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Si sentiva il bisogno di un pezzo sull’eliminazione dell’Italia dai mondiali?
No?! Dai, prometto che quella dei mondiali alla fine è una scusa per parlare d’altro. E per parlare di te, stronza.
Seguire i mondiali sui social network è uno di quei guilty pleasures che mi concedo ogni tanto, così come seguire il Festival di Sanremo o qualsiasi altra manifestazione che catalizza l’attenzione di molti, un po’ perchè è divertente e un po’ perchè questi riti collettivi tirano fuori il peggio del peggio che si annida in ognuno di noi.
Quello a cui mi riferisco nello specifico è un episodio accaduto oggi pomeriggio, poco prima delle 18, quindi ancora in tempi non sospetti. Allora è comparso sul social network con il logo blu che non LinkedIn e nemmeno Tumblr ma neanche Twitter uno stato che diceva che la tal persona non avrebbe sostenuto l’Italia, bensì un altro paese Europeo in cui lei ora risiede. Io inizio a sentire puzza di stronzata in arrivo e difatti arriva ben prepsto la motivazione di tale scelta.
Le ragioni di questo voltare le spalle risiedono nel fatto che l’Italia (di dolore ostello) non si meritava il suo tifo perchè è un posto che le ha negato un futuro in cui vivono solo individui ottusi, corrotti e inbesuiti dal calcio. Invece il paese in cui vive è un posto civile in cui viene pagata lautamente e, addirittura, i tifosi di un’altra squadra possono fare il tifo liberamente senza rischiare la lapidazione. Se già non mi fosse stata sul cazzo per ragioni non inerenti a quest’uscita, si sarebbe guadagnata un ingresso nella lista dei diffidati.
Per quanto riguarda il paese ospitante, che adesso si vanterà di avere ben un tifoso uno in più, non posso dire troppo. La mia esperienza in quel paese dal punto di vista umano è stata piuttosto mista. Se da una parte ho incontrato brave persone, dall’altra ho anche visto invasati con la testa dura come il marmo che nelle loro maglie arancioni (ok, adesso si capisce del paese di cui parlo) e con in corpo due birre non avevano proprio niente di simpatico e ospitale. Però i treni arrivano in orario e allora che ragione abbiamo per lamentarci?
Sull’Italia invece mi sento di spezzare una lancia. Premetto che sulla mia pelle io non l’ho vissuta (ancora?!) questa mancanza di opportunità per un giovane. Io me ne sono andata in Svezia senza pensarci troppo, come se mi avessero offerto un lavoro a Trapani, che tanto la distanza più o meno è la stessa. La Svezia mi piace ma non è amore. L’amore è un’altra cosa e comincia con “I” e finisce per “talia”. Sugli individui ottusi concordo e dico che ne è pieno il mondo ma rinnegare il proprio paese durante i mondiali a me sembra una cosa da alto tradimento. Anzi, è una di quelle cose che fa chi si vuol sentire un metro sopra agli altri, uno che ha una squadra migliore sotto mano e quindi volta le spalle e se ne va. Se ne va non solo a vivere da un’altra parte ma se ne va anche con il cuore e il pensiero.
Se c’è una cosa dell’Italia che mi fa impazzire (in senso positivo) è quello spirito che abbiamo noi, che sì ci sono mille casini a cui far fronte ma teniamo duro, soffriamo, spingiamo a testa bassa come dei muli e dopo che abbiamo preso un paio (o un paio di milioni) di porte in faccia, troviamo la nostra via, risolviamo un problema che ci affliggeva.
È quella cocciutaggine con una puntina di testa di cazzo che alla fine ci fa riemergere anche dalla merda più fissa. Il passare il turno con classifica avulsa e quattro punti per poi arrivare in finale e vincere. Perchè essere Italiani, e di conseguenza tifare Italia, è sofferenza, un po’ di masochismo e tanto cuore.
Questa volta ci hanno eliminato ma non mi rimangio quel che ho detto.
Va bè.
Pace.
Io ho tifato Italia, però!
Sui giovani (Italiani) d’ oggi ci scatarro su (ma non a tutti)
Sarà che l’incombente inverno rende tutti un po’ più irascibili, sarà che con il passare degli anni mi rincoglionisco pure io, sarà che quando mi metto in testa qualcosa vedo il marcio da ogni parte. C’è che ultimamente sono in polemica permanente.
All’inizio fu un articolo dell’Huffington Post (English version, bitch) in cui si sproloquiava di unicorni, di bambini della mia età “speciali” e di infelicità. Questo articolo, proprio lui, è stato quello che ha scoperchiato il mio barattolino di rabbia indiscriminata, che ogni tanto mi tocca riversare su qualcosa/qualcuno. Ci sarebbe da parlarne in lungo e in largo di questo capolavoro di idiozia in lingua anglosassone, che non solo parla di (quelli come) me dipingendoci come una macchietta, un cocktail di hipster da giardino, figlio-di-papà con una puntina di Hello Kitty. Ma non ne parlerò, perchè la mia ira funesta è stata ben presto ricollocata, forse sempre per colpa di quest’articolo.
Mi sono messa ad osservare i GGiovani Itagliani, quelli che mi trovo attorno qui nelle mie lande desolate, quelli con cui entro in contatto (volente o nolente) attraverso i social network. Inizialmente volevo vedere se anche loro erano come quelli di cui il genio dell’Huffington Post andava blaterando oppure se ci fosse, da qualche parte, ancora speranza per il genere umano tutto.
Poi qualcosa è andato storto.
L’inizio della fine è stata questo gruppo facebook (In italiano, cumpà!), a cui sono stata aggiunta controvoglia e che appunto ritengo sia un interessante esperimento sociologico, e solo marginalmente un luogo in cui posso trovare informazioni interessanti. Su cotale pagina, si radunano una miriade di sedicenti ricercatori che dai quattro angoli del globo terracqueo cercano di condividere cose: si va da richieste di semi-sopravvivenza (appartamenti, consigli su una città in cui trasferirsi) ai discorsoni scientifici in cui io il pubblico medio partecipante ha sempre l’aria o di un signore attempato con tuba, bastone, sigaro che degusta uno scotch o di uno del pubblico di Uomini e Donne. Uno normale, MAI.
Spesso e volentieri su questa pagina vengono proposti articoli scientifici o para-scientifici, tipo quelli che appaiono in fondo al paginone di Repubblica che annunciano la scoperta della panacea di tutti i mali. Ovviamente dietro a questa scoperta c’è l’imprescendibile contributo un ricercatore Italiano, un cervello in fuga (dio che odio questa formula!) che sorride in una foto fatta di sbieco mentre millanta di lavorare in laboratorio. Nell’articolo compare sempre un paragrafetto in cui si racconta della vita pregressa del ricercatore e, puntualmente, si fa notare che il povero cristo è dovuto andarsene, ahilui!, dal suolo natio. E tu te lo vedi nella tua mente, lui (o lei) che mogio mogio s’incammina verso un brillante futuro mentre si trascina una valigia fatta di stracci e cartone e c’ha proprio la morte nel cuore. Ma lui (o lei) va! Va! Perchè il suo posto è là (Pooh in sottofondo, lacrimuccia di rappresentanza, sipario, applausi).
Ogni volta che qualche sciagurato mette un articolo di questi subito partono in coro gli Amici di Maria de Filippi che si mettono a sbraitare che l’Italia è un posto de mmerda, che nun ce la si fa a vive in Italia, che c’è da vergognasse, che fa bbene ad annassene. Perchè nella mia mente gli Amici di Maria vivono tutti ad Anagnina (amici di Roma, non abbiatene! vi voglio bene ma la mia fantasia galoppante ha la meglio!).
L’Italia è il male assoluto. L’estero è il paradiso.
A sentire gli Amici di Maria, spostarsi oltre i confini nazionali è condizione necessaria e sufficiente per avere un futuro mejo, un lavoro mejo, una vita un sacco mejo insomma. Quindi io, che all’estero ci sono, mi guardo attorno e cerco di capire cosa ne pensano quelli che all’estero ci sono. Ma dato che sono in fase polemica, nemmeno quello che vedo qua intorno mi piace: qua vivo nell’ostracismo dilagante di Italiani nei confronti di altri Italiani.
Lo conosci quello. No, gli ho parlato una volta ma è Italiano. Eh, lo so, pure tu sei Italiano, qual è il problema? Nessun problema, gli ho parlato una volta perchè, dai, si vede proprio che è Italiano e io non me la volevo tirare e far finta di non averlo riconosciuto, ma poi basta, non voglio avervi niente a che fare, è Italiano!
Questa conversazione è realmente avvenuta, che mestizia. Perchè l’Italiano in pianta più o meno stabile all’estero diffida da ciò che è simile a lui. Non si abbassa a parlare con chi ha la carta d’identità uguale alla sua (perchè la carta d’identità di carta ce l’abbiamo solo noi!). E se da una parte posso capire questa spocchia, perchè sono venuto fino a qua per conoscere uno che abita a 50 chilometri da casa mia?, dall’altra mi chiedo se non sia possibile almeno accordargli una possibilità a questo povero connazionale, che magari anche se parla con il tuo stesso accento è una brava persona, potreste diventare amici, magari non amici-amici ma male non ti farà, dai! Sono d’accordo che non dobbiamo fare come gli Spagnoli che sono sempre la metà di mille, con il vino nella bottiglia della coca cola che fanno un bordello incredibile, però scambiare due parole con un po’ di cortesia e un minimo di apertura mentale si può fare!
In conclusione, all’estero, Italiani uguale inferno. Stranieri uguale paradiso.
Quindi, tirando le somme dell’esperienza di vita vissuta e quella farlocca di facebook, Italia cacca, sempre e comunque, non importa dove sei.
Invece, per me, che me ne sono partita con una strabordante valigia semirigida in una giornata di sole, che non sono dell’Anagnina, che ho amici Italiani qui, un po’ di selezionati conterranei, che nonostante tutte le boiate che mi tocca leggere su Repubblica (la politica, gli scandali, il mal costume, i Dudù), ecco io a quel paese lì gli voglio ancora bene.
Semmai, gli voglio più bene adesso che non quando c’ero, e a suo modo voglio bene anche a tutti quelli che ci abitano. Voglio un po’ meno bene agli Amici di Maria, a quelli che se la tirano e quelli che hanno votato il Movimento 5 Stelle. Però gli voglio bene uguale, un po’ come si vuole bene al cugino scemo.
(…continua)
C’era una volta un re (again)
che chiese alla sua serva
“Raccontami una storia!”
La storia incominciò…
No, non ho un Alzheimer galoppante che mi fa ripetere le stesse cose. C’è che quest’anno pare sia l’anno dei matrimoni e io mi sento in dovere di riportare che nel mondo non ci sono solo sfighe apocalittiche e che alla fine qualcosa per il verso giusto ci può anche andare (forse). A questo punto servirebbe un’altra precisazione, cioè che credo non esista una diretta correlazione tra matrimonio e lieto fine, uno non implica l’altro (e non necessariamente lo esclude). Di più, venga messo agli atti che personalmente non sono un’invasata da matrimonio, non ho una cartella con gli anelli in cui custodisco ritagli di giornale ordinati in ordine cronologico dal ’93 in avanti con abiti bianchi, centrotavola e carrozze con cavalli per organizzare un sobrio “grande giorno” in stile Walt Disney.
Il mio, qui, vuole solo essere un piccolo omaggio e un promemoria che qualcuno nel mio mondo è contento.
Adesso, la storia cominciò.
Questa storia non è una storia che comincia con un c’era una volta perchè quando c’era quella volta io non c’ero. I due protagonisti si incontrarono sui banchi di scuola, al liceo. Lei era (ed è ancora) timida e studiosa e lui era (ed è ancora) il classico “scappato da casa”, quello che è un po’ uno spirito libero e della scuola non gliene importa un gran chè.
Lui in questa storia non fa la sua comparsa fino al quinto anno della laurea, ovvero dopo cinque anni da quando c’ero io in questa storia. Di lui per i primi tempi non si sa niente, si sa che c’è e si sa che lei alla domanda “ma hai un ragazzo?” rispondeva sempre “Sì, ma il mio ragazzo è brutto”. Non lo diceva con cattiveria, ma con un sorriso in faccia che contagiava anche il suo interlocutore, nonostante quell’uscita bizzarra.
Un giorno però il suo ragazzo brutto la lasciò. Lui aveva dei dubbi, sentiva che la loro storia era diventata una cosa da grandi, perchè erano insieme da tanto tempo, da un tempo in cui erano troppo piccoli per mettere i pensieri in fila e capire che cosa cosa stava succedendo davvero. Una sera eravamo ad una festa di compleanno e alla radio passò “A te” di Jovanotti e lei, nonostante la festa, nonostante il ristorante affollato, nonostante gli amici intorno, nonostante tutto pianse come una bambina. Quella canzone che era l’emblema di tutto un mondo (perso?) per lei, aveva aperto la diga e non si era riuscita a contenere. Intanto c’era stata una tesi da scrivere, un’estate, e quando tornammo dalla pausa estiva lei era pronta per la laurea. E anche lui incominciava a tornare, piano piano, come chi si è accorto di aver fatto una stronzata ma non ti vuol dare la soddisfazione e allora un mattoncino alla volta cerca di disfare un muro, sperando che non ce ne si accorga.
Tutto era come fu e il fidanzato brutto lo vidi per la prima volta alla laurea successiva e con grande stupore si scoprì che forse non era candidato a posare per il prossimo catalogo H&M ma non era nemmeno poi così brutto. Scambiammo una battuta in tutto, forse. Dovevo barcamenarmi anch’io per un’imminente laurea tra mille uffici e quando lo rividi era al suo matrimonio.
Lui arrivò in anticipo, lei un po’ meno. Ma arrivò!
Alla festa suonarono tante canzoni di Jovanotti, il DJ ignaro passò anche “A te” e io mi chiesi se lei si ricordava di quell’episodio della festa al ristorante e delle lacrime inconsolabili e se lei ci ripensasse mai al fatto che per un po’ lui se ne era andato e come la faceva sentire. Questa volta non pianse ascoltando “A te”, anzi, come ripetè più volte nel corso del ricevimento “Non ho pianto oggi! Non ho pianto!”, lei per prima stupita che non si fosse commossa mai durante tutto il giorno.
E vissero per sempre felici e contenti.
Piccolo Spazio Pubblicità
(e questo era 17 anni fa, per dire…)
Avevo sbrodolato una cosa lunghissima su cosa votare, perchè e per come. L’ho cestinata e voglio scrivere solo di un piccolo aneddoto.
Era l’Aprile del 2006, il lunedì delle elezioni. Dopo un ottimistico exit-poll che dava la coalizione guidata da Prodi in vantaggio del 135% su tutti gli avversari di tutto il mondo, si arrivò in serata al vantaggio in Senato di Forza Italia, o il Popolo delle Libertà, o la Casa della Libertà, o come cazzo si chiamava quell’anno tanto ci siamo capiti. Mentre si consumava questo sfacelo, io alle 20.30 di quella sera ero sul divano davanti alla televisione a piangere calde lacrime perchè non ritenevo possibile che gli Italiani avessero votato quell’imbecille e che ce lo saremmo dovuti sorbire per altri cinque anni. Io piangevo proprio con i lacrimoni che sgorgavano e non riuscivo a fermarmi. Per dire quanto non mi avesse già snervato sette anni fa.
Ad oggi la mia immaginazione, seppur fervida, non riesce a concepire come esistano ancora persone su questo pianeta che gli affiderebbero il cane da pisciare, figuriamoci mettergli in mano un paese da governare. Ma tant’è: mia nonna diceva sempre che il mondo è bello perchè è vario.
Io quest’anno per votare devo prendere due aerei e quei santi dei miei genitori mi devono scarrozzare da e per l’aeroporto, per farvi capire quanto mi sbatto per mettere sta sacrosanta crocetta.
Alle 15 di Lunedì, quando si chiuderanno i seggi e verranno rivelati gli exit-poll, io sarò all’aeroporto in coda per imbarcarmi sul volo di ritorno. Se ci tenete alla mia dignità e non volete che io faccia tutto il volo a piangere sulla spalla del mio vicino di sedile (che mediamente è un grande obeso o una coppietta che abusa di desinenze come -pucci, -ccino e -lletto), allora mettetevi una mano sul cuore e fate ciò che è in vostro potere perchè quest’anno non si perpetri un altro abominio al buon senso collettivo.
E votate bene, mi raccomando.
Scene di casa nostra
(we are leaving just in time?)
Ispirata da questa descrizione dell’Italiano medio all’estero, mi è venuta in mente una scena dallo scorso fine settimana che vale la pena mettere nero su bianco.
L’Italiano all’estero parla di cibo, si lamenta immancabilmente di qualunque cosa e segretamente piange il pranzo della domenica a casa di mammà anche se ogni domenica erano ravioli in brodo, indipendentemente dalla stagione, temperatura percepita e umidità dell’aria.
L’Italiano all’estero, sfortunatamente in certi casi, ha anche una vita sociale.
Mi trovava, come ho detto, a una festa. Una di quelle feste in cui ci sono un sacco di persone che non hai mai visto e a cui di solito vai con un amico, che è stato invitato da un amico perché la sua fidanzata è stata invitata ma non conosceva praticamente nessuno e quindi voleva avere una spalla sicura. Data la mia profonda esperienza nel campo, questo tipo di feste possono rivelarsi terribili fallimenti o le serate più belle. Ecco, non mi sprecherei in tale entusiasmo per quest’ultima festa.
Complice un venerdì sera impegnativo e poche ore di sonno, sono arrivata alla festa con poche motivazioni e il fatto che gente a caso avesse a disposizione una chitarra e cantasse come se non ci fosse un domani “Volare” (Gipsy King edit) non mi mettevano certo nel mood giusto. Per non parlare dell’unica persona che conoscevo alla festa che cercava di mimetizzarsi con divani, muri e quant’altro purchè nessuno gli rivolgesse la parola.
A un passo dallo slogarmi la mandibola per la proporzione del mio sbadiglio sento un inconfondibile accento e quell’inglese all’Ignazio La Russa: un italiano. In generale sono restia all’approcciare Italiani perchè so bene che spesso l’unica cosa che abbiamo in comune è l’essere Italiani e vivere in Svezia e che se fossimo in Italia, mai e poi mai gli avrei rivolto la parola. Purtroppo la serata non offre grandi spunti e ormai stavo praticamente seguendo la conversazione. Argomento: stereotipi degli Italiani. Mi volto e sorrido al ragazzo Italiano che già capisce che sono una “di loro” e mi unisco al gruppetto. Lo Svedese che tiene banco mi reintroduce all’argomento e mi testa subito con una domanda a tradimento: “Cosa ne pensi dei ragazzi Italiani?”. Senza indulgenze dichiaro che non ho la migliore opinione dei ragazzi italiani in Italia ma che in generale quelli che incontri qui sono un pò diversi dalla media. Che poi questa affermazione la potremmo rivedere. Argomento con qualche esempio riguardo al fatto che la bugie sono all’ordine del giorno e che si tradisce, ma che alla fine anche questo è quello che dà sale. (Questa storia del sale l’ho messa solo per salvare la situazione ché di questo sale se ne farebbe volentieri a meno)
Arriva un altro tizi anche lui Italiano che ha sentito la mia risposta e mi lancia un’occhiata alla “Ma senti un pò te questa acidella: s’è fatta mille e cinquecento chilometri per infamare la gente sua. Brava!”.
(S)fortunatamente, il mio amico ne aveva abbastanza di nascondersi nella tappezzeria e mi ha chiesto se andavamo. La conversazione si è fermata con questo scambio di opinioni e sguardi e sono ignara di quello che è stato detto dopo la mia fuga.
Quello che c’è è che ritorna in bocca quel sapore di casa, quello di lacrime che arrivano fino agli angoli della bocca, quello di tempi in cui questi uomini Italiani hanno combinato un bel pò di casini. Ed è vero che mi avete fatto ridere ma anche fatto sentire piccola con un solo sguardo, giudicando, deliberando e alla fine volendo anche avere ragione. Cari ragazzi Italiani, lo so bene che non siete tutti uguali ma per quello che ho visto io sono contenta di aver imparato il trucco e di non avere più a che fare con i vostri sguardi!