

Così non demorderà a inviare forme di comunicazione non verbale ma multimediale ad alto tasso di emoticons per riuscire a strappare un paio d’ore di libertà al povero malcapitato.

Ma arrivata fino a qua, cosa ho voluto dire? Se arrivata fino a questo punto della lettura ci si è resi conti di essersi resi ridicoli facendo una o più delle cose elencate ai punti precedenti (o forse anche altre cose inenarrabili), bè allora, facciamocela una risata.

Innanzitutto perchè anche se non siete dei mostri di savoir-faire in queste situazioni imbarazzanti, almeno ci avete provato a fare qualcosa con i vostri seppur scarsi mezzi. E poi anche se le cose non vanno per il verso giusto non vuol dire che la vostra esistenza è compromessa per sempre.

Va bene il dispiacere, il pensare a quello che sarebbe stato, la voglia che vi assale di fare le stalker ma tutti questi momenti indimenticabili (nemmeno con anni di psicoterapia) vi avranno riempito delle giornate che altrimenti sarebbero state solo un altro mucchietto di ore tra un sorgere e un calar del sole.

Le tazzatorte

Sottotitolo: Volevo fare la food blogger, liberamente ispirato a questo post che merita.

Nonostante le mie origini, io in cucina non sono mai stata un fulmine.

Quello che mi spaventa e mi blocca non è tanto il cucinare ma lavare i piatti. Se avessi una lavastoviglie sono certa che cucinerei di più, o semplicemente troverei un’altra scusa per non cucinare.

Dopo aver dato questo pietoso saggio della mia pigrizia passiamo alla ciccia. Giovedì mi tocca preparare la fika per il mio gruppo di lavoro, che detta così avrò fatto cadere dalla sedia chiunque abbia letto questa frase. In Svedese dicesi fika l’atto di bere una tazza di caffè accompagnato da un piccolo companatico, generalmente dolce ma sti vichinghi buttano giù di tutto, specialmente dei simil spalmabili riomare che mi viene il voltastomaco solo a vedere il tubetto. Per voltastomaci cliccare qui.

(Avevo scritto un paio di paragrafi con battute scontatissime sull’argomento fika con doppio senso becero che ho cancellato. Ciò nonostante vi invito a fare i più bassi giochi di parole tra voi e voi. Mi raccomando, zero vergogna.)

Dicevo, che sono responsabile per la preparazione del companatico per la pausa caffè, la prima pausa caffè della stagione autunno inverno e, ovviamente, la prima pausa caffè dove c’è un responsabile per la preparazione del companatico. Che culo, insomma.

La lieta novella è stata annunciata da una mail una settimana fa o giù di lì e il mittente era questo figuro qui. In tutta la sua sfacciataggine ha aggiunto: “E’ altamente apprezzato che la fika sia fatta in casa.”, come se io, donna moderna del 21° secolo, non ho altro a cui pensare che a sfornare dolci e prelibatezze.

Da qui è nata la vendetta, tremenda vendetta.

In quanto prima della lista ho l’onore e la fortuna di stabilire lo standard per il companatico, infatti non essendoci precedenti qualunque cosa porterò, sarà ben accetta. Qualunque. Quindi, per far capire a quest’uomo che prima di scrivere le cose dovrebbe pensare due volte e poi stare zitto ho deciso che farò un dolce che potrebbe essere stato rubato a dei bambini dell’asilo, giusto per allinearmi alla sua età mentale. Mi sono rimboccata le maniche e ho cercato e cercato e cercato e cercato e finalmente ho deciso che preparerò delle tazzatorte. Le tazzatorte (forma plurale di tazzatorta) sono cupcake incartate in un pirottino rosa baby o azzurro fiocco da remigino, ricoperte da glassa e palline di zucchero colorato.

Il fine ultimo è di fare qualcosa che il gruppo possa gustare (si spera!) e che il cerebroleso possa vedere come una diretta sfida alla sua integrità di Uomo, uno di quelli che non deve chiedere mai e che per questo non vorrebbe involontariamente ritrovarsi a mangiare qualcosa che si addice a una baby shower o al primo compleanno di mia nipote. So che il messaggio che voglio lanciare è arrotolato in una bottiglia fatta di vetro scuro, tappata che naviga al largo dell’oceano, ma tentare non nuoce. Difatti, è notorio che la vendetta è un piatto che va servito con gli zuccherini colorati.

