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Giulia con i pantaloni su II
Non che se ne sentisse il bisogno ma devo (devo!) raccontare il concerto di Moonface di ieri sera. Nella vita e quindi anche qui tendo a vivere di proiezioni di quello che sarà e poi mi dimentico di quello che succede davvero nella realtà, mi dimentico di riportarlo e me ne dimentico io.
Di solito, come preparazione a un concerto, ascolto a ripetizione quello specifico cantante, nemmeno dovessi studiare per un esame e poi dopo il concerto ho una specie di rifiuto dell’ascolto che dura per qualche mese. Con Moonface però è stato diverso: da quando ho comprato il biglietto ho centellinato gli ascolti, concedendomelo solo quando camminavo per strada con la neve che cadeva, che va bene che non abito a Capo Verde però non è successo spessissimo. Così sono arrivata a ieri con la mente sgombra.
Alla fine non sono andata da sola, il mio coinquilino di quattro anni fa, lo stesso che mi aveva trascinato al precedente concerto di Moonface, è venuto con me. Il che mi rende una Giulia con i pantaloni su un po’ a metà nelle intenzioni originali della favola della donna semi-indipendente, però è stato bello condividere quest’esperienza con lui, una delle persone con cui avrei dovuto passare più tempo, ma che le contingenze (e la pigrizia?) hanno fatto sì che fosse più una comparsa che una vera e propria presenza negli ultimi anni. Tanto più che fra un po’ si trasferisce in Kazakistan e buonanotte al secchio di andare a fare i presi bene ai concerti. Perchè lui è un po’ barbarian, sometimes.
Comunque, su queste panche di una chiesa sconsacrata si è consumato il concerto. Non c’erano tante persone, a spanne più o meno 200, e il concerto non era nemmeno sold out, ma tanto meglio, visto che noi eravamo in quinta fila in posizione perfetta non solo per sentirlo ma anche per vederlo suonare. A proposito di gente che va da sola ai concerti, nella fila davanti alla nostra c’era un signore sui cinquant’anni che era seduto lì e per tutto il tempo prima del concerto si girava a guardare l’uscita, si alzava in piedi, controllava il telefono. Aveva un aspetto buffo già di suo, non bello e con un qualcosa che gli dava l’aria di essere fuori posto. Ho voluto credere che avesse dato appuntamento a qualcuno. E che lei (o lui) non sia venuto. L’ho rivisto mentre uscivamo dopo aver recuperato le giacche al guardaroba: era ancora da solo e mi sembrava sorridesse.
Adesso però la smetto di divagare e prometto che racconto del concerto. Come ha detto lui prima di iniziare a suonare, per la prossima ora e mezza ci sono io da solo che suono il piano, so che è noioso quindi se ve ne volete andare non c’è problema, non mi offendo. Che poi lui quando canta ha questa voce piena e forte ma appena toglie le mani dal pianoforte e si mette a parlare con il pubblico tra una canzone e l’altra si vede che è un timidone e il tono si fa più flebile, quasi un sussurro, dice le sue cosine che non capisci se ci è o ci fa, fa un sorriso dritto e sottile che intravedi appena i denti e poi ritorna a suonare. Sorprendentemente ha parlato parecchio con il pubblico, ha dato l’impressione di essere quasi felice e non più il lanciatore di libri della volta scorsa.
La ragione per questa felicità forse è data dal fatto che adesso vive a Helsinki, come ha tenuto a farci sapere prima di cantare Helsinki winter 2013. Visto che non pretendo che la sua storia personale sia conosciuta come quella di una Kardashian qualsiasi faccio un riassunto. Qualche anno fa Moonface si lascia con la morosa e la band in cui suona si scioglie, per non impazzire appena prima dell’inverno si trasferisce da Montreal a Helsinki, dove però si rende conto che non c’è niente da fare per cui inizia a suonare il piano come terapia occupazionale. Più o meno accidentalmente c’è una donna a Helsinki (Julia?) ma fino ad ora non ci era dato sapere cosa fosse successo dopo.
Io nella mia infinita tracigicità mi ero fatta persuasa che lui fosse tornato da dove se ne fosse venuto, complice l’ultima canzone dell’album, Your chariot awaits. Una delle cose che amo dei concerti è che canzoni che non mi avevano colpito fino a quel momento tutto a un tratto mi esplodono davanti: è un emozione difficile da spiegare, come un’epifania, ed è bellissimo e speciale ogni volta. Questo mi è capitato con Your chariot awaits, nella sua fiera rassegnazione di un’alba triste prima di una partenza. E ovviamente ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale.
Invece contro ogni previsione Julia, la finlandese Julia, sembra avercela fatta a superare l’inverno con Moonface e un po’ sono contenta per lui. Dall’altra parte dell’oceano però è rimasta Jenny Lee, quella della canzone che ho messo all’inizio, una canzone che non è nemmeno nell’album ma che suona solo dal vivo, come fosse una nota a margine, per non far pesare il confronto a Julia, per non esporsi del tutto. Jenny Lee è rimasta in Canada, è tornata nella parte in cui parlano inglese perchè lei ha avuto il buon senso di chiedere per qualcosa di più, mentre lui è andato a inseguire Julia in Finlandia, (And now you live back with the anglophiles/ And I am where my lover needed me to go/ And I love her so I step onto the ice/ While you possess the common sense to demand paradise). Brivididabadibidi, per le parole e per la musica.
I brividi venivano perchè lui suonava il piano non solo con le mani ma con tutto il corpo, tanto che a un certo punto la testa ondeggiava avanti e indietro a ritmo della musica e i capelli lunghi arrivavano dove ci sono le corde e io mi chiedevo se fosse possibile che gli si incastrasse la chioma in mezzo a tutte quei meccanismi che ci sono dentro a un pianoforte. Per la cronaca non si è incastrato. Ma quando non rischiava il trauma cranico dondolandosi, lui e il suo pianoforte facevano cose difficili da raccontare. Sono difficili da spiegare i mille riverberi che si propagavano nel silenzio della chiesa nelle pause dalla durata più perfetta che si possa immaginare; i pianissimo e i fortissimo, ma soprattutto gli ultimi; gli arpeggi infiniti, ripetuti cento volte sempre con una piccola variazione che non volevano essere una dimostrazione di bravura ma sembravano più un prendere fiato, uno sperimentare sul posto, un momento privato in cui lui stesso si stava perdendo per poi ricordarsi che invece ha davanti un pubblico e deve continuare.
In definitiva, nel caso non si fosse capito, mi è piaciuto il concerto e tutto quello che c’è stato attorno. Ero un po’ meno soddisfatta del ritardo del treno e della sveglia maledetta di stamattina, però ne valeva la pena anche solo per tornare a casa da sola per le strade deserte ascoltando nelle cuffie ancora Moonface, come se non fosse stato abbastanza.
A tutti serve una buona ragione per andare al lavoro
(Ho abbozzato diversi post davvero pesanti, della stessa densità dell’iridio, ma quello di cui ho voglia qui e ora è qualcosa di leggero e quindi eccoci qui a raccontare di questa ennesima stronzata)
Sono passate già tre settimane e due giorni da quando le mie vacanze sono finite, e mancano tre mesi esatti a Natale, giusto per dare l’idea di quanto non mi pesi questo ritorno al lavoro. Mille scadenze, di cui una, la più grande scadenza di tutte, è fissata moralmente per il prossimo Giugno, quindi sono qui a testa bassa a pedalare.
Ça va sans dire, che le scadenze (e occasionalmente un po’ di amore sfuso per il mio lavoro) sono quelle che mi mandano al lavoro tutte le mattine verso le otto e mezza. Però quest’anno al mio ritorno dalle vacanze ho trovato una piacevole sorpresa ad attendermi, che aveva la forma di nuovo PostDoc bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante.
Costui viene da un’università in cui ho contatti (e in cui dovrei aver transumato per un certo periodo l’anno scorso) e una sua ex-collega a Luglio mi aveva detto che un ragazzo sarebbe venuto a Settembre. Io ho preso l’informazione, l’ho scritta su un post-it che ho incollato nel lobo occipitale destro, poi sono andata in vacanza e il post-it deve essersi staccato ed è finito dietro a tutto l’adipe che ho immagazzinato a furia di panelle e arancini. Così il primo giorno di ