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Revolucion Buenaventura

Era il 6 Gennaio e stavo per bere un tè che non aveva nessun sapore. Il bar, apparentemente molto rinomato e in pieno centro, si chiamava Buenaventura, Horno San Buenaventura. E se sei una a cui piacciono i segni del destino non puoi fare altro che credere che quella non fosse una coincidenza.

Qui urge un rewind spaventoso perchè la mia latitanza dal blog (che posso spiegare!) rende tutto molto fumoso.
Allora, appena arrivata a Barcellona ricevo la mail da un’azienda a cui avevo mandato un curriculum, di quelli senza troppa speranza messo insieme alla buona, e mi invitano per un colloquio per metà Dicembre. Per due settimane quindi sono stata impegnata nella preparazione di una presentazione su misura per questa azienda, oltre che nell’invio matto e disperatissimo di altri brillioni di CV. Una cosa che ho scoperto in questo mese di Dicembre da disoccupata (anche se in trasferta) è che io sono una che non è capace di rimanere a casa senza far niente. Fare il planning settimanale delle pulizie/lavanderia di tutto, anche il cambio estivo/preparazione di un menù variato e sano non sono cose per me. La vita da casalinga non è il mio pane e nemmeno la vita di quella che se ne va allegra a zonzo senza prospettive in tempi brevi. Mi piacerebbe essere quella che prende e se ne va senza paranoie del futuro e invidio chi lo fa, ma è saltato fuori che questa non è roba per me. Che ci posso fare?! Buono a sapersi, dico io.

Nonostante la lunga preparazione per l’intervista, non ero particolarmente nervosa per il colloquio in sè. Mi sono detta che in qualche modo l’avrei svangata. E se proprio fosse andata male che ci sarebbero state altre occasioni. Così in un viaggio quasi Fantozziano (sveglia alle 3.30 del mattino, taxi e volo alle 6.20. Rientro 10 ore più tardi con un’ora di jet lag e occhiaie da panda) mi sono recata all’intervista. La prima intervista vera della mia vita, se non contiamo quella del dottorato in cui avevano sbagliato a segnare il giorno e nessuno era preparato per ricevermi. Io, nel mio inadeguato look total black con i jeans neri pure loro, non sapevo a cosa andavo incontro. L’intervista andò, a mio parere, peggio delle più tetre previsioni. Durante la mia presentazione sono stata interrotta più volte con domande a bruciapelo e dopo la presentazione non è andata meglio. Praticamente un esame di Chimica Organica di quasi 2 ore, che io chimica non sono, durante il quale stramaledicevo il mio professore di quel corso di inizio triennale, quello che si era lamentato che solo 19 persone su 200 avessero passato l’esame. Esame composto di tre, dico tre!, prove in itinere di durata di tre, ridico tre!, ore ciascuna. Corso in cui l’assistente per le esercitazioni (il Dott. Porta) era stato ripudiato per volontà popolare e sostituito da un dottorando (si chiamava Andrea) che ha fatto più del bene lui in qualche ora che il professore e il Dott. Porta in un corso intero. E con questo vorrei anche aprire una parentesi su quante informazioni totalmente inutili conservo nella mia memoria. Terabyte di ciarpame che vengono buoni solo ad allungare questo post di dimensioni già spropositate.

Dicevo. L’intervista è stata le Termopili, una Caporetto, Waterloo e tutte le altre debacle degli ultimi millenni. Quando il fuoco incrociato di domande è finito mi sono risieduta al tavolone presidenziale con poltrone in pelle umana della sala riunioni e mi è stato detto “Hai qualche domanda da fare tu a noi?”. Che cosa vi chiedo?! Come ho recitato?! Capirai… Sta figuraccia che ho fatto! Ho abbozzato una domanda che nemmeno ricordo e ho disconnesso totalmente. Dopo, quando mi hanno affidato a qualcuno per farmi fare un giro della struttura, penso di aver avuto un’espressione catatonica e di aver annuito a caso e sorriso qua e là. Insomma, un’esperienza fortemente traumatica.

Così, sono tornata a casa con le pive nel sacco e non la volevo più nemmeno nominare quell’intervista. Anzi, ero già pronta il lunedì seguente a ricevere una mail di benservito, visto che poi sarebbero arrivate le vacanze di Natale, e mi ero fatta l’idea che avrebbero scelto prima della pausa. Con mia sorpresa non ci furono più notizie. Non prima di Natale e non dopo. Almeno non fino al 6 Gennaio.

Quel 6 Gennaio, davanti al tè insapore, vedo una mail del responsabile risorse umane che mi chiede un numero di telefono alternativo perchè non riesce a contattarmi ed inizio ad agitarmi. Se mi vuoi dire che non hai scelto me, perchè mi vorresti telefonare? Rispondo e aspetto. Arriva la chiamata ed esco in strada, che era appena meno rumorosa del bar in cui stavo. Mi dicono che il posto è mio, se lo voglio. Seguono, pezzi di frase a caso in inglese mentre mi esibisco in pubblica piazza in una galleria di espressioni di stupore.

Nei giorni seguenti alla telefonata non potuto fare a meno di chiedermi se fossero davvero sicuri, se non ci fosse stato uno scambio di file da qualche parte, se le identità non fossero state confuse. Sai che bello arrivare il primo giorno e sentirsi dire “Ah, ma sei tu?! No, perchè c’è stato un errore… Ma davvero credevi che avessimo scelto te?!”.

A botta fresca ho pianto. Non per la gioia ma per la consapevolezza di avere un sacco di cose da fare in poco tempo, ripartire da zero in un posto nuovo che non conosco, almeno all’inizio da sola, e per dover lasciare una vita da señora che non mi soddisfa ma che ha i suoi vantaggi. Poi ho iniziato a razionalizzare e a pensare che se tra tutti hanno scelto me un motivo ci sarà. Che gli inizi sono sempre un po’ spaventosi. Però un’altra cosa che ho imparato in questi anni è che a me gli inizi mi fanno sì tremare le gambe ma poi mi gasano anche. Sono quelle situazioni in cui devi tirare fuori il meglio di te e questa sfida m’intriga da sempre.

E quindi sono qui, in una camera d’albergo di una cittadina universitaria a nord di Londra, bagnata dal fiume Cam (giusto per non confondersi con quell’altra!), alla ricerca di un nuovo posto da chiamare casa. Ho un contratto firmato nella borsa, un po’ di emozione per il mio primo vero lavoro e anche un po’ di strizza.

Di solito ad inizio anno ci tengo a scrivere un post sui buoni propositi per l’anno nuovo. È una di quelle cose che ritengo imprescindibili, che ci sia un blog da scrivere o che siano riflessioni che faccio tra me e me. Quest’anno invece, un po’ perchè avevo ospiti Svedesi a cavallo del nuovo anno e un po’ perchè il 2 Gennaio sono partita per una vacanza*, non ho scritto niente. E nemmeno mi sono impegnata a pensarci a cosa volevo per questo nuovo anno, in un limbo di procrastinazione e incertezza su ciò che sarebbe stato di me e sarebbe stato meglio per me.

Credo che alla fine questa notizia (leggi botta di culo) sia stata una benedizione. Forse. Così quest’anno il mio proposito è già bello e che pronto. Affrontare a testa alta questa nuova situazione, cercando di trarne tutto il meglio possibile, sia sul lavoro che per il resto. E buenaventura a noi!

*un fantastico mini-foto-reportage della vacanza presto su questi schermi!

Don’t waste your time waiting

Disclaimer: a seguire ci saranno parole di quasi 20 lettere senza un apparente significato. Si sconsiglia la lettura ai deboli di cuore.

Ore 7.58 esco di casa, sicura di quella sicurezza che hanno solo gli stolti.

Ore 8.12 arrivo all’ufficio personale dell’Università e chiedo di Bo Persson. Mi dicono che è in vacanza. Come in vacanza?! Mi doveva preparare un documento! Ah… Come ti chiami? Frou Svedese. Sì… Ci ha lasciato una busta per te.
Grazie mille. Grazie Bo Persson. Mi hai fatto prendere un colpo ma grazie.

Ore 8.30 arrivo ad Arbetsförmedlingen, l’ufficio della disoccupazione Svedese. Tutti iniziano a lavorare alle 8 in Svezia. Tutti, ma non quelli di Arbetsförmedlingen che invece aprono alle 9. Aspetto in una sala d’aspetto calda.

Ore 8.58 con un sorprendente anticipo si aprono le porte dell’ufficio. Una decina di persone attendono ai cancelli tipo concerto a San Siro all’apertura delle porte. Una signora invece di controllare i biglietti ci smista verso i vari uffici. Io vado alla registrazione dei nuovi disoccupati.

Ore 9.02 incontro Sebastian. Mi chiede un documento. Gli do il passaporto. Lo guarda ma si vede che non è soddisfatto. Sarà la foto terribile? Mi chiede se ho un personnummer (tipo codice fiscale). E certo che ce l’ho! Vuoi che te lo reciti a memoria? No voglio un documento con su il personnummer. Ecco quello non ce l’ho. In 5 anni in Svezia nessuno me lo ha mai chiesto. Frou, non ti preoccupare. Giusto dall’altra parte della strada c’è Skatteverket, l’ufficio delle tasse. Te lo rilasciano loro un Personbevis.
Con le palle girate mi alzo e attraverso la strada. Tutti le persone iniziano a lavorare alle 8 in Svezia, tranne quelli di Skatteverket che aprono alle 10.
Mentre la mia fiducia nell’umanità inizia a vacillare vado a cercare un posto caldo in cui aspettare fino alle 10.

Ore 9.20 scopro che anche i bar in Svezia aprono alle 10. Tranne i pressbyran e i seveneleven che però latitano nella zona in cui sono. Trovo una pasticceria sgangherata e prendo un caffè, io che il caffè non lo bevo mai. Inizio a sospettare che possa diventare una lunga giornata e avrò bisogno di ogni connessione sinaptica per sopravvivere alla burocrazia Svedese.

Ore 9.52 con un po’ di anticipo sono davanti a Skatteverket. Ma proprio davanti alla porta come un questuante. In un improvviso sprazzo di positività penso che poteva andare peggio. Poteva piovere.

Ore 10.28 piove. Però nel frattempo una signora di Skatteverket mi ha stampato in 5 secondi 5 il Personbevis. Sebastian e il suo petto villoso hanno redatto un piano per i prossimi 4 mesi con la strategia per trovarmi un lavoro. Più o meno dice che devo cercarmelo da sola e mandare curriculum in giro. Per fortuna che c’è Sebastian e tutti i suoi peli. Racconto a Sebastian che io però non voglio rimanere in Svezia mentre cerco lavoro ma dice che a lui non interessa. Che il suo lavoro è registrarsi e mettermi al corrente del suo brillante piano di lavoro e di cosa devo fare quando sono registrata ad Arbetsförmedlingen. Mi passa una brochure con tutto quello che c’e da sapere, dal titolo “cosa farai domani”. Cosa farò domani? Quello che ho fatto oggi? Cercare di conquistare il mondo? Del domani non v’è certezza. E forse non v’è certezza nemmeno dell’oggi.

Ore 11.46 arrivo a casa ma non è ancora finita. Nel frattempo ho incontrato per strada una mia amica, fatto la spesa e stampato il biglietto del concerto di Sharon van Etten (ah, ecco cosa farò domani!). Più importante ho inviato parte della documentazione a tale Magnus F. dell akademikernas erkända arbetslöshetkassa (a-kassa per gli amici). La documentazione è stata inviata a mezzo postale, come le migliori lettere dei soldati nella seconda guerra mondiale. Svezia, capisco l’arretratezza dei paesi del sud Europa ma da te mi aspettavo qualcosa di meglio. Uno scanner e una bella mail, no? Con tutti quei computer che avevi ad Arbetsförmedlingen non potevo mandarla via mail? No. Quelli vogliono l’originale con la firma dell’unico ed inimitabile Bo Persson (che sarebbe un po’ un Mario Rossi in salsa Italiana visto quanto è comune questo nome e cognome).

Ore 14.05 ho finalmente finito. Ho telefonato pure a Magnus F. che mi ha fatto la pausa pranzo più lunga del mondo ma poi è tornato e dopo avergli notificato i miei quasi successi con la burocrazia svedese gli ho detto che io sono in partenza. Ciao Svedesi, arrivederci a fanculo.

Che alla fine non è la cronaca di questa mattinata a contare ma tutti i giorni in cui ho chiamato qualsiasi ufficio per cercare di mettere insieme le informazioni lacunose che ho trovato sui siti istituzionali, ovviamente tutte in Svedese. È un riassunto dei giorni passati a non avere idea di in che giorno avrei finito di lavorare (anche questo è stato un mistero per un po’!), in che giorno me ne sarei andata e se avrei usufruito o meno di uno sussidio di disoccupazione.

Mi sono fatta venire dei travasi di bile perchè per ottenere il sussidio all’estero, solo per 3 mesi invece che 12. La regola dice che devi aspettare da disoccupato su suolo svedese per 4 settimane prima di potertene andare, mentre la vita fuori dalla Scandinavia va avanti. Queste 4 settimane si possono evitare se tu segui il partner, con cui hai convissuto, perchè lui ha ottenuto un lavoro altrove. Io mi trovavo in una terra di mezzo: il “partner” lavora già altrove e abbiamo convissuto per un mese. Provare che noi avessimo davvero convissuto era un’impresa titanica (niente contratto, a meno che non lo scriva io di mio pugno!). Che facevo? Gli portavo gli scontrini della spesa? Era chiaro che una spesa del genere è per due persone e una pure di bocca buona (lui). E se poi vogliamo andare a fare i precisi, lui non ha trovato un lavoro altrove ma il lavoro già ce lo aveva. Perchè il partner lo puoi seguire ma mica raggiungere.

Per un paio di giorni qualche settimana fa ho fatto cento telefonate, raccontato la mia situazione, detto in Svedese che le loro regole sono molto stupide. In tutta questa frenesia ho perso di vista l’obiettivo, essere felice.

È chiaro che stramaledire persone che nemmeno si conoscono al telefono non aiuta, non è d’aiuto nemmeno rimanere in Svezia da sola per un mese e mezzo, nel mese in cui pare si possa toccare un nuovo record per il minor numero di ore di sole (che culo!). Rimanere in Svezia per cosa? Per avere due spicci in più per tre mesi in cui cerco lavoro? E se il lavoro lo trovassi di qui a poco? Che cosa avrei fatto del mio tempo libero? Sarei rimasta a fare la maglia come una Penelope Svedese, in attesa che i tempi fossero maturi? E se non mi capitasse più un’occasione del genere? E se… E se…

E se invece prendessi in mano le redini, mandassi a quel paese gli Svedesi e facessi un po’ quel che mi pare?

Volevo essere la Giovanna D’Arco dei disoccupati, il Braveheart di quelli che non ricevono il sussidio per delle capziosità ma forse certe battaglie non valgono la pena di essere combattute.

Ciao Svedesi, ciao. Me voy…

Prove di fuga #2: il mercato del pesce e altri scoramenti


È passato più o meno un mese dalla mia dichiarazione d’intenti di lasciare il villaggio in cui, che lo voglia ammettere o no, ho passato più di quattro anni della mia vita. Les jeux sont quasi fait, rien ne va plus qui in Svezia. Mancano cinque mesi alla difesa della tesi e sono scesa in campo per trovarmi un lavoro.

Riassunto della puntata precedente: appena presa coscienza della mia condizione di disoccupata nel giro di sei mesi, inizio a guardare su siti specializzati se qualcuno nel mondo ha bisogno di me, lavorativamente parlando. Sorprendentemente, le offerte di lavoro sono tante e ghiotte. Spesso, anche in posti non dimenticati da Dio, tipo Londra (o zone limitrofe). Armata di buona volontà, pazienza e (poca) coscienza di me stessa compilo un curriculum.

Eccoci, dopo che ho compilato il curriculum ho pure scritto una lettera di presentazione, e quest’ultima impresa si è rivelata ben più semplice. Con una frase a finale ad effetto che ero sicura avrebbe sciolto il cuore di ghiaccio di qualunque selezionatore delle risorse umane, ho mandato quel curriculum ad un’azienda vicino a Londra. E poi a un’altra (sempre a Londra). E un’altra a Copenhagen. E ancora un’altra a Copenhagen (anche se solo un mese dopo scoprirò che non avevo approvato qualcosa in qualche schermata finale perchè nel mio profilo non risulta che io abbia mai mandato un bel tubazzo).

Dopo un mese sono ancora qui, io e il mio bel curriculum e non è successo niente. Niente mail o chiamate notturne di capi di azienda anelanti per avermi nelle loro fila. E la cosa non mi sorprende più di tanto. Il pacco è che non ho nemmeno ricevuto un bel no come risposta, perchè a quanto pare, soprattutto in Scandinavia si risentono e fanno gli incubi se ti devono dare una brutta notizia per cui scelgono la via più facile (per loro): fare gli gnorri.

Per tenermi occupata però ho deciso di partecipare a un imprescindibile evento: una fiera del lavoro.

Già dal nome si dovrebbe subodorare che niente di buono può succedere in un posto del genere. A casa mia, quando si dice “fiera” si pensa alla “fiera d’agosto” o alla “fiera della gallina grigia”, eventi a cui un tempo si andava a vendere il bestiame, ora di quelle origini contadine sopravvive solo un’esposizione di macchine agricole e si trova per di più bancarelle con ciarpame di dubbia provenienza. Raramente si fanno affari sulla fiera, da cui il termine “aver fatto la fiera” quando questo accade. Per questa ragione, la fiera del lavoro (lavoro: sostantivo maschile, concetto intangibile) è un po’ la fiera dell’aria fritta.

Mi dicono che alle fiere del lavoro ci vai e fai networking, business card exchanging (ce-lo, ce-lo, manca), self-promotion e un sacco di altre cose che se le traduci in Inglese sembra che ti hanno fatto studiare. Io alla fiera del lavoro sono andata piena di buoni sentimenti e sono tornata con il mal di piedi e le idee confuse.

Forse era il mio approccio che era sbagliato, sai mai. Mi avvicinavo a uno stand e con un bel sorriso in faccia dicevo a uno di questi rappresentanti di questa o quell’altra azienda il mio nome, cosa faccio nella vita e che conosco/ero interessata a conoscere l’azienda e che volevo sapere di più su possibili opportunità per aitanti (presto) dottori. Al chè la risposta media era “guarda sul sito se ci sono degli annunci”. Che è un po’ la risposta che ti aspetti a una siffatta domanda. La quale domanda però è un po’ la cosa che ti aspetti ti venga chiesta a un evento del genere. Cosa devo andare a chiedergli al tipo dello stand? Allora, a casa tutto bene? Il gatto è ancora costipato?

L’unico scambio un po’ più normale che ho avuto è stato con un ragazzo di un’azienda, quella che fa la gnorri, e che mi ha raccontato un po’ la rava e la fava di com’è lavorare in quel posto lì. Però era tipo una chiacchierata normale, non una roba con dei sorrisi forzati in cui tu mi dici che la tua azienda è il posto migliore del mondo che fa le cose più belle del mondo e che però sì, devo guardare sul sito.

Agli antipodi si registra anche un tizio di un’altra azienda che quando io, ormai vaccinata, gli dico allora guardo sul sito lui mi risponde: “Sul sito?! No! Io per esempio ho mandato il mio curriculum alle risorse umane una volta a settimana per sette settimane. Alla fine è venuto fuori qualcosa che faceva al caso mio e mi hanno chiamato”. Pensavo avessero chiamato la neuro io, ma evidentemente si fa anche così  a trovare lavoro. Si stracciano le palle al prossimo.

Comunque non mi do per vinta, sia chiaro! Sta per partire una nuova controffensiva di curricula, uno in particolare a me caro. Un curriculum in direzione Germania sud, che ho pure dovuto farmi fare la foto da un fotografo con lo sfondo bianco, i vestiti della festa (ma solo sopra chè invece i pantaloni erano dei jeans di H&M che stanno insieme con lo sputo) e il sorriso finto.
Che io temevo di fare una faccia alla Chandler ma invece non è venuta poi nemmeno così male.

Prove di fuga #1 – Cronaca semiseria di cosa si scrive su un curriculum

Questo sarà il primo post di una luuuuunga serie, in cui io racconto di come stia provando con tutta me stessa a lasciare questa valle di lacrime e trasferirmi altrove. Ma come posso decidere dove andare a piantare le tende? Al momento l’unica motivazione che ho per trasferirmi in un altro posto è il lavoro. Niente amorazzi esotici, niente chioschetti su spiagge deserte, ma solo una banalissima ricerca di un nuovo impiego. Anche perchè volente o nolente in sette mesi, su per giù, la festa (Svedese) è finita e la prospettiva è fare la disoccupata mantenuta dallo Stato in Svezia alle porte dell’inverno, che se mi conosco un po’ vorrebbe dire che tempo un mese e divento una serial killer*. Quindi, iniziamo ad andare alla ricerca di questo nuovo lavoro.

Contro ogni previsione, trovare un’offerta interessante è stato abbastanza semplice. Non solo ne ho trovata una, ma ben quattro, tutte nel mio campo in una nota multinazionale alle porte di Londra. Che poi la ragione per cui mi sono presa bene con queste offerte di lavoro è che appunto sarebbe nei pressi di Londra. Difatti:

Prima cosa che ho fatto: controllare la fattibilità di essere pendolare Londra-Fabbrica nel sobborgo e la risposta è che ce la si può fare con 25 minuti di treno che probabilmente costeranno un rene di abbonamento ma va bene, si vive (a Londra) una volta sola.

Seconda cosa che ho fatto: controllare le offerte del mercato immobiliare nei pressi della stazione di Londra da cui parte il treno per la Fabbrica nel sobborgo. Anche qui, gli affitti costano una sassata ma confido tantissimo in un generoso stipendio e mi ripeto che si vive (a Londra) una volta sola. Al momento la mia vita a Londra è perfetta: ho una casa, prendo il treno ogni giorno e vado nella Fabbrica nel sobborgo a fare cose bellissime mentre la sera vedo tutti i concerti del mondo, sempre grazie al generoso stipendio di cui sopra, elargitomi a spruzzo.

Terza cosa che faccio (dopo, ma molto dopo): inizio a guardare come fare per ottenere effettivamente il lavoro. Che dicci poco, insomma. La procedura per l’applicazione è tutta on-line e pare una cosa lunga, fatta di pagine da compilare una dopo l’altra. La prima è facile, vogliono un’anagrafica e recapiti vari: la so! Ma alla pagina dopo sono già ferma. Come prevedibile, devo caricare un curriculum. Curriculum che l’ultima volta che l’ho preso in mano era la primavera del 2010, avevo messo una foto del 2008 in cui avevo dei capelli chilometrici e nelle esperienze lavorative avevo inserito anche “receptionist in un ostello in Irlanda”, che al momento un po’ ecchissenefrega. Quindi mi metto le mani nei capelli (tutt’altro che chilometrici) e riscrivo lo stramaledetto curriculum: fosse facile!

Il primo grande ostacolo è trovare un template adatto, perchè un curriculum non ce lo si inventa in un momento d’estro. Scartato (dopo averlo compilato quasi totalmente!) il curriculum formato Europeo perchè a) non richiesto esplicitamente b) se fai un application in Regno Unito pare quasi che li vuoi prendere per il culo con tutte quelle bandierine dell’UE c) il formato non si adatta a quelle che sono le mie esperienze e mi fa sembrare un po’ inetta, inizio a vagare per la rete alla ricerca di un’idea e dopo un po’ di peregrinare la trovo su un motore di ricerca per l’impiego in UK.

Bene, per cominciare viene fuori che in UK si straniscono se gli metti una foto nel CV. E quindi il mio bellissimo primo piano ritagliato con sfondo tempio della Concordia alla Valle dei Templi, abbronzatura qb e fronte stralucida, probabilmente sudata, la lascio fuori a campeggiare sul profilo linked-in, a cui ho messo un bel collegamento sotto al nome per quei curiosoni dell’HR.

Per un inizio ancora più in salita, la prima parte da compilare è un paragrafo in cui fai un “Personal Statement”, una specie di microspot per te stesso. E anche se hai visto tutte le sei stagioni di Mad Men in tre mesi non vuol dire che sei diventata Peggy Olsen. Ma forse proprio perchè ho visto tutto Mad Men e perchè voglio alzare l’asticella laddove nessuno ha mai osato, in questo microspot alludo tra le altre cose anche al fatto che sono un “effective communicator”, un mix tra Vanna Marchi e il Maestro Manzi: datore di lavoro non ti deluderò!

Ben più facili da compilare, ma non per questo banali, erano i campi che riguardavano l’esperienza lavorativa e l’educazione, non fosse che ad ogni voce era suggerito aggiungere quali sono stati i “key achievements” e anche se la mia tentazione era scrivere “fare robe in pratica” non potevo certo mettercelo! In realtà qui il problema era non perdersi in paragrafi infiniti e mettere solo l’essenziale, come mi ha ricordato il mio censore del CV, quello che trova lavori sotto i cavoli in 48 ore.

Il dramma vero e proprio è stata ovviamente la parte finale, quella che accomuna i CV con i siti di appuntamenti on-line, quella in cui il tuo futuro datore di lavoro vuole sapere di te. Cielo, proprio di me vuoi sapere? Allora datore di lavoro, ti traduco pari pari le mie “Personal Skills” ma tu non ridere.

  • Doti comunicative eccellenti, sia orali che scritte (come avrai sicuramente già notato da questo CV. Sic!)
  • Fortemente motivata e orientata agli obiettivi (in pratica sono un ariete, ti sfondo porte e portoni con il solo ausilio della mia fronte alta)
  • Socievole, alla mano e positiva (un ariete sì ma un sorriso te lo faccio pure ogni tanto! E qui è un po’ come quando ti devi descrivere e dici che sei solare, che non vuol dire un cazzo, ma questi datori di lavoro li devi pur rassicurare che non sei un  automa)
  • Lingue parlate: Italiano (madrelingua), Inglese (Avanzato), Svedese (Intermedio) e Francese (Principiante) (Un poker di lingue insomma, di cui il Francese lo metto sempre, anche se l’ho studiato alle medie e l’ultima volta che l’ho usato ho detto “Je te veux” invece che dire “Je t’ai vu” e c’è gente a cui è venuto un infarto ma va bene così)

Ciliegina sulla torta, il campo bianco in cui puoi mettere i tuoi interessi. Penso che scrivere “rotolarsi in un plaid fino alle prime ore del pomeriggio” non sia un opzione percorribile, quindi scrivo “mi piace viaggiare e la musica dal vivo.” (banale ma onesto) “Mi sto allenando con una squadra per un mini-triathlon che sarà nella prossima estate” (ndr la squadra sono altre due persone di cui una vive a Stoccolma ma non è che vorranno sapere le anagrafiche di tutta la squadra e poi devo tenere alto il mio spirito collaborativo di cui andavo blaterando qualche sezione più in su. In più conto sul fatto che se mai qualcuno mi prenderà in considerazione per il lavoro e vorrà cercare di ricordarsi qualcosa di me, penserà “ma sì, dai, quella svanita che vuole fare il triathlon!”)

Fine delle trasmissioni. Ci ho messo una settimana per finire due pagine e mezzo di boiate di siffatto calibro. Di contro, quando ho dovuto scrivere la Lettera di presentazione mi ci sono voluti quindici minuti per buttar giù una pagina di “Scegli me!!! Me! Me! Me!!! Dai, Scegli meeeeeeeeeee!!!”: niente di più facile. E adesso lo mando questo capolavoro della comunicazione moderna, che se le facciano pure gli Inglesi due risate!

 

* Rimane aperta l’opzione “viaggio per il mondo per un po’ e fotte” però mi piacerebbe molto di più intraprendere questa opzione se so di avere un’occupazione ad aspettarmi da lì a qualche mese.

Insegnante allo sbaraglio

Come se già non ci fossero abbastanza problemi che affliggono questo mondo, si è pensato bene di farmi fare da insegnante a dei poveri studenti della laurea specialistica qui in Svezia. Il corso era una semplice esercitazione di laboratorio: 6 studenti ogni settimana per un totale di sei settimane, che fanno su per giù 36 studenti, senza contare qualche piccola defezione.

Presa dall’entusiasmo per questo nuovo incarico mi ero anche messa a raccontare via twitter piccoli episodi collezionandoli sotto l’hashtag #studentathlon, a sottolineare il fatto che era una prova multipla, tipo un decathlon ma con gli studenti. Un’inventiva saltabeccante, lo so. E adesso la smetto di saltare di palo in frasca e la racconto dall’inizio questa cosa dell’insegnamento che ci tengo.

Premetto che discendo da una stirpe di insegnanti, due alla scuola materna e due alle elementari, per cui mi sono sentita un po’ investita dall’onere e dall’onore di ricoprire questo ruolo, per la prima volta in vita mia, davanti a un pubblico composto da più da una persona. L’argomento d’insegnamento lo destreggiavo bene, alla fine è una piccola parte di quello che faccio normalmente in laboratorio, anche se è un campo minato di imprevisti, che durante un laboratorio con sei esperimenti in parallelo può essere difficile da gestire. Il mio unico cruccio era la pedagogia: ho fatto richiesta per un corso di una settimana in tecniche pedagogiche per prepararmi al meglio al mio ingresso trionfale nel mondo dell’insegnamento, sotto lo sguardo vigile dei miei consanguinei predecessori, ma la mia università mi ha gentilmente mandato a quel paese e mi ha detto che se voglio frequentare il corso lo devo fare a Gennaio 2014. Va be’, meglio tardi che mai, no? Alla fine mi sono detta: “Sono stata studentessa fino a una manciata di mesi fa, vuoi che non sappia come inculcare nella testolina di un branco di Svedesi qualche nozione?”.

Ecco no, alla fine viene fuori che essere stato studente non è sufficiente per essere insegnante, ma di questo ne riparlo dopo. In realtà non me la sono cavata affatto male, e questo non me lo sono detta da sola dandomi delle balde pacche di autoincoraggiamento sulla spalla, sia chiaro. Sono state due mie colleghe a dirlo, quelle che assieme a me si sono occupate di preparare il materiale per le esercitazioni, poi però loro sono apparse come le Madonne per qualche ora qua e là mentre io mi sono sciroppata la quasi totalità delle lezioni. La ragione per questo sobbarcamento non è (solo) un forte senso autolesionistico ma soprattutto il fatto che io non ho figli e loro sì, e in questo stato del welfare figlio batte tutto mille a zero, e quindi il laboratorio lo insegno io. Però mi hanno fatto i complimenti, che volevo anche vedere se mi dicevano che facevo cagare.

I tipi umani che mi sono passati davanti in queste settimane sono vari ed eventuali.

Ci sono quelli che mi hanno trattato come fossi una matrona, soprattutto via mail prima di avermi visto ed essersi resi conto che avevo solo qualche anno in più di loro: c’è chi mi ha chiamato Madam e chi mi ha augurato che “this mail finds you in good health“, nemmeno avessi in programma di trapassare.

Ci sono quelli che si sono presi un sacco di confidenza. Dopo due giorni che li intimavo di non creare bolle nella soluzione, di non avere bolle d’aria nei tubi e che scattavo sull’attenti appena li sentivo dire la parola bolla, alcuni ragazzi mi hanno detto che sembravo il pesce giallo del cartone Nemo.

Ci sono gli entusiasti che mandavano le mail  prima del corso e mi auguravano di “passare giornate piene di sorrisi”, che non capivo se erano particolarmente felici di vivere o cercavano di lisciarmi con qualche frase presa dall’ultimo libro di Fabio Volo.

Ci sono tante persone diverse che ti passano sotto gli occhi per qualche giorno e li vedi che ci provano a fare quello che sono venute lì a fare e dà una grande soddisfazione vederli paciugare con quei tubi e quelle provette e sperare che alla fine porteranno a casa qualcosa di tutto quel tuo blaterare di bolle, colonne e proteine.

Ci sono quelli, infine, che ti insegnano qualcosa a loro volta.
Quelli che te lo insegnano con le buone, come gli studenti che ti fanno domande o che hanno un chiaro sguardo interrogativo stampato in faccia, facendoti capire che quell’ultima cosa che hai spiegato non l’hai resa comprensibile a tutti o hai dato per scontato informazioni non così ovvie, così che puoi migliorare nella tua esposizione e aggiustare il tiro sulle cose da sottolineare e quelle da tralasciare.
E ci sono quelli che te lo insegnano facendoti venire un travaso di bile. Come quelle due ragazze che dopo aver ricevuto le mie correzioni sulla loro relazione dell’esperienza in laboratorio, sono venute fino in cima al palazzo nel mio ufficio a reclamare con un certo cipiglio che avevano ragione loro: che i loro calcoli erano giusti, che avevano misurato tutto al minimo dettaglio e che ero io quella nel torto, nonostante avessi visto fare lo stesso esperimento 36 volte che dava per 36 volte il medesimo risultato. Non contente, si sono anche lamentate del fatto che avessi chiesto di provare a spiegare il perchè di un errore sperimentale: con uno sguardo atterrito hanno ammesso che loro non sapevano quale fosse la risposta giusta a quella domanda. Bambine, questa è la Svezia: le vostre relazioni non prendono nemmeno un voto e se ci sono errori tutto quello che succede è che io vi dico che è sbagliato e vi do un aiutino per trovare la soluzione: non vale la pena buttare a indovinare? Dopo un po’ di discussione sui volumi delle soluzioni e sull’impossibilità, a parer mio, delle loro misure, mentre cercavo di non perdere la calma davanti al loro ribattere che erano state precise, le ho liquidate dicendo loro che ai fini dell’esperimento i volumi poco importano, importa che avessero capito il procedimento (che è una cosa che mi hanno sempre detto ma a cui non ho mai creduto fino in fondo e che mi sono sentita poi in colpa di aver detto: se l’insegnante non insegna ciò che è giusto cosa sono qui a fare? Aria fritta?).

Quando se ne sono andate dall’ufficio, dopo poco mi hanno rispedito le correzioni e io ho accettato il rapporto senza ulteriori modifiche. Cercando di essere equa nella frase di valutazione finale, che non se la filerà mai nessuno se non quelle due. E intanto pensavo che se è vero che per essere buoni insegnanti bisogna essere stati prima studenti (anche se non è del tutto vero), allora per essere buoni studenti è necessario essere stati insegnanti.

(Colgo qui ed ora l’occasione per scusarmi con tutti i miei insegnanti per tutte quelle vote che sono stata una studentessa rompina, che dato il mio livello di secchioneria deve essere stato un problema praticamente quotidiano!)

Sui giovani (Italiani) d’ oggi ci scatarro su (ma non a tutti)

Sarà che l’incombente inverno rende tutti un po’ più irascibili, sarà che con il passare degli anni mi rincoglionisco pure io, sarà che quando mi metto in testa qualcosa vedo il marcio da ogni parte. C’è che ultimamente sono in polemica permanente.

All’inizio fu un articolo dell’Huffington Post (English version, bitch) in cui si sproloquiava di unicorni, di bambini della mia età “speciali” e di infelicità. Questo articolo, proprio lui, è stato quello che ha scoperchiato il mio barattolino di rabbia indiscriminata, che ogni tanto mi tocca riversare su qualcosa/qualcuno. Ci sarebbe da parlarne in lungo e in largo di questo capolavoro di idiozia in lingua anglosassone, che non solo parla di (quelli come) me dipingendoci come una macchietta, un cocktail di hipster da giardino, figlio-di-papà con una puntina di Hello Kitty. Ma non ne parlerò, perchè la mia ira funesta è stata ben presto ricollocata, forse sempre per colpa di quest’articolo.

Mi sono messa ad osservare i GGiovani Itagliani, quelli che mi trovo attorno qui nelle mie lande desolate, quelli con cui entro in contatto (volente o nolente) attraverso i social network. Inizialmente volevo vedere se anche loro erano come quelli di cui il genio dell’Huffington Post andava blaterando oppure se ci fosse, da qualche parte, ancora speranza per il genere umano tutto.

Poi qualcosa è andato storto.

L’inizio della fine è stata questo gruppo facebook (In italiano, cumpà!), a cui sono stata aggiunta controvoglia e che appunto ritengo sia un interessante esperimento sociologico, e solo marginalmente un luogo in cui posso trovare informazioni interessanti. Su cotale pagina, si radunano una miriade di sedicenti ricercatori che dai quattro angoli del globo terracqueo cercano di condividere cose: si va da richieste di semi-sopravvivenza (appartamenti, consigli su una città in cui trasferirsi) ai discorsoni scientifici in cui io il pubblico medio partecipante ha sempre l’aria o di un signore attempato con tuba, bastone, sigaro che degusta uno scotch o di uno del pubblico di Uomini e Donne. Uno normale, MAI.

Spesso e volentieri su questa pagina vengono proposti articoli scientifici o para-scientifici, tipo quelli che appaiono in fondo al paginone di Repubblica che annunciano la scoperta della panacea di tutti i mali. Ovviamente dietro a questa scoperta c’è l’imprescendibile contributo un ricercatore Italiano, un cervello in fuga (dio che odio questa formula!) che sorride in una foto fatta di sbieco mentre millanta di lavorare in laboratorio. Nell’articolo compare sempre un paragrafetto in cui si racconta della vita pregressa del ricercatore e, puntualmente, si fa notare che il povero cristo è dovuto andarsene, ahilui!, dal suolo natio. E tu te lo vedi nella tua mente, lui (o lei) che mogio mogio s’incammina verso un brillante futuro mentre si trascina una valigia fatta di stracci e cartone e c’ha proprio la morte nel cuore. Ma lui (o lei) va! Va! Perchè il suo posto è là (Pooh in sottofondo, lacrimuccia di rappresentanza, sipario, applausi).

Ogni volta che qualche sciagurato mette un articolo di questi subito partono in coro gli Amici di Maria de Filippi che si mettono a sbraitare che l’Italia è un posto de mmerda, che nun ce la si fa a vive in Italia, che c’è da vergognasse, che fa bbene ad annassene. Perchè nella mia mente gli Amici di Maria vivono tutti ad Anagnina (amici di Roma, non abbiatene! vi voglio bene ma la mia fantasia galoppante ha la meglio!).

L’Italia è il male assoluto. L’estero è il paradiso.

A sentire gli Amici di Maria, spostarsi oltre i confini nazionali è condizione necessaria e sufficiente per avere un futuro mejo, un lavoro mejo, una vita un sacco mejo insomma. Quindi io, che all’estero ci sono, mi guardo attorno e cerco di capire cosa ne pensano quelli che all’estero ci sono. Ma dato che sono in fase polemica, nemmeno quello che vedo qua intorno mi piace: qua vivo nell’ostracismo dilagante di Italiani nei confronti di altri Italiani.

Lo conosci quello. No, gli ho parlato una volta ma è Italiano. Eh, lo so, pure tu sei Italiano, qual è il problema? Nessun problema, gli ho parlato una volta perchè, dai, si vede proprio che è Italiano e io non me la volevo tirare e far finta di non averlo riconosciuto, ma poi basta, non voglio avervi niente a che fare, è Italiano!

Questa conversazione è realmente avvenuta, che mestizia. Perchè l’Italiano in pianta più o meno stabile all’estero diffida da ciò che è simile a lui. Non si abbassa a parlare con chi ha la carta d’identità uguale alla sua (perchè la carta d’identità di carta ce l’abbiamo solo noi!). E se da una parte posso capire questa spocchia, perchè sono venuto fino a qua per conoscere uno che abita a 50 chilometri da casa mia?, dall’altra mi chiedo se non sia possibile almeno accordargli una possibilità a questo povero connazionale, che magari anche se parla con il tuo stesso accento è una brava persona, potreste diventare amici, magari non amici-amici ma male non ti farà, dai! Sono d’accordo che non dobbiamo fare come gli Spagnoli che sono sempre la metà di mille, con il vino nella bottiglia della coca cola che fanno un bordello incredibile, però scambiare due parole con un po’ di cortesia e un minimo di apertura mentale si può fare!

In conclusione, all’estero, Italiani uguale inferno. Stranieri uguale paradiso.

Quindi, tirando le somme dell’esperienza di vita vissuta e quella farlocca di facebook, Italia cacca, sempre e comunque, non importa dove sei.

Invece, per me, che me ne sono partita con una strabordante valigia semirigida in una giornata di sole, che non sono dell’Anagnina, che ho amici Italiani qui, un po’ di selezionati conterranei, che nonostante tutte le boiate che mi tocca leggere su Repubblica (la politica, gli scandali, il mal costume, i Dudù), ecco io a quel paese lì gli voglio ancora bene.

Semmai, gli voglio più bene adesso che non quando c’ero, e a suo modo voglio bene anche a tutti quelli che ci abitano. Voglio un po’ meno bene agli Amici di Maria, a quelli che se la tirano e quelli che hanno votato il Movimento 5 Stelle. Però gli voglio bene uguale, un po’ come si vuole bene al cugino scemo.

(…continua)

A tutti serve una buona ragione per andare al lavoro

(Ho abbozzato diversi post davvero pesanti, della stessa densità dell’iridio, ma quello di cui ho voglia qui e ora è qualcosa di leggero e quindi eccoci qui a raccontare di questa ennesima stronzata)

Sono passate già tre settimane e due giorni da quando le mie vacanze sono finite, e mancano tre mesi esatti a Natale, giusto per dare l’idea di quanto non mi pesi questo ritorno al lavoro. Mille scadenze, di cui una, la più grande scadenza di tutte, è fissata moralmente per il prossimo Giugno, quindi sono qui a testa bassa a pedalare.

Ça va sans dire, che le scadenze (e occasionalmente un po’ di amore sfuso per il mio lavoro) sono quelle che mi mandano al lavoro tutte le mattine verso le otto e mezza. Però quest’anno al mio ritorno dalle vacanze ho trovato una piacevole sorpresa ad attendermi, che aveva la forma di nuovo PostDoc bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante.

Costui viene da un’università in cui ho contatti (e in cui dovrei aver transumato per un certo periodo l’anno scorso) e una sua ex-collega a Luglio mi aveva detto che un ragazzo sarebbe venuto a Settembre. Io ho preso l’informazione, l’ho scritta su un post-it che ho incollato nel lobo occipitale destro, poi sono andata in vacanza e il post-it deve essersi staccato ed è finito dietro a tutto l’adipe che ho immagazzinato a furia di panelle e arancini. Così il primo giorno di ritorno dalle vacanze, mentre stavo affogando tra le migliaia di revisioni del mio articolo, vengo prelevata da uno dei professori che mi vuole assolutamente presentare ad un nuovo PostDoc che è appena arrivato. E lì appena lo vedo ho un paio di secondi di vuoto totale in cui penso che questo lo devono aver mandato per sbaglio quelli del casting dei modelli di H&M, e poi ho avuto l’epifania. Nemmeno fosse uno dei membri dei One Direction e io una fan in preda ad un attacco isterico, gli punto il dito contro e esclamo “Ma io so chi sei! Sì, A. mi aveva detto che saresti venuto!”. Ottimo inizio, una roba sobria per non farsi riconoscere.

Qualche giorno dopo arriva il fine settimana e io che sono sempre stata una Wendy per tutti i bambini sperduti che approcciano queste lande, non mi tiro indietro davanti a un PostDoc, così lo incontro per i corridoi e gli chiedo se ha piani per il sabato e se mi vuole dare il suo numero di telefono. Ma ricordiamoci che il soggetto in questione è bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante, per cui mi sento in dovere di sottolineare le mie intenzioni puramente umanitarie di questa richiesta, farfugliando una frase sconnessa che conteneva le parole “colleagues”, “beer”, “saturday” e “normal”, non necessariamente in questo ordine. Un po’ stupito per il mio essere diretta o perchè mi voglio prendere cura del suo equilibrio psicologico facendogli incontrare altri bipedi dal pollice opponibile, accetta a darmi il numero, che ovviamente scrivo correttamente solo dopo mille tentativi perchè il suo accento inglese, diciamocelo, fa un po’ cagare, in netto contrasto con le sue doti fisiche, nel caso non lo avessi sottolineato già a sufficienza.

Iniziamo a uscire insieme con colleghi e con altri amici e inizio a scoprire cose di lui che farebbero venire degli svenimenti isterici a qualunque donna eterosessuale tra i 16 e i 65 anni, di cui vado a fare un dettagliato elenco:

  •  fa triathlon, corre maratone e ha un passato da ciclista
  • parla quattro lingue e vuole imparare pure lo svedese
  • è un chimico (che a mio dire è ragione necessaria e sufficiente per almeno uno svenimento)
  • preferisce i cinema piccoli ai multisala
  • gli piace Londra

Diciamo che quando ho pensato di fare questo elenco mi ero immaginata di venire fuori con una lista della spesa che non finiva più (e gli ultimi tre punti sono trascurabili per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale) e invece questa défaillance mi conferma la conclusione a cui ero più o meno giunta qualche giorno fa, non appena sono riuscita a superare le caldane e i risolini isterici quando ci incrociamo in corridoio. E la conclusione è che sarà anche bello bellissimo in maniera quasi imbarazzante ma dopo di quello, bah…

Va bene, non è da tutti sapere parlare quattro lingue e correre a destra e a manca più veloci della luce ma qui non stiamo compilando un questionario delle proprie abilità e quello che marca più crocette (check!) vince. Qui stiamo parlando di budella in subbuglio e per quanto mi riguarda il mio intestino sta vivendo in tutta tranquillità la sua vita (di merda).

Queste sono le (amare) conclusioni che traggo dopo questi mesi un po’ così e una recente sovraesposizione a film pseudo-realistico-romantici in cui con un occhio si guarda alla perfezione dell’amore in 16:9 e dall’altra ci sono degli sprazzi di cinismo quotidiano che io facevo sì sì con la testolina e mettevo una firma sotto quelle parole. Tipo quando dicevano che da giovani (sic!) siamo portati a pensare che è facile trovare persone con cui connettere e invece con il tempo ci si rende conto quelle persone capitano raramente nella vita e alla fine mandiamo all’aria quelle occasioni e ci riduciamo a “connetterci malamente”. E per quanto mi riguarda non è nemmeno detto che le connessioni di cui si parla qui sopra siano delle connessioni realmente esplorate, ma piuttosto intendo connessione che sono rimaste in potenza, sospese, racchiuse in uno spazio di tempo limitato e, soprattutto, passato.

E quindi va così. Il PostDoc rimane dov’è, senza che io nemmeno mi improvvisi una panterona da laboratorio (salvo imprevedibili rivelazioni semi-personali del sopramenzionato soggetto che mi rivoltino come un calzino e facciano sbarbattare il mio cuore come una carpa spiggiata sulle rive del Po).

Però almeno ogni giorno, quando vado al lavoro, c’è lì qualcuno che mi saluta ed è bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante. Che insomma, buttalo via!

Perfetto.

Premessa: questo post contiene un po’ di disagio. Ho anche messo in cima i Verdena per rendere il tutto ancora più palese. Così, per avvertire.

E’ successo più o meno un mese fa mentre ero in vacanza. Quelle due settimane abbondanti di vacanza che mi sono ritagliata quest’anno, ben meno delle vacanze che mi sarei potuta prendere, ma si sa che qui dentro brucia il fuoco sacro dell’autolesionismo. Di queste due settimane di assenza avevo avvisato ripetutamente tutte le persone che, lavorativamente parlando, avrebbero potuto sentire la mia mancanza. Inutile aggiungere che queste mie e-mail sono state ignorate e mi sono continuate ad arrivare incarichi che dovevano essere fatti asap e che in casi veramente imprescindibili sono state anche svolte dalla sottoscritta asap (autolesionismo: burn burn burn!), con buona pace delle mie vacanze.

Il problema è sorto quando una e-mail diversa dalle altre è arrivata. Questa era la risposta dell’editore di un giornale scientifico riguardo alla pubblicazione di un mio articolo. Questo genere di lettere contengono pareri anonimi sul tuo lavoro e decidono se il tuo articolo può essere pubblicato o meno. Alla prima lettura ho avuto un nodo allo stomaco: gente che nemmeno sai chi è ha sparato a zero sul mio lavoro, chi giudicandolo buono ma con delle mancanze, chi cassandolo senza pietà, chi facendo domande superficiali. Tutti i commenti e le domande che ci (mi) ponevano sembravano essere fatte con spocchia, come se gli avessi fatto perdere il tempo più prezioso della loro vita e mi sentivo personalmente imputata di quelle mancanze verso cui loro puntavano il dito.

La realtà è un’altra. E’ che questa lettera ha toccato due dei miei punti debolissimi in una volta sola: l’iper-auto-responsabilizzazione per gli errori e l’ansia da perfezione.

Non so quale sia l’eziologia di questi mali, forse sono un retaggio della latente cultura cattolica, o una cosa comune tra la popolazione mondiale, tipo l’intolleranza al lattosio, solo che la gente non te lo viene a dire a te che ha certe paranoie. C’è che nel mio piccolo mondo, con la mia piccola esperienza queste paturnie contano e mi influenzano. Il rimuginare all’infinito sul passato, su quello che è andato male, su quello che non ho fatto io. Senza mai pensare che magari io non ero l’unica persona coinvolta in quella situazione, che invece di andare male poteva andare peggio (poteva piovere!).

Da qui alla voglia di uber-perfezione il passo è breve. L’imposizione di standard creati da me medesima su tutto e tutti, che portano alla rimuginazione sul non raggiungere quegli standard, che portano alla creazione di nuovi standard. E questo vale in tutti i campi del pensare e del fare. Al lavoro. Con gli amici. Con me. E ovviamente con gli “amici speciali”.

Quando mia madre mi dice che non è che non lo trovo ma che non lo cerco, mi fa arrabbiare, ma ha ragione. Perchè per me uno normale non va bene nemmeno per provarci, per vedere che succede. C’era quello a cavallo tra l’etero e l’omosessualità (più d’uno), quello che affogava tra mille interessi, quello che aveva problemi di relazione con gli altri, ognuno con le loro piccole peculiari manie, che per me erano le cose che li rendevano speciali.

Perchè questo non è un paese per un Joe Sixpack qualunque. O almeno vedremo.

Alla fine di tutta questa pippa esistenziale, il mio articolo è stato accettato per la pubblicazione. Perchè sono andata oltre alle critiche che avevo visto come personali, le ho affrontate e controbattute. Alcune accettandole, altre rigettandole con delle motivazioni. Un po’ come in una grande metafora di quello che dovrei fare quotidianamente. Invece che stare qui a ripensare a Joe Sixpack.

Fa la cosa giusta – Albione edition

Cos’erano? Tre settimane  che non prendevo un aereo?

Non vedevo l’ora di andarmene da queste quattro case in un angolo del mondo per respirare dell’aria nuova. Aria respirata da altre seicento persone. Aria condizionata che arrivava direttamente dal polo Nord.

Se l’anno scorso mi avevano mandato a Disagioville, quest’anno sono stata rispedita ad Albione, perchè chiaramente gli organizzatori di conferenze non sono dotati di una mappamondo e continuano a rimbalzarmi tra la solita manciata di posti. La conferenza, per lo standard degli eventi di questo tipo, era una roba grossa e soprattutto lunga: cinque giorni di socialità forzata in cui gente che fa più o meno le stesse cose si ritrova in uno spazio ridotto, sperando che qualcosa di buono ne venga fuori.

Potrei raccontare mille cose: del post-doc bonazzo di Vienna, il marpione Belga, le (tropp(issim)e) birre, la ggente che tu la vedi e pensi che siano degli sfigati senza speranza che non possono sostenere una conversazione, la felicità dopo cinque giorni di avere un pomeriggio in cui puoi fare un pisolo e non ci sia nessuno che ti rompa le palle.

Però delle cose pseudo-scientifiche su questo blog non ci è dato parlarne. Pare brutto ma sono le regole. Qui si parla di roba sugosa e soprattutto fatti miei.

E’ successo che ho chiuso un capitolo, quello con il collega che vive di là dal ponte. Mi è sembrato un’infinità di tempo che non dicevo un no, che alla fine a fare due conti di no ne ho detti anche meno di un anno fa, ma questo era un no detto con sicurezza, a denti stretti. Era un no che non sapevo se sarei stata capace di dire: con il fatto che le cose sono andate a scatafascio nell’ultimo mese, un po’ di compagnia è un ottimo modo per scacciare i pensieri, o almeno rimandarli a più tardi. E invece ho detto no e mi è sembrata la cosa più ovvia da fare, la cosa giusta da fare. Non sono serviti gli apprezzamenti, le occhiate e i messaggi ambigui.

Sono rimasta sulle mie posizioni e mi va bene così.

Me lo ero ripromesso tempo fa, dopo che ci eravamo sentiti, ancora ai tempi dell’Olanda. Era il tempo di finirla con questo prendersi e lasciarsi e dopo ben due anni e una serie costante di ritorni, si può dire che è roba passata.

Ma.

Quando sono tornata in aeroporto, ieri sera, e due davanti a me si mangiavano la faccia dai baci non ho potuto non sentire che il respiro un po’ si affannava, il torace diventava stretto e l’aria non bastava. Vuoi che sia stato il ritorno a una vita “normale”, vuoi che con gli aeroporti di questi tempi ho un rapporto di amore-odio, ma nell’aspettare il treno avevo un bel po’ di cose a cui pensare.

Pensavo che anche se ne ho messo alle spalle uno, me ne rimane ancora uno da accantonare, quello più recente. Pensavo che è un periodo in cui la testa è piena di preoccupazioni e che io riesco ad affrontare un problema alla volta, quindi lui dovrà aspettare. Non che si starà struggendo perchè ho smesso di contattarlo, avendo smesso lui per primo. Solo che adesso non mi sento proprio di promettere niente a nessuno. Pensavo che lo ho pensato e penso che lui non faccia lo stesso. Penso che questo sia triste, come mi attacco alle persone e non le riesca a mettere da parte, a come adoro vivere nel passato, mentre il tempo (e le persone) là fuori vanno avanti.

Pensavo che il mio collega ed ex ragazzo mi ha chiesto se di questo qui io ne fossi innamorata e pensavo che io non sono stata capace di dire di sì. Proprio non mi veniva. Gli ho risposto che mi piaceva, tanto. Che forse è un primo passo per ammettere che tutte queste paturnie presto si dissolveranno. Magari alla fine di Luglio, che è stato brutto quanto i mesi precedenti sono stati belli.

Perchè il karma è una troia e non gliene importa se tu fai la cosa giusta.

Fine primo tempo

(Se mi dicessero che questa è l’unica canzone che posso ascoltare da qui alla fine dei miei giorni, non la prenderei troppo male)

Sono arrivata a poco più di metà della mia avventura Albionese ed è già tempo di bilanci. Così come è successo durante il periodo Olandese, sono felice. Sono felice della stessa felicità per cui non c’è niente di incredibilmente perfetto da farmi svegliare alla mattina con un sorriso. Ma che lo voglia o no, quel sorriso ce l’ho in faccia.

Sono quasi quattro settimane. Ci sono stati giorni in cui mi sono chiesta che cosa ci facevo qui. Per la prima settimana non ho nemmeno disfatto la valigia, ce l’avevo aperta in mezzo alla camera, con ancora i vestiti piegati all’interno. Nemmeno dovessi decidere di chiuderla, prendere la porta e tornare da dove sono venuta. E invece niente, dopo un po’ la valigia l’ho disfatta e adesso ci ho pure preso gusto.

Scrivo di sabato sera, perchè sono a casa. Il sabato sera a casa era una cosa che non mi succedeva da secoli: il fine settimana, per me sacro e dedicato a qualsiasi attività purchè fuori di casa e in compagnia, non è più imprescindibile. Alla fine qui conosco una manciata di persone, nella casa stasera penso ci saremo solo io e la Cinese.

L’Italiano è probabilmente fuori con la Brasiliana (ve l’avevo detto che c’è una Brasiliana? No? Bè, mi sta sul cazzo e questo è più o meno quanto). L’Algerino è disperso altrove. L’Hondurena visto che non spiccica una parola di Inglese è andata a Vienna per una settimana, magari il Tedesco le riesce più congeniale. L’Indiano se ne è andato e non ritorna più. Il Tedesco sta copulando con la sua ragazza (poichè ho scoperto che questa è la ragione per cui non è mai a casa). Il Belga sta copulando con la sua ragazza pure lui, probabilmente, visto che per qualche giorno è a Londra, con lei e mille altre persone. E io invece sono qui, con la piantina di basilico che il Belga mi ha pregato di curargli in sua assenza, come in una rivisitazione della scena finale di “Leon”, dove alla fine rimango da sola, io con la piantina. Che poi io nemmeno le so curare le piante e se non ci si crede, chiedete a mia mamma del genocidio botanico quella volta che i miei sono andati in vacanza per una settimana e mi hanno lasciato i vasi da innaffiare. Ho seriamente pensato che i miei mi avrebbero disconosciuta quella volta.

Le altre persone che conosco sono le ragazze del laboratorio e con loro sono uscita ieri sera. Alle cinque siamo andate al pub per “una birra”, che è diventata un’altra birra, che è diventata una cena, seguita da tre giri di sambuca e ancora una birra. Morale della favola, alle undici il pub ha chiuso e ci ha buttato per strada, che mai fu così difficile da percorrere anche se erano solo dieci minuti fino alla mia prigione. Oltre a non avere il senso della misura per l’alcool, devo dire che quelle ragazze mi piacciono. A differenza di molta altra gente che conosco attraverso il lavoro, non si prendono troppo sul serio, il che è sempre un valore aggiunto quando il tuo progetto di ricerca riguarda cose che nemmeno a quelli che lavorano nel tuo campo gliene potrebbe fregare di meno.

Questo è il mucchietto di persone che mi accompagnano in questa avventura. Certo, ci sono tutti gli altri, quelli che sono disseminati da qualche parte nel mondo e che di tanto in tanto mi mandano una e-mail con dentro un po’ d’amore sfuso.

E sono felice.

Inizio a sospettare che la ragione di questa estasi, la mia droga, sia questa possibilità che mi è stata data, quella di viaggiare. Una vita da semi-nomade. La vita in Svezia, quattro mesi di fuga in Olanda, un paio in Svezia e poi ancora in Inghilterra. Ogni volta che approdo in un posto nuovo ho la possibilità di ripartire da zero. Zero è un numero che fa un po’ paura però è il brivido che conta, che ti dà la scossa e ti fa cominciare. Ogni volta posso reinventarmi ed essere quello che voglio.

In Svezia, all’inizio, ero quella piena di buoni sentimenti, quella che fa-la-cosa-giusta e dio solo sa a quali terribili risultati ha portato tutta la mia voglia di correttezza.

In Olanda sono diventata Italiana, ho rispolverato un amore per la mia nazione e per le persone che ci vivono. Come ogni mio amore, anche quello per l’Italia è un amore mal riposto, mi pare di capire.

Qui sono una radical-chic che ognuno nel mondo si dovrebbe sentire in dovere di odiare, imparo di film che anche la mamma del regista si è rifiutata di vedere e il Belga mi legge le poesie decadenti mentre mangio gli involtini primavera, mia unica vera fonte di sostentamento.

Il problema è che non posso condurre una vita con la data di scadenza in eterno. Verrà il giorno in cui dovrò mettere la testa a posto, in un unico posto, e provare a rimanerci. Temo quel giorno e allo stesso modo lo aspetto curiosa, per vedere chi sarò allora e quanto detestabile sarò diventata. Per il momento mi godo l’effimera felicità di questa nuova vita, che tra tre settimane finirà in un secondo, proprio come è incominciata.