Etichettato: fatti miei
A tutti serve una buona ragione per andare al lavoro
(Ho abbozzato diversi post davvero pesanti, della stessa densità dell’iridio, ma quello di cui ho voglia qui e ora è qualcosa di leggero e quindi eccoci qui a raccontare di questa ennesima stronzata)
Sono passate già tre settimane e due giorni da quando le mie vacanze sono finite, e mancano tre mesi esatti a Natale, giusto per dare l’idea di quanto non mi pesi questo ritorno al lavoro. Mille scadenze, di cui una, la più grande scadenza di tutte, è fissata moralmente per il prossimo Giugno, quindi sono qui a testa bassa a pedalare.
Ça va sans dire, che le scadenze (e occasionalmente un po’ di amore sfuso per il mio lavoro) sono quelle che mi mandano al lavoro tutte le mattine verso le otto e mezza. Però quest’anno al mio ritorno dalle vacanze ho trovato una piacevole sorpresa ad attendermi, che aveva la forma di nuovo PostDoc bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante.
Costui viene da un’università in cui ho contatti (e in cui dovrei aver transumato per un certo periodo l’anno scorso) e una sua ex-collega a Luglio mi aveva detto che un ragazzo sarebbe venuto a Settembre. Io ho preso l’informazione, l’ho scritta su un post-it che ho incollato nel lobo occipitale destro, poi sono andata in vacanza e il post-it deve essersi staccato ed è finito dietro a tutto l’adipe che ho immagazzinato a furia di panelle e arancini. Così il primo giorno di ritorno dalle vacanze, mentre stavo affogando tra le migliaia di revisioni del mio articolo, vengo prelevata da uno dei professori che mi vuole assolutamente presentare ad un nuovo PostDoc che è appena arrivato. E lì appena lo vedo ho un paio di secondi di vuoto totale in cui penso che questo lo devono aver mandato per sbaglio quelli del casting dei modelli di H&M, e poi ho avuto l’epifania. Nemmeno fosse uno dei membri dei One Direction e io una fan in preda ad un attacco isterico, gli punto il dito contro e esclamo “Ma io so chi sei! Sì, A. mi aveva detto che saresti venuto!”. Ottimo inizio, una roba sobria per non farsi riconoscere.
Qualche giorno dopo arriva il fine settimana e io che sono sempre stata una Wendy per tutti i bambini sperduti che approcciano queste lande, non mi tiro indietro davanti a un PostDoc, così lo incontro per i corridoi e gli chiedo se ha piani per il sabato e se mi vuole dare il suo numero di telefono. Ma ricordiamoci che il soggetto in questione è bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante, per cui mi sento in dovere di sottolineare le mie intenzioni puramente umanitarie di questa richiesta, farfugliando una frase sconnessa che conteneva le parole “colleagues”, “beer”, “saturday” e “normal”, non necessariamente in questo ordine. Un po’ stupito per il mio essere diretta o perchè mi voglio prendere cura del suo equilibrio psicologico facendogli incontrare altri bipedi dal pollice opponibile, accetta a darmi il numero, che ovviamente scrivo correttamente solo dopo mille tentativi perchè il suo accento inglese, diciamocelo, fa un po’ cagare, in netto contrasto con le sue doti fisiche, nel caso non lo avessi sottolineato già a sufficienza.
Iniziamo a uscire insieme con colleghi e con altri amici e inizio a scoprire cose di lui che farebbero venire degli svenimenti isterici a qualunque donna eterosessuale tra i 16 e i 65 anni, di cui vado a fare un dettagliato elenco:
- fa triathlon, corre maratone e ha un passato da ciclista
- parla quattro lingue e vuole imparare pure lo svedese
- è un chimico (che a mio dire è ragione necessaria e sufficiente per almeno uno svenimento)
- preferisce i cinema piccoli ai multisala
- gli piace Londra
Diciamo che quando ho pensato di fare questo elenco mi ero immaginata di venire fuori con una lista della spesa che non finiva più (e gli ultimi tre punti sono trascurabili per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale) e invece questa défaillance mi conferma la conclusione a cui ero più o meno giunta qualche giorno fa, non appena sono riuscita a superare le caldane e i risolini isterici quando ci incrociamo in corridoio. E la conclusione è che sarà anche bello bellissimo in maniera quasi imbarazzante ma dopo di quello, bah…
Va bene, non è da tutti sapere parlare quattro lingue e correre a destra e a manca più veloci della luce ma qui non stiamo compilando un questionario delle proprie abilità e quello che marca più crocette (check!) vince. Qui stiamo parlando di budella in subbuglio e per quanto mi riguarda il mio intestino sta vivendo in tutta tranquillità la sua vita (di merda).
Queste sono le (amare) conclusioni che traggo dopo questi mesi un po’ così e una recente sovraesposizione a film pseudo-realistico-romantici in cui con un occhio si guarda alla perfezione dell’amore in 16:9 e dall’altra ci sono degli sprazzi di cinismo quotidiano che io facevo sì sì con la testolina e mettevo una firma sotto quelle parole. Tipo quando dicevano che da giovani (sic!) siamo portati a pensare che è facile trovare persone con cui connettere e invece con il tempo ci si rende conto quelle persone capitano raramente nella vita e alla fine mandiamo all’aria quelle occasioni e ci riduciamo a “connetterci malamente”. E per quanto mi riguarda non è nemmeno detto che le connessioni di cui si parla qui sopra siano delle connessioni realmente esplorate, ma piuttosto intendo connessione che sono rimaste in potenza, sospese, racchiuse in uno spazio di tempo limitato e, soprattutto, passato.
E quindi va così. Il PostDoc rimane dov’è, senza che io nemmeno mi improvvisi una panterona da laboratorio (salvo imprevedibili rivelazioni semi-personali del sopramenzionato soggetto che mi rivoltino come un calzino e facciano sbarbattare il mio cuore come una carpa spiggiata sulle rive del Po).
Però almeno ogni giorno, quando vado al lavoro, c’è lì qualcuno che mi saluta ed è bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante. Che insomma, buttalo via!
Si va
Il fatidico fine settimana è passato. In realtà è passato da quasi otto giorni, sono io che ho impiegato un tempo incredibile a rifarmi viva qui su questo spazio.
Il fatto è che mi ci è voluto un po’ di tempo per riprendermi dalle ore di sonno perdute e rielaborare quello che è successo e poi, forse, scriverne qui. Non mi dilungo in dettagli, non mi va. Un po’ per pudore (sì, uno scrive un blog personale e poi dice che ha del pudore!) e un po’ perchè rifuggo le cose smielate come fossero il male assoluto e io sono certa che scriverei cose che farebbero venire un picco glicemico che insulina in vena per tutti!
Il fine settimana è stato un buon fine settimana. Più che buono è stato normale, come se non ci fosse niente di più ovvio al mondo che io e lui fossimo insieme, come se lo avessimo sempre fatto. Dall’alto della mia poca esperienza, credo che non sempre sia facile andare in sincronia con qualcuno, soprattutto se si dividono spazi piccoli e tempi lunghi. Ok, abbiamo avuto qualche problema con il sonno, io ho dormito poco, ma mi succede sempre quando sono contenta. Come quando mia mamma mi veniva a svegliare la mattina in cui si partiva per le vacanze, sempre con la stessa frase “Frou… SI VA!” e io ero già in agitazione sotto le coperte da prima che lei varcasse la porta.
L’ho guardato dormire per ore, aspettando che aprisse gli occhi e mi dicesse anche lui “si va!”.
Ok, si va. Ma dove?
Si va a casa, dopo i pochi giorni inseme, con un’alzataccia alle prime luci dell’alba (Svedese). Dopo averlo salutato, male e di fretta perchè il tempo era poco, e un po’ di tristezza mi è salita sulle spalle.
Si va di nuovo? Si va, si va… O almeno si andrebbe. Cioè, io andrei, tu?
Il problema dei giorni normali che abbiamo passato insieme è che tutto era così quotidiano che non ho nemmeno voluto azzardare un discorso sui massimi sistemi di quella che potremmo definire una relazione, intendendo come tale la coesistenza di due persone in uno spazio-tempo definito, non necessariamente lo stesso spazio, lo stesso tempo si spera. Dopo un centinaio di ore insieme non si può chiedere, allora tu come la vedi? Te la senti? Certe cose non si possono chiedere, o meglio non si dovrebbero chiedere.
Qualche volta bisogna crederci, avere fede. E gli scienziati per crederci hanno bisogno di segni tangibili, mica di madonne che piangono e ologrammi avvistati alle pendici di un monte. Ci sono segni piccoli ma che si vedono ogni giorno e che fanno sperare in bene. O meglio, fanno sperare in normale. Poi ci sono i momenti di paranoia, in cui anche tutti i piccoli segni raccimolati nel corso della giornata non bastano e credo che da un momento all’altro tutto il castello di carte costruito fino ad ora, così come è stato eretto nel corso di una serata, possa crollare, senza preavviso, come se ne è venuto. Sono momenti in cui la fede viene a mancare, dicono che sia normale quelli che sono abituati a questo genere di cose.
Ma io, per ora, ci credo.
L’importante è partecipare
Come se fosse necessario un ennesimo commento a questa tornata elettorale. Come se a qualcuno gliene importasse qualcosa, io lo voglio raccontare.
Nel caso non si fosse capito, io abito in Svezia e non mi sono voluta iscrivere all’AIRE, per cui mi prendo le mie responsabilità e muovo il culo, prenotando con mesi di anticipo il volo, spendendo poco con una compagnia low-cost. No, non quella Irlandese, l’altra.
Esco da lavoro verso le tre per non perdere il volo, mi precipito in aeroporto e dopo che il personale di terra ci ha stipato oltre i cancelletti dell’imbarco, come un branco di lama, aspettiamo che si aprano le porte. All’improvviso un annuncio “Ops, si sono rotti i freni”. Niente paura, solo sette ore dopo arriverà un altro aereo per portarci a destinazione.
L’aereo decolla nel cuore della notte ma dopo poco sono svegliata da un odore acido. Il ragazzo seduto dietro di me aveva deciso di ammazzare l’attesa in aeroporto bevendosi una caraffa di birra (cioè, un sudoku, no?) e si è messo a vomitare a spruzzo. Lo trascinano in bagno, ma nel frattempo due dei suoi amici vomitano pure loro per simpatia. E su un aereo non è che puoi aprire un finestrino, ecco. Arrivo alle cinque di mattina a casa disgustata e stremata, ringraziando quelle anime pie dei miei genitori che mi sono venuti a prendere all’aeroporto ad un orario improponibile, in un revival dei vecchi tempi in cui andavamo a ballare e poi c’era il genitore sfigato di turno che ti veniva a prendere alle 3 e un quarto.
Il giorno dopo, con troppe poche ore di sonno sulle spalle, arriva Narnia. Venti centimetri di neve si sono ammonticchiati nel giro di qualche ora, le strade erano impraticabili perchè alla provincia hanno tirato la cinghia sui mezzi antineve e io ero bloccata a casa e non ho potuto incontrare i miei amici.
Domenica sono andata a votare, prima del primo rilevamento a mezzogiorno, come al solito, nel turno con gli anziani coi problemi di insonnia, dei contadinotti che scendono in paese per il mercato e delle beghine che vanno a messa. So che è il turno degli sfigati ma le tradizioni sono tradizioni e lo faccio per dare un vago valore statistico a questi rilevamenti del Quirinale.
Lunedì mio padre mi dà un passaggio in aeroporto. Abbiamo chiacchierato tanto, una di quelle chiacchiere intense come la giornata che sarebbe arrivata da lì a poco. Abbiamo parlato di lavoro, di futuro e di politica. Lui era ottimista, credeva che si sarebbero smacchiati leopardi, giaguari e tutte le fantasie animalier. L’ho abbracciato forte e l’ho salutato con un sorriso in faccia, credendoci anche.
L’imbarco per l’aereo del ritorno era alle 3, in concomitanza con l’uscita delgi exit-poll, maledetta a me e a quando prenoto gli aerei senza controllare questi dettagli. Non ho internet e gironzolo nervosa in prossimità degli schermi sperando che il finto telegiornale filo-mediaset di Malpensa trasmetta qualcosa che non sia un oroscopo o i risultati di Serie A. Arriva l’ultima chiamata e degli exit-poll neanche l’ombra.
Appena sbarco accendo il telefono. Mi connetto e mentre cammino spedita per il lungo corridoio cerco di caricare la pagina di Repubblica. Sono le cinque e mezza: Bersani è al 37%, Berlusconi al 29%, Grillo sotto il 20. Sussurro “Sì!” e mi avvio spedita verso la stazione dei treni, perdo la connessione wireless che ritroverò solo dopo una mezz’ora.
Quando ho nuovamente accesso a internet e posso ricontrollare i risultati su Repubblica penso ad uno scherzo. Bè, non c’è bisogno di raccontare quello che è successo. Lo sappiamo tutti, lo sanno pure gli Svedesi, quindi conto sul fatto che i risultati elettorali siano di dominio pubblico.
Ho controllato la pagina mille volte: in treno, alla fermata dell’autobus, sull’autobus, ma niente: i risultati si ostinavano a non cambiare. Anzi, se possibile peggioravano! Piango la prima volta sulla via di casa, mentre trascino la valigia. Chi mi ha incrociato deve aver pensato a tutto il peggio del mondo ma di sicuro non che stavo piangendo perchè i miei connazionali sono un branco di pecoroni ignoranti.
Appena arrivo a casa chiamo a casa per un commento a caldo. C’è solo mia madre. Nemmeno un minuto e sono ancora in lacrime. Questa volta piango semplicemente perchè ho ammesso ad alta voce che le elezioni erano andate di merda. Me la prendo quasi con lei, taglio corto e dico che non voglio parlare. Inizio a disfare la mia misera valigia del fine settimana elettorale, cerco di mendare giù qualcosa anche se la fame proprio non c’è.
Visto che mi sono ricomposta decido di chiamare a casa di nuovo a casa per rassicurarli. Stavolta c’è anche mio padre e anche lui come me è visibilmente incazzato, ma cerca lo stesso di rassicurarmi. Dice che comunque le cose si metteranno a posto, in qualche modo, che non mi devo preoccupare, che io sono fortunata perchè sono all’estero e che loro, anche nella peggiore delle ipotesi se la caveranno. Io nel frattempo mi sono messa a piangere di nuovo. Questa volta piango per tutte quelle brave persone come i miei genitori che si ritrovano in questo cul de sac, il risultato di anni di lobotomie di massa, nasi turati, memorie corte.
La serata passa ascoltando La7 e ricevendo messaggi su facebook e skype da tanti amici, anche loro sbigottiti da quanto successo.
In ultimo mi ha chiamato pure lui, quello del tuffo, se ne parlò sul blog l’ultima volta anche qualche tempo fa. Anche con lui è andata in scena la solita tribuna politica, le lamentele, le domande che rimarranno senza risposta (ma se noi non l’abbiamo votato chi l’ha fatto? dici che dobbiamo tornare in Italia a votare un’altra volta?).
Poi abbiamo cambiato discorso. Come a dimenticarci di quello che era successo. Abbiamo parlato di vacanze, di tende, di estati, di primavere, di fine settimana, di aerei. Ho riso finalmente, perchè lui mi fa ridere sempre. Non sono sicura che quei piani prenderanno davvero vita, se l’ho capito almeno un po’ non dovrei sperarci troppo. Almeno per un’ora quella sera non ho pensato a tutti questi brutti pensieri che la mia nazione mi dispensa a larghe mani ogni volta che i suoi cittadini sono chiamati a eleggere democraticamente chi deve rappresentarli.
Giannino voleva Fare per fermare il declino.
Io sono dell’idea di Flirtare per fermare il declino.
Le tazzatorte
Sottotitolo: Volevo fare la food blogger, liberamente ispirato a questo post che merita.
Nonostante le mie origini, io in cucina non sono mai stata un fulmine.
Quello che mi spaventa e mi blocca non è tanto il cucinare ma lavare i piatti. Se avessi una lavastoviglie sono certa che cucinerei di più, o semplicemente troverei un’altra scusa per non cucinare.
Dopo aver dato questo pietoso saggio della mia pigrizia passiamo alla ciccia. Giovedì mi tocca preparare la fika per il mio gruppo di lavoro, che detta così avrò fatto cadere dalla sedia chiunque abbia letto questa frase. In Svedese dicesi fika l’atto di bere una tazza di caffè accompagnato da un piccolo companatico, generalmente dolce ma sti vichinghi buttano giù di tutto, specialmente dei simil spalmabili riomare che mi viene il voltastomaco solo a vedere il tubetto. Per voltastomaci cliccare qui.
(Avevo scritto un paio di paragrafi con battute scontatissime sull’argomento fika con doppio senso becero che ho cancellato. Ciò nonostante vi invito a fare i più bassi giochi di parole tra voi e voi. Mi raccomando, zero vergogna.)
Dicevo, che sono responsabile per la preparazione del companatico per la pausa caffè, la prima pausa caffè della stagione autunno inverno e, ovviamente, la prima pausa caffè dove c’è un responsabile per la preparazione del companatico. Che culo, insomma.
La lieta novella è stata annunciata da una mail una settimana fa o giù di lì e il mittente era questo figuro qui. In tutta la sua sfacciataggine ha aggiunto: “E’ altamente apprezzato che la fika sia fatta in casa.”, come se io, donna moderna del 21° secolo, non ho altro a cui pensare che a sfornare dolci e prelibatezze.
Da qui è nata la vendetta, tremenda vendetta.
In quanto prima della lista ho l’onore e la fortuna di stabilire lo standard per il companatico, infatti non essendoci precedenti qualunque cosa porterò, sarà ben accetta. Qualunque. Quindi, per far capire a quest’uomo che prima di scrivere le cose dovrebbe pensare due volte e poi stare zitto ho deciso che farò un dolce che potrebbe essere stato rubato a dei bambini dell’asilo, giusto per allinearmi alla sua età mentale. Mi sono rimboccata le maniche e ho cercato e cercato e cercato e cercato e finalmente ho deciso che preparerò delle tazzatorte. Le tazzatorte (forma plurale di tazzatorta) sono cupcake incartate in un pirottino rosa baby o azzurro fiocco da remigino, ricoperte da glassa e palline di zucchero colorato.
Il fine ultimo è di fare qualcosa che il gruppo possa gustare (si spera!) e che il cerebroleso possa vedere come una diretta sfida alla sua integrità di Uomo, uno di quelli che non deve chiedere mai e che per questo non vorrebbe involontariamente ritrovarsi a mangiare qualcosa che si addice a una baby shower o al primo compleanno di mia nipote. So che il messaggio che voglio lanciare è arrotolato in una bottiglia fatta di vetro scuro, tappata che naviga al largo dell’oceano, ma tentare non nuoce. Difatti, è notorio che la vendetta è un piatto che va servito con gli zuccherini colorati.
Domani è il gran giorno della preparazione di questa stupendezza, state sintonizzati che se alla fine di domani sera ho ancora un paio di neuroni accesi potrei condividere una foto con twitter (che poi sto twitter io ancora non lo sto capendo, ma appena mi sono raccapezzata ve lo dico come funziona, eh!). Il più grande ostacolo tra me e le tazzatorte in questo momento si chiama Stäm. Si sappia che qui avere una bilancia da cucina in casa è un po’ come bestemmiare in chiesa, perchè lo Svedese medio non ha bisogno di sapere quanti grammi di quello o di questo ci vogliono. Loro vanno a coppette. Una coppetta grande di farina, due coppette medie di zucchero, tanto amore ed eccoci pronti. Ho trovato un sito che trasforma le coppette in grammi, per cui dovrei essere coperta ma solo domani lo sapremo.
Un altro ostacolo, sul quale spero di soprassedere, è che non ho lo stampo da forno dei muffin ma spero e confido nel fatto che i pirottini, tanto più se in colori improponibili, tengano.
Ricapitoliamo: domani, tazzatorte; giovedì, vendetta/corsa al supermercato a comprare una torta; venerdì, ritorno a casa base; sabato, un cazzo; da domenica fino a giovedì prossimo, Cruccoland per lavoro. Chè non vorrei che si dicesse in giro che sono andata in vacanza. Io sarò in un posto orrendo a lavorare e a fare mercimonio del mio corpo. Quando torno ragguaglierò sul tutto, fino ad allora vi auguro una dolce settimana.
Ricetta per 24 tazzatorte
(Ventiquattro?! 24?! Te sei Paz-za!)
240 grammi di burro (olè)
240 grammi di farina
2 cucchiaini di lievito chimico (suppongo sia bicarbonato o almeno io quello ho)
1 limone
sale q.b.
4 uova
una bustina di vanillinavanillina non pervenuta nel mio supermercato, per cui ci mettiamo un po’ di zucchero vanigliato
240 grammi di zucchero (di cui un tot è lo zucchero vanigliato di cui sopra)
Per la guarnizione:
zucchero a velo (che qui sarà lo zucchero vanigliato perchè gli svedesi se lo sbriciolano ci butano anche un po’ di vaniglia, se no non ne vale la pena), acqua calda e (ovviamente) palline di zucchero technicolor.
Preparazione
Unire zucchero e burro e sbattere con la frusta elettrica, quindi aggiungere le uova e continuare a darci di frusta.
Per ultimo, aggiungere la farina e il lievito setacciati e mescolare con un cucchiaio di legno (potere di Kali, vieni a me!). Distribuite l’impasto nei pirottini, posizionati nello stampo per muffin (ho come l’impressione che sto fatto che mi manca lo stampo mi fregherà). I pirottini devono essere riempiti per metà.
Infornare per 20 minuti a 180 gradi.
Preparare la glassa mescolando lo zucchero a velo con l’acqua calda q.b. Spargere sulle tazzatorte e incastonarci sopra le palline di zucchero.
Et voilà!
(Immaginare una foto bellissima di tazzatorte qui.)
Galline!
Non c’è niente da fare, anni e anni di evoluzione e noi ragazze siamo, in certi casi, ancora delle galline.
Le galline (come lo direbbe La Pina, giusto per rimanere in tema di riferimenti culturali bislacchi) sono quelle donne in una fascia d’età cosi detta da marito possibilmente nubili, anche se il gallinismo da ammogliate è un fenomeno ben noto ma che assume sintomi da rosicamento interno con ulcere sanguinanti e non. Il gallinismo nubile si manifesta invece come una esternazioni di sentimenti possessivi-compulsivi nei confronti di altre galline per la conquista di una maschio alfa, che sono riassunti sotto il termine tecnico di “molla l’osso, coccodè” (cit.).
In millenni di storia, generazioni e generazioni di galline si sono contese come se non ci fosse un domani tozzi di pane (aka, il maschio alfa. Ma anche quello beta e giù giù fino alla omega) non pensando nemmeno per un minuscolo istante che forse il problema non fosse l’altra gallina, ma il tozzo di pane. Ancora più preoccupante è che se questo fatto è, per un buon numero di galline, una riconosciuta verità, all’atto pratico preferiamo risvegliare il nostro spirito di galline e combattere per “ciò” che “è” “nostro”. E non ci saranno mai abbastanza virgolette per quantificare quante e quali assunzioni sbagliate ci siano in questa frase.
Queste profonde riflessioni sono scaturite da recenti avvenimenti durante Midsommar.
Per farvi capire cos’è Midsommar in cinque parole, pensate a un altro Natale ma con la stessa ansia da prestazione di Capodanno. L’idea è che ci si ritrovi, spesso in famiglia, si beva alcool etilico puro al sapore di fiorellini biachi, ci si metta fiori in testa e si balli salterellando come rane attorno a un palo tremendamente somigliante a un fallo, si mangi pesce viscido con patate al gusto di terra e fragole. Per ulteriori informazioni contattate IKEA. Io, in quanto provetta Svedese, armata di vestito a fiori e sotto una pioggia battente mi sono presentata a casa di Legit. Questo Legit, è una recente scoperta nonchè l’amico di un amico di un amico. Un interessante partito che, a dire di più, pare a sua volta interessato all’autrice di questo blog. Legit ci ha invitato a casa sua per Midsommar e in tutta la sua biondezza mi accoglie alla porta quando arrivo mentre altra gente è già ai fornelli. Una volta entrata realizzo che sono l’unica portatrice d’ovaie della festa e forte della mia femminilità indiscussa aiuto il battaglione di uomini ai fornelli.
Fino a quando non suonano alla porta.
Legit va ad aprire dicendo che questa deve essere la ragazza Svedese che lui ha invitato. Ancora prima di vederla, sento sotto pelle spuntare mille piumette, crestino in testa e becco giallo. Eccomi qua, gallina.
Era una ragazza simpatica, un po’ prolissa e non sempre con una battuta pronta. Carina ma non una modella Svedese. Insomma, c’erano ancora possibilità di prevalere in questo pollaio. La giornata scorre piacevolmente con un pranzo infinito di 6 ore, chè il pesce viscido sarà stato anche buono ma quando ho sguainato un salame trafugato direttamente dall’Italia, me lo hanno spazzolato via alla velocità della luce! Ovviamente un sacco d’acqua (fuori) e tanto alcool (dentro), per poi fare una lunga passeggiata nella campagna vicina e poi ancora a cena.
A fare un riassunto della lotta fra galline non saprei davvero descrivere come è andata. Io ho sicuramente segnato qualche punto, qualche bella giocata, e lei non lo so. Con questi standard di comportamento Svedesi va sempre a finire che quando tu pensi di giocare a calcio ti ritrovi a una partita di innebandy, e tu con quegli attrezzi e quelle regole non sai nemmeno da che parte iniziare! C’è stato sicuramente molto fair play. Magari c’è stato che anche che lei non ha colto che era arrivata dentro a un pollaio o magari a lei non aveva intenzione di iniziare questa guerra tra polle galline.
C’è da dire che in tutta questa storia, invece di prendermela con la povera ragazza Svedese avrei potuto chiedermi perchè costui invita due galline nel suo pollaio e dare la colpa a lui.
Ma in questi momenti tutto quello che riusciamo a sentire è una stridula voce dentro di noi e quella voce urla “Gallinaaaaaaaaaaaaaaaa“.
Grandi numeri
Se c’è una cosa della matematica che mi piace è la legge dei grandi numeri. Quella che dice che per caso, prima o poi, shit happens.
Un’altra cosa abbastanza figa è tutta quella teoria sui sei gradi di separazione che se poi uno è sociopatico, misantropo o abita sul cucuzzolo della montagna mi sballa le statistiche. Fortunatamente ci sono io a riparare per loro e ad abbattere questa odioso ping pong di ben cinque intermediari tra te e il sesto ed ultimo contatto a cui tanto aneli ad arrivare. Non sbatterti: chiedi a me!
Tutto inizia venerdì sera, quando un amico di una ragazza che conosco si siede al nostro tavolo e guardandomi mi dice: io ti conosco. E io che già andavo a rispolverare tutte quelle sere appannate dall’alcol, mi fermo poco dopo quando mi dice che lui è l’amico di quella mia collega che lavora in Germania ma che ha visto delle mie foto (foto?! davero davero?!) e che la faccia gli era rimasta familiare. Ok, incasso il riconoscimento che nemmeno se fossimo in quei telefilm americani e tu punti il dito contro quello con più cicatrici/tatuaggi e dici “è lui!!!”.
Ma non passano nemmeno due ore che ci muoviamo in un altro pub e li vedo il compagno di studentato di una mia amica. Lui è italiano per cui invece dell’abbraccio spolvera schiena alla svedese partiamo di baci finti sulla guancia e quando arrivo a fare capolino sulla sua spalla spunta da dietro Lonely Boy, che ovviamente era lonely ma in compagnia di amici. L’italiano è niente-popò-di-meno che lo studentello di Lonely Boy ed erano a bersi una birra insieme quando io sono apparsa sulla scena. Raccolgo i cocci, finisco la serata e sopravvivo fino alla domenica pomeriggio.
Domenica ero invitata a uno di quegli odiosi pranzi internazionali che, per la legge dei grandi numeri di cui sopra, prima o poi riuscirò a trovarne uno in cui davvero mi diverto. Per chi non ha la fortuna di sapere di cosa sto parlando, sono quelle cose chiamate anche potluck in cui tu porti un cibo sconosciuto ai più e che in genere condividi con persone altrettanto sconosciute, al di fuori dell’amico/conoscente che ti ha invitato e che comunque siederà all’angolo più remoto del tavolo abbandonandoti al tuo triste destino di conversazioni sul tempo, usi e costumi svedesi con tanto di “ma io nel mio paese faccio così e cosà e tu cosa fai?”. Insomma, una buona zappa sui piedi.
A risvegliarmi dal torpore di questa mondanità forzata è arrivata una tedesca che dopo un pò di chiacchiera introduttiva mi chiede ma tu conosci StoTizio? StoTizio?! Ma certo che sì! In un fine settimana come questo come faccio a non conoscerlo? StoTizio è un crucco che ho incontrato a una conferenza e dopo avermi circuito promettendomi di sintetizzare chissà che molecole per me è sparito e riapparso su facebook in veste di stalker, dicendo di volermi mandare un caffè con UPS che magari arriva ancora caldo. O magari no. Ecco, magari al seconda. Comunque, a quanto pare StoTizio aveva dato chiare indicazioni su di me, in modo che fossi identificabile e facile bersaglio di corrieri espresso e ragazze tedesche.
Sono in giorni come questi che capisci che i numeri, per quanto grandi, sono sempre troppo piccoli. Soprattutto se abiti qui ad Inculandia (Svezia) e hai l’abitudine di parlare con cose, animali e persone (animate e non).
Lonely boy
Non sono solita dilungarmi in descrizioni di persone realmente esistenti, tanto lunghe da rendere possibili identificazioni, forse per il terrore che mai un giorno per una strana congiunzione astrale tale persona leggerà o verrà messa a conoscenza di tale menzione.
Fatto un breve conto dell’utenza di questo blog, del numero di persone nel mondo, del numero di persone che parlano e leggono l’italiano, delle possibilità che la mia descrizione sia così perfetta da far stagliare una sola figura tra tutte le possibili nel mondo e moltiplicando il tutto per un classico “fattore sfiga”, direi che mi posso permettere questa deviazione dal solito chiacchiericcio.
Allora, iniziamo dalla notte dei tempi. Era l’agosto del 2010, io ero appena ritornata in questo buco di culo svedese ed ero in una profonda crisi perchè la mia amata Svezia non era più quella di una volta e stavo combattendo per ritornare ad avere una vita sociale decente. Ero ad una festa ed ecco che vedo entrare colui che qui chiameremo Lonely Boy: lì e in quel momento non ho capito più niente, se non che io con quel tizio ci dovevo assolutamente parlare (almeno!). E così ho fatto. Sono stata talmente brava da riuscire a iniziare una conversazione e a portarla avanti per un buon 30 minuti, staccando alla fine uno scambio di numero di telefono. Se ripenso a quella sera, ancora mi devo fare i complimenti per quello che sono riuscita a combinare e alla incredibile prontezza di spirito nonostante una certa concorrenza in giro. Applausi.
Non solo.
Non mi sono fermata al numero di telefono ma ho perseguito (o perseguitato!) altri appuntamenti, feste, passeggiate e giornate insieme con questa persona. Tutto per un buon nove mesi. Nove mesi in cui nonostante tutta questa parvenza di coppia non è successo niente. NIEN-TE! Al di là della personale frustrazione e cosciente che se non succedeva niente non era colpa del povero Lonely Boy ma in buona parte anche la mia.
Intendiamoci, non state leggendo le memorie di Claudia Schiffer, comunque ho sempre avuto un certo gradimento, specialmente da un pubblico di nicchia, popolato in particolare da persone che sono state definite da terzi come “socially awkward” e che potrei tradurre in italiano come “particolari”. Insomma, il classico “un tipo” con il quale comunque, a seconda del tipo appunto, sento di avere una certa sintonia.
Così dopo una serie di iniezioni di ottimismo fatte di corteggiamenti senza pudore da altri tipi, che però non erano il mio tipo, mi faccio coraggio e mi metto ancora in gioco in prima persona. Inizialmente volevo portarlo su una collina a bere una birra e lì, lontano dalla civiltà, sbattergli in faccia la verità che io ero persa per lui da tempo immemore. In realtà i 10 gradi a fine Maggio e il vento a 20 chilometri all’ora ci hanno fatto desistere dall’appuntamento bucolico per una più convenzionale birra in centro. Alla fine lo prendo da parte e collina o non collina lo metto davanti al fattaccio. Senti un po’, io qui ho gli ormoni impazziti di una sedicenne da nove mesi: vedi tu se vuoi approfittare di questa irripetibile occasione.
Come davanti ad ogni irripetibile occasione, la risposta è stata: “Guarda, ci penso”.
E no, per la cronaca alla fine non ha preso al volo l’occasione.
Io capisco che, come io possa considerare solo un fascia ristretta di tutta l’umanità per un’eventuale relazione, alla pari io non facevo parte di quella élite. Ma allora chi appartiene a quella fortunata categoria che si può fregiare del titolo di “Lonely Boy’s Doables”?
Oltre al tempo in cui ci frequentavamo, in cui immagino di essere stata l’unica concorrente per ovvie ragioni temporali logistiche, mi sarei aspettato di vederlo in giro con qualcun’altro in questi rimanenti mesi. E invece niente. Tante l’ho volte visto nella nostra (!?!) birreria ma solo insieme ai suoi soliti amici di sempre.
Tutta questa manfrina nasce proprio da ieri sera in cui dopo essere approdata alla suddetta birreria l’ho visto entrare dopo poco con uno dei suoi amici e da lì l’ho visto uscire dopo un paio d’ore con il suo amico così com’è entrato. E’ lecito chiedersi se un esemplare di una certa presenza, simpatia (e difficoltà sociale a qualche livello) non riesca, voglia o possa procacciarsi un suo pari con cui alleviare le sofferenze quotidiane per via della condivisione.
Le spiegazioni a questo irrisolvibile enigma sono varie ed eventuali. A dire il vero ho avuto tutto il tempo per pensare a quali problemi socio esistenziali possano avere un ruolo, non solo per il mio sonoro due di picche, ma anche e soprattutto per non concedersi a qualunque altro essere umano (di qualunque sesso).
Le ho fatte passare un po’ tutte: timidezza patologica, ancora vergine, amore finito malissimo alle spalle, amore finito malissimo con figli a carico, famiglia nascosta da qualche parte, misoginia latente, misantropia latente, possibili sindromi ossessivo-compulsive incompatibili con l’arrivo di un’altra persona, disturbi della personalità, malattia incurabile, ascetismo.
Insomma, caro mio, hai un problema? E se sì quale?