Domani è il gran giorno della preparazione di questa stupendezza, state sintonizzati che se alla fine di domani sera ho ancora un paio di neuroni accesi potrei condividere una foto con twitter (che poi sto twitter io ancora non lo sto capendo, ma appena mi sono raccapezzata ve lo dico come funziona, eh!). Il più grande ostacolo tra me e le tazzatorte in questo momento si chiama Stäm. Si sappia che qui avere una bilancia da cucina in casa è un po’ come bestemmiare in chiesa, perchè lo Svedese medio non ha bisogno di sapere quanti grammi di quello o di questo ci vogliono. Loro vanno a coppette. Una coppetta grande di farina, due coppette medie di zucchero, tanto amore ed eccoci pronti. Ho trovato un sito che trasforma le coppette in grammi, per cui dovrei essere coperta ma solo domani lo sapremo.

Un altro ostacolo, sul quale spero di soprassedere, è che non ho lo stampo da forno dei muffin ma spero e confido nel fatto che i pirottini, tanto più se in colori improponibili, tengano.

Ricapitoliamo: domani, tazzatorte; giovedì, vendetta/corsa al supermercato a comprare una torta; venerdì, ritorno a casa base; sabato, un cazzo; da domenica fino a giovedì prossimo, Cruccoland per lavoro. Chè non vorrei che si dicesse in giro che sono andata in vacanza. Io sarò in un posto orrendo a lavorare e a fare mercimonio del mio corpo. Quando torno ragguaglierò sul tutto, fino ad allora vi auguro una dolce settimana.

Ricetta per 24 tazzatorte 

(Ventiquattro?! 24?! Te sei Paz-za!)

240 grammi di burro (olè)

240 grammi di farina

2 cucchiaini di lievito chimico (suppongo sia bicarbonato o almeno io quello ho)

1 limone

sale q.b.

4 uova

una bustina di vanillinavanillina non pervenuta nel mio supermercato, per cui ci mettiamo un po’ di zucchero vanigliato

240 grammi di zucchero (di cui un tot è lo zucchero vanigliato di cui sopra)

Per la guarnizione:

zucchero a velo (che qui sarà lo zucchero vanigliato perchè gli svedesi se lo sbriciolano ci butano anche un po’ di vaniglia, se no non ne vale la pena), acqua calda e (ovviamente) palline di zucchero technicolor.

Preparazione

Unire zucchero e burro e sbattere con la frusta elettrica, quindi aggiungere le uova e continuare a darci di frusta.

Per ultimo, aggiungere la farina e il lievito setacciati e mescolare con un cucchiaio di legno (potere di Kali, vieni a me!). Distribuite l’impasto nei pirottini, posizionati nello stampo per muffin (ho come l’impressione che sto fatto che mi manca lo stampo mi fregherà). I pirottini devono essere riempiti per metà.

Infornare per 20 minuti a 180 gradi.

Preparare la glassa mescolando lo zucchero a velo con l’acqua calda q.b. Spargere sulle tazzatorte e incastonarci sopra le palline di zucchero.

Et voilà!

(Immaginare una foto bellissima di tazzatorte qui.)

Il femminismo ha i giorni contati

Mettiamo le cose in chiaro: non si vuole puntare il dito, accusare o fare delle discriminazioni sulla base di sesso, paese di origine e usi e costumi. Sono a conoscenza del fatto che i clichè sono fatti anche da eccezioni, ma se esistono un motivo ci sarà. Qui, come al solito, si fa della chiacchiera e a questo giro anche un po’ di sociologia spicciola. Che vada bene o no.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata il mio vicino di casa. Questo tizio lo vedo di rado, non sembra uno che si ammazza di vita sociale. Quando l’ho conosciuto, alla giornata dedicata a rimettere a posto il giardino comune, abbiamo parlato un po’ e annoverò tra i suoi maggiori interessi la musica metal, i libri fantasy e i computer, infatti lavora in un azienda qui vicino come ingegnere informatico. Insomma, un dark-nerd senza speranza di remissione. L’anno dopo, sempre a pulire il giardino, è arrivato accompagnato dalla mamma, come l’ultimo degli scolaretti (tra l’altro una mamma un po’ ficcanaso e con la tendenza a mettersi in mezzo e ogni riferimento a mamme italiane è puramente casuale). Se avevo capito bene, la mamma si era anche stabilita in modo non permanente a casa del figlio, che una mano in casa fa sempre comodo.

Ai miei occhi lui era stato archiviato come caso perso. Fino a quando non vedo lui, la mamma e una ragazza ieri passeggiare verso casa. La ragazza e il mio vicino procedevano mano nella mano e lei era una sorridente ragazza dai tratti asiatici, non so dire se fosse Cina, Giappone o Corea del Sud, ma da quelle parti. La mamma, ovviamente reggeva moccoli alla coppietta che nemmeno un candelabro a dieci bracci.

Questo episodio mi ha fatto venire in mente una serie di conversazioni che ho avuto di recente con il mio amico stalker, che è tornato da un viaggio in Giappone. Il mio amico non è esattamente un esperto di cos’è l’amore e la vita di coppia, suppongo che per il suo retaggio culturale non sia andato in giro a “fare cose e  vedere gente” ma stia aspettando, fermo nella sua certezza che un giorno arriverà, quella Giusta già fasciata in un abito nuziale e tagliamo la testa al toro. Tuttavia, quando l’amico è tornato dal suo viaggio nell’estremo Oriente era totalmente affascinato da come le ragazze laggiù fossero così “caring“. Per rendere cosa intendesse con questo aggettivo, che ripeteva in modo ossessivo e con occhi sognanti, sembra che lui abbia visto soddisfatti tutti i suoi desideri (nella sfera del lecito!) senza nemmeno esaudirli e queste ragazze facevano tutto questo paradiso in terra con un sorriso in faccia e gentilezza a carrettate.

Così, quando il poveretto è tornato in Svezia e si è ritrovato in mezzo al mondo del fai-da-te-che-fai-per-tre, dove nessuna ragazza al mondo ti degna di uno sguardo e tanto meno si sogna di farti un sorriso, ha subito uno shock culturale al contrario. Ha iniziato a lodare il Giappone e a sputare sull’equità Svedese in cui a volte non si capisce bene chi sia l’uomo e chi la donna. Perchè, siamo chiari, il mio amico (uomo) ha avuto parola d’oro per ste Giapponesi che lo incensavano ma non ha potuto dire lo stesso dei ragazzi, che invece erano un po’introversi e non così caring, mannaggia a loro.

La ragione del suo viaggio in Giappone non era fare esperienza della gentilezza nipponica, ma accompagnare un suo amico in un viaggio in cui avrebbe rivisto la sua fidanzata, Giapponese ovviamente, incontrata qui in Svezia e ora ritornata al paese d’origine. Non entrerò in dettaglio di ciò che sono venuta a sapere sulla relazione ma il mio amico ha riportato quanto lei fosse prodiga in offrirsi per massaggiare mani e piedi quando il suo lui era stanco, senza volere mai niente indietro. Il suo ragazzo, Svedese, accettava questi servigi ma alla lunga è venuto a domandarsi se fosse lecito o meno e soprattutto se non fosse il caso di ricambiare il favore.

Potrei andare avanti per pagine a citare esempi di ragazze che ho conosciuto qui in Svezia che facevano l’impossibile e il più che impossibile per far contento lo stronzo di turno, che magari se ne approfittava e prendeva il benefit senza dare niente in cambio, ne un gesto fisco e nemmeno un sentimento.

Innumerevoli volte mi è capitato di sentire altre persone tessere le lodi di queste paladine del faccio tutto io (mentre io mi sono dovuta sbattere per far capire ad ex morosi che i piatti non si lavavano da soli) anche da insospettabili uomini tutti d’un pezzo di legno massello made in IKEA.

Il mio dubbio a questo punto, è che magari a ‘sti Svedesi uomini gli abbiamo stracciato le palle con il femminismo, l’uguaglianza dei sessi (jämställdhet), con l’obbligo di dividere i giorni liberi per la gravidanza tra la madre e il padre, facendogli accollare di fatto le cure del bambino e non delegando il cambio del pannolino alla vaginomunita di turno. Che sia per questo che si invaghiscono di occhi esotici che gli massaggiano i piedi e che hanno sempre tutto dove deve essere, pronte a scattare per il più insulso desiderio di questi uomini che si sentono proprietari del proprio fallo solo se c’è qualcuno che si riduce a qualcosa che vale meno di loro?

Questi non sono uomini ma maccheroni.

Amica G.

Nella vita, le amiche femmine io le posso contare sulle dita di una mano, forse due.

Fin da quando ero un’adolescente ho sempre preferito la compagnia dei ragazzi, un po’ perchè era facile ricevere le loro attenzioni e un po’ anche perchè i ragazzi sono meglio. Credo di non scoprire niente che vi farà cadere dalle sedie se dico che i ragazzi sono in generale abbastanza semplici da capire, del tipo che ad azione corrisponde reazione, seguono i principi di fisica classica: tu mi piaci, ergo ci provo; tu non mi piaci, ergo io ti parlo delle mie storie; tu sei stata stronza con me, ergo fottiti.

Le ragazze invece sono un campo in cui al CERN ancora ci stanno sbattendo la testa. Fisica quantistica allo stato puro.

Intanto, la descrizione dello stato delle cose dipende dal sistema di riferimento. Perchè, cioè, Lara mi ha detto che Lisa ci ha provato con Luca davanti a lei. Però Lisa, davvero, dice che Luca ci ha provato con lei e Lara era dietro e ha visto tutto. Un bordello, gente. Mille variabili, eccezioni e spesso è troppo cervellotico per apprezzarne davvero l’insieme per cui ci si accontenta di carpire l’essenza di un momento, certi che il futuro sarà volubile.

Come faccio a saperlo? Bè, innegabilmente io sono una di loro e proprio per questo mi rendo conto dei limiti di questo sistema e che per avere una cognizione delle cose ed essere felici è meglio rimanere sulla fisica classica, per quanto limitata possa essere.

(Non so se essere contenta per questa introduzione o se dovermene vergognare da quanta secchionità trasuda)

Nonostante le mie teorie pseudo-scientifiche, anch’io ho qualche amica donna e la sorte ha voluto che per tre di loro il nome fosse lo stesso. G.

In ordine cronologico, la prima G. non ha fatto un esordio grandioso nella mia esistenza. Andavamo al corso di danza insieme e per chissà quale ragione lei e un’altra ragazza mi avevano preso di mira per i loro scherzi. Intendiamoci, niente che mi abbia ferito nel profondo ma quando si ha una decina d’anni e poca dimestichezza con il mondo reale (immaginatemi come la bambina de “La casa nella prateria”), allora non si hanno tutti gli strumenti per fronteggiare gente simile. Dopo qualche anno, per merito dell’altra G., io e questa G. siamo diventate amiche. Nonostante le tante notti passate a dormire in quattro in un letto a casa sua e le estati e le vacanze passate insieme, io e la G. siamo sempre rimaste amiche ma non Amiche. Con lei era difficile confidarsi, forse perchè la sua aria matura da sempre metteva un po’ di soggezione e i miei “problemi” sembrava che l’annoiassero.

Lei è la figlia del dottore e per chiunque venga da un paese piccolo va da sè che la figlia del dottore è di un’altra categoria. Fu così che appena dopo i venti le nostre strade si divisero, ci si vide sempre meno fino a che un giorno non ci si salutammo nemmeno più. La puzza sotto al naso (rifatto!) deve avere contagiato anche lei e adesso le poche volte che torno a casa la vedo seduta al bar con i suoi e il cane. G. ha avuto pochissimi morosi, almeno che io e l’altra G. sapessimo, e mi sono sempre chiesta perchè non faceva l’adolescente come tutte noi. Di recente l’ho vista in foto su Facebook con il bello del paese vicino, agognato oggetto del contendere di tutte le squinzie di paese dieci anni fa. Lui è sempre carino, ha la piazza in testa ma poco importa. Sembrano felici e io sono forse non contenta per loro, ma almeno sollevata, come quando vedi la fine di un film di cui poco ti importa e ti accerti che tutti vissero felici e contenti.

L’altra G. è arrivata dopo a quella qui sopra ma lei è rimasta. La G. è una di quelle che da sempre si è infilata in ogni psico-dramma possibile e immaginabile. Lei era ed è molto bella e per questo si è sempre guadagnata tante attenzioni dai ragazzi. Quando ancora minorenne, gli appena maggiorenni le correvano dietro e lei si lasciava trascinare in queste storie fatte di macchine (quando io ero in piena fase motorini, ma a volte neanche quelli!), fatte di scomparse misteriose, fatte di dettagli che elargiva a larghe mani chiedendoci consiglio su che fare. Consiglio su cose che noi non avevamo nemmeno idea che esistessero. Lei è stata un po’ il mio Bignami al sesso e per questo la ringrazio.

La G. chiedeva sempre consigli perchè lei era ed è molto insicura. Si è sempre fatta mille paranoie sul suo fisico e su come le altre persone la percepissero. Non stupì che si mise assieme a un ragazzo, che noi chiamammo “il re dei bellissimi”, ma che bello non era e che invece era così sicuro di sè al punto da tirare al lotto e riuscire a mettersi con la G.. Questo fidanzato durò per quattro o cinque anni, in cui io e la G. non ci vedemmo tanto perchè lui era uno un po’ snob, non piaceva ai miei amici (maschi) e perchè lui non era bene per lei. Il suo essere più forte di lei la rendeva succube delle sue pressioni che la trasformarono nel fisico e nell’aspetto, diventando un’altra G., non quella che mi chiedeva numi sulla pugnetta, ma che era anche lei diventata parte di quella cerchia ristretta di gente che fa le vacanze a Forte e che va a sciare a Cortina a Natale. In quel periodo, nelle rare volte che ci vedemmo lei riuscì a combinarmi con un amico del suo ragazzo che mi rivelò che anche lui non lo sopportava e forse per quel sentimento comune diventò il mio ragazzo per qualche tempo.

La G. poi mollò il suo ragazzo. Ci vedemmo dopo tanto tempo e ci eravamo date appuntamento al bar del paese. Saremo state sedute lì a parlare per mille ore. Io pensavo di andare a incontrarla e raccattare i cocci di quella G. costruita e invece me la ritrovo a raccontarmi di essere andata a mangiare l’anguria con uno che votava Rifondazione Comunista e che nel frattempo andava a letto con un altro ragazzo e come se non bastasse si mise a consolare me, per le mie disgrazie amorose. La mia vecchia G. non sarebbe mai più tornata. Lei è sempre stata confusa e un po’ svanita ma le voglio bene proprio per questo. Le voglio bene perchè lei riesce a parlare di vestiti di Zara e di politica interna con lo stesso tono e la stessa convinzione. Adesso la G. fa coppia fissa con uno alla soglia dei quaranta con cui ha pochi interessi in comune ma per qualche misteriosa ragione ci sta bene insieme e per me è a posto così.

Da qualche mese ne ho incontrata un’altra di G., quassù tra i ghiacci. Con la nuova G. è stata un po’ una “bromance“, ci siamo incontrate e ad entrambe serviva un’amica, per cui ci siamo scelte a vicenda. Da quando G. è in giro ho una valvola di sfogo per tutte le mie frustrazioni affettive, lei ascolta e mi dà consigli. Io faccio lo stesso con lei. La G. si vede che è un po’ in crisi perchè vorrebbe una vita da cartolina, con un marito, dei figli, una casetta, ma non riesce a trovare quello giusto. Lei si guarda attorno, anche troppo, ma niente. Anche lei, come tutte le G. di cui sopra è bella ma questo non sembra aiutarla, anzi, anche lei si fa mille complessi per il suo fisico e non riesce a togliere di dosso gli occhi alle Svedesi, dicendo che sono perfette. Io che forse vedo la vita a tinte un po’ più rosa, concordo sul fatto che siano belle, ma a parer mio sono come i cinesi: alla fine del giorno ne hai incontrata una che assomiglia a tutte le altre e che domani non saprai più distinguere in mezzo a tutte queste bambole. Invece, la mora spicca tra la folla ed è l’eccezione.

(Ecco, questa teoria sta in piedissimo sulla carta. In realtà ci sono mille eccezioni (fisica quantistica?) ma per il momento passatemela così)

La G. è quella che mi ha fatto notare che Lonely Boy forse è gay e lei dice che Legit ci sta provando con me nel modo di provarci Svedese ma dice anche che non sembra uno che ha voglia di rimanere a fare colazione, per cui io devo fare i miei conti prima di buttarmi. Io e lei non sappiamo metterci il rossetto e ogni volta che usciamo ci complimentiamo l’un l’altra per i progressi fatti nell’applicazione di questo maledettissimo stick. Io non so come andrà a finire con questa G., intendo se tra dieci anni io vorrò scrivere un pezzo su un blog per lei o se tra sei mesi non mi ricorderò più nemmeno che faccia ha. Comunque per adesso siamo qui e ci siamo tutt’e due.

Del mettersi giù da gara

Quando ero ancora nelle terre mie, quelle del vino e salame, quando arrivavo tra i miei amici e mi si diceva che quella sera ero “messa giù da gara”, voleva dire che quei cinque minuti passati al trucco e guardaroba erano stati momenti produttivi.

Ingredienti fondamentali per guadagnarsi lo status da “giù da gara” non sono scarpette chiodate e calzoncini ma una miscela di intrigo ed esibizione. Ma più la seconda.

Sì, cari miei. Questo post sembra frivolo ma in verità non lo è. Non è che Agosto fa impennare il tasso di tette-e-culi anche su questo blog, con i vip in spiaggia, i tormentoni in radio e il colore dell’estate. Ammetto che qui si andrà a parlare di vestiti e di apparenza, ma in maniera del tutto funzionale al lavoro. Che qui Agosto è un po’ il vostro Settembre, siamo già con le gambe sotto alla scrivania (e la testa altrove) e la-vo-ra-re. Tac!

Nello specifico, tra tre settimane sarò a una conferenza in Germania, perchè apparentemente le mie conferenze sono solo in Cruccoland o in altri posti incredibilmente noiosi (L’anno scorso che era in Sicilia il mio capo non ha voluto che andassi per poi pentirsene!). Una conferenza nel mio campo è un evento con rapporto uomo donna più o meno 50-50, che rispetto al campo dell’IT è tutto grasso che cola, in cui si respira una certa aria nerd ma non troppo. A parte alcuni casi disperati ci sono anche persone dalle sembianze normali, che fa sempre piacere. L’età media è attorno ai 30-40, quindi io sono ancora nella parte bassa della media che mi dà lo svantaggio di essere potenzialmente la figlia di chiunque conti qualcosa in questo gruppo di persone ma al tempo stesso sono definibile come il nuovo che avanza o, più francamente, carne fresca.

L’ho detto davvero. Carne fresca. Perchè la legge della jungla è valida sempre e ovunque: un po’ di pilu non guasta mai. Il pilu tuttavia deve essere assolutamente funzionale a far interessare  un potenziale interlocutore al vostro lavoro scientifico, quindi la sua quantità ed esibizione deve essere sapientemente dosata.

Per fare un esempio, l’anno scorso ero a questa piccola conferenza e durante una pausa caffè mi sono trovata a parlare con due rappresentanti di una casa farmaceutica. Mentre si discuteva vedo che gli occhi di uno dei due svolazzavano di tanto in tanto al di sotto del mio mento. Poco dopo mi resi conto che la mia camicetta di tendenza, giallo senape con le rouge, tendeva con lo scollo a V molto in basso, lasciando la puntina della V a metà seno e dando spazio a qualcosa altro che non la sola immaginazione.

Quindi, memore di questo fallimento, il mio obbiettivo è di migliorare la tecnica nel far notare le mie qualità scientifiche attraverso altri generi di qualità.

L’acquisto incauto numero 1 è già stato effettuato e se non sapevate dell’esistenza di questo capo fantastico, bè sapevatelo da adesso: un paio di jeggins neri. Rispondono al nome di jeggins pantaloni a metà tra i leggins e i jeans, che se fossero gli anni 90 li chiameremmo jeans elasticizzati (e nel dubbio ci attaccheremo una staffa, che sai mai che poi ti vengono su per la caviglia) ma siamo nel 2012 e se non volete sembrare mia zia li chiamate jeggins. Da lungo tempo mi vanto di aver osteggiato la calata dei leggins con tutte le mie forze, specialmente quando spacciati per pantaloni, ma i jeggins sono diversi. Quando si acquista un paio di jeggins è meglio andare al negozio digiune, come per gli esami del sangue. Il jeggins, per sua definizione, deve essere stretto ma ciò nonostante una volta indossato permette di mangiare maialini sardi di traverso, che lui si adatta alla nuova bizzarra forma del corpo senza esitazione.   Che non è male, se si contano le torte e pasticcini che vengono propinati nelle mille pause caffè e che vengono spazzolati a ritmo costante per riempire gli imbarazzanti momenti di silenzio nella discussione con lo sfigato scienziato di turno.

Adesso viene la parte più difficile, perchè se il pezzo sotto è sistemato, devo trovare qualcosa da mettere sopra che è anche la parte più vicina al viso, ovvero dove immagino che il mio interlocutore stia guardando (il chè, come già dimostrato, non è sempre il caso). E se i pantaloni dicono “il corso di step sta dando i risultati sperati!”, il pezzo sopra dovrebbe dire “quando non sono a step, le mie passioni sono il cinema d’autore francese e l’ikebana” che è un bel discorsone da far fare a una camicetta.

Sabato sono andata alla ricerca di questo capetto dei desideri ma tutto quello che mi sono sentita dire dai capetti è stato “Glastonbury quest’anno era una sacco bello”, “uh, davvero ci voleva un reggiseno qua sotto?!” e “leggere la Bibbia: che divertimento!”, quindi immagino di dover continuare le ricerche.

E saranno ricerche lunghe e penose, perchè come se non bastasse, sono anche limitata nella scelta dei colori. In breve, alle conferenze se sei una schiappa come me vai e ti porti un poster in cui riassumi il tuo lavoro che verrà appeso per un’oretta durante una delle tante pause e tu dovrai fare il cane da guardia da parte al poster in attesa di un avventore, al fine di dare il via a intense chiacchierate scientifiche in cui tu avrai un’epifania che ti permetterà di salvare il mondo, debellare ogni malattia infettiva e vincere il premio Nobel.

Quindi, in questo mondo di scienziati semi-autistici che vagano per i poster bisogna andargli un po’ incontro ed è stato provato scientificamente che se ci si veste in tinta con il poster la mente malata del vostro pari scienziato sarà più facilmente portata a riconoscervi come l’autore di quel lavoro. E questa è l’unica cosa davvero seria di questo post e di cui voglio farvi partecipi, perchè d’ora in poi qualsiasi presentazione pubblica avrete dovrete andare in abbinato con il power-point o le trasparenze e fare i grafici a seconda di che cravatta/maglia/borsa indosserete quel giorno, ricordandovi ovviamente che i vostri vestiti dicono cose e voi volete che parlino bene di voi, o mentano, se necessario.

Mi raccomando, fate mercimonio del vostro corpo, responsabilmente.

Galline!

Non c’è niente da fare, anni e anni di evoluzione e noi ragazze siamo, in certi casi, ancora delle galline.

Le galline (come lo direbbe La Pina, giusto per rimanere in tema di riferimenti culturali bislacchi) sono quelle donne in una fascia d’età cosi detta da marito possibilmente nubili, anche se il gallinismo da ammogliate è un fenomeno ben noto ma che assume sintomi da rosicamento interno con ulcere sanguinanti e non. Il gallinismo nubile si manifesta invece come una esternazioni di sentimenti possessivi-compulsivi nei confronti di altre galline per la conquista di una maschio alfa, che sono riassunti sotto il termine tecnico di “molla l’osso, coccodè” (cit.).

In millenni di storia, generazioni e generazioni di galline si sono contese come se non ci fosse un domani tozzi di pane (aka, il maschio alfa. Ma anche quello beta e giù giù fino alla omega) non pensando nemmeno per un minuscolo istante che forse il problema non fosse l’altra gallina, ma il tozzo di pane. Ancora più preoccupante è che se questo fatto è, per un buon numero di galline, una riconosciuta verità, all’atto pratico preferiamo risvegliare il nostro spirito di galline e combattere per “ciò” che “è” “nostro”. E non ci saranno mai abbastanza virgolette per quantificare quante e quali assunzioni sbagliate ci siano in questa frase.

Queste profonde riflessioni sono scaturite da recenti avvenimenti durante Midsommar.

Per farvi capire cos’è Midsommar in cinque parole, pensate a un altro Natale ma con la stessa ansia da prestazione di Capodanno. L’idea è che ci si ritrovi, spesso in famiglia, si beva alcool etilico puro al sapore di fiorellini biachi, ci si metta fiori in testa e si balli salterellando come rane attorno a un palo tremendamente somigliante a un fallo, si mangi pesce viscido con patate al gusto di terra e fragole. Per ulteriori informazioni contattate IKEA. Io, in quanto provetta Svedese, armata di vestito a fiori e sotto una pioggia battente mi sono presentata a casa di Legit. Questo Legit, è una recente scoperta nonchè l’amico di un amico di un amico. Un interessante partito che, a dire di più, pare a sua volta interessato all’autrice di questo blog. Legit ci ha invitato a casa sua per Midsommar e in tutta la sua biondezza mi accoglie alla porta quando arrivo mentre altra gente è già ai fornelli. Una volta entrata realizzo che sono l’unica portatrice d’ovaie della festa e forte della mia femminilità indiscussa aiuto il battaglione di uomini ai fornelli.

Fino a quando non suonano alla porta.

Legit va ad aprire dicendo che questa deve essere la ragazza Svedese che lui ha invitato. Ancora prima di vederla, sento sotto pelle spuntare mille piumette, crestino in testa e becco giallo. Eccomi qua, gallina.

Era una ragazza simpatica, un po’ prolissa e non sempre con una battuta pronta. Carina ma non una modella Svedese. Insomma, c’erano ancora possibilità di prevalere in questo pollaio. La giornata scorre piacevolmente con un pranzo infinito di 6 ore, chè il pesce viscido sarà stato anche buono ma quando ho sguainato un salame trafugato direttamente dall’Italia, me lo hanno spazzolato via alla velocità della luce! Ovviamente un sacco d’acqua (fuori) e tanto alcool (dentro), per poi fare una lunga passeggiata nella campagna vicina e poi ancora a cena.

A fare un riassunto della lotta fra galline non saprei davvero descrivere come è andata. Io ho sicuramente segnato qualche punto, qualche bella giocata, e lei non lo so. Con questi standard di comportamento Svedesi va sempre a finire che quando tu pensi di giocare a calcio ti ritrovi a una partita di innebandy, e tu con quegli attrezzi e quelle regole non sai nemmeno da che parte iniziare! C’è stato sicuramente molto fair play. Magari c’è stato che anche che lei non ha colto che era arrivata dentro a un pollaio o magari a lei non aveva intenzione di iniziare questa guerra tra polle galline.

C’è da dire che in tutta questa storia, invece di prendermela con la povera ragazza Svedese avrei potuto chiedermi perchè costui invita due galline nel suo pollaio e dare la colpa a lui.

Ma in questi momenti tutto quello che riusciamo a sentire è una stridula voce dentro di noi e quella voce urla “Gallinaaaaaaaaaaaaaaaa“.

Ho trovato l’anima gemella: l’avevo lasciata sul tavolo, accanto alla frutta

Noi ‘ggiovani degli anni 2000 siamo, volenti o nolenti, molto global.

Siamo venuti su a kebab e sushi, abbiamo pashmine lavate nell’Indo e impazziamo per l’artigianato centro-africano. Ciò nonostante, per quanto mi riguarda, trovo ancora piuttosto difficile digerire certi aspetti di altre culture, come ad esempio i matrimoni combinati.

Ma facciamo un passo indietro. Ieri, quando durante la pausa caffè stavamo festeggiando due compleanni, di cui uno della sottoscritta, un mio collega salta su e dice: “Anch’io dovrei fare un annuncio, mentre ero in India al matrimonio di mia sorella, ho trovato la mia anima gemella e adesso sono fidanzato”.

Si sposano quest’autunno, nemmeno l’avesse messa incinta!

I più coraggiosi hanno chiesto se la conoscesse già e lui ha risposto che c’era già stato qualcosa ma poi si sono conosciuti al matrimonio e da lì è stata tutta discesa. Chè se devo fare la sospettosa e leggere tra le righe, il qualcosa prima è che l’aveva intravista per sbaglio e aveva controllato che esistesse davvero e che non avesse le sembianze di Ganesha.

E poi io mi chiedo, ma come fanno questi a fidarsi dei loro genitori nella scelta? Se io mi dovessi mettere in questo scenario, sono certa che mio padre mi accoppierebbe con quello che spilla le birre alla festa della Unità, che di sicuro l’è un bràv ragass, e mia madre mi vedrebbe bene con qualcuno, non importa chi, basta che sia uno equilibrato, di sani principi e con la testa a posto. Insomma, sarei fidanzata in un baleno con un ingegnere informatico, con la passione per la politica e i fumetti giapponesi, un principio di calvizie più che incipiente e un incipiente bacino, non troppo simpatico, uno di quelli che ripete le battute dei film di Ben Stiller e Mike Myers (e no, quei film non fanno ridere) perchè non in grado di uscire con dei colpi di genio suoi o perchè non ha la sicurezza necessaria per esporsi in prima persone e ripete cose fritte e rifritte, uno che ascolta la musica che passano a RDS e i Metallica, non perchè gli piacciono ma solo perchè è talmente pigro che non vuole far fatica a capire cosa gli piace e si appoggia a quello che il suo compagno di banco del liceo gli aveva detto che era figo (dieci anni fa!).

Oddio, solo a scrivere tutte ‘ste cose mi è già venuta addosso la tristezza!

E se a me già è venuta la tristezza solo a immaginare la mia selezionatissima anima gemella, non posso pensare a cosa vuol dire passarci per davvero tutta la vita insieme. Come marito e moglie, con tutti annessi e connessi. La noia della quotidianità, la spesa da fare, la casa da pulire, i panni da lavare, per non parlare di tutto quell’altro ménage famigliare. Che già fare l’amore con uno che proprio non ti sconvolge ci perde un po’ in intensità ma farlo con uno che magari ti dà sui nervi deve essere divertente come pulire le fughe delle piastrelle. Per poi fare dei figli, nugoli di figli, che dovrai ammogliare a loro volta per avere nugoli al quadrato di nipoti.

Per finire, mi chiedo quanto sia davvero felice lui di questa bella pensata del matrimonio combinato. Per lei non posso parlare, visto che non la conosco, ma mi auguro che ci sia qualche suo conoscente in India che si stia ponendo le stesse domande. Dicevo, che mi chiedo quanto questa cosa gli sia caduta tra capo e collo o quanto in realtà lui l’avesse desiderata questa pantomima dell’accasamento. Uno che fino a qualche mese fa mandava alla sua compagna di laboratorio messaggi come (riporto pari pari) “A superb msg conveying about lyf 🙂 we have two eyes and one tongue, which means we need to look twice and talk once.. we have two hears and one mouth, which means we need to listen more than we talk.. we have two hands and one stomach, which means we need to work twice as much as we eat..  we have two major brain parts, left and right and one heart, so we can think twice but love only once.. Amazing how our body parts reminds us how to live! 🙂“. Cioè, sono io l’unica che ci vede qualcosa di losco qua in mezzo? Non che la sua compagna di laboratorio ci abbia mai nemmeno pensato a buttarsi sul novello Promesso Sposo, ma a veder così sembrava che il ragazzo fosse anche dotato di moti spontanei verso l’altro sesso. Era uno che aveva voglia di farfalle nello stomaco e che, seppure con mezzi del tutto inadeguati, si buttava nella mischia mettendoci la faccia.

Invece gli hanno impacchettato una Barbie qualsiasi e gliela hanno fatta trovare sotto un ipotetico albero di Natale Indiano senza possibilità di rimandarla al negozio. Magari, lui aveva chiesto una Bratz o una Tania, che non era bella ma faceva tanta tenerezza!, e adesso si deve tenere la Barbie.

PS: magari c’è anche una punta di invidia perchè per quanto continui a ritenere che questi modi si confanno ad ere medievali, fa sempre un po’ invidia vedere che a qualcuno gli è girata in un modo tale che adesso il resto dei suoi giorni sono già segnati da una vita di coppia, che al di là di tutte le mie più catastrofiche previsioni, potrebbe essere non peggio di molte altre. Mentre noi altre siamo ancora qui, indecise se diventare mater familias, donne in carriera, astronauti o (molto più probabilmente) gattare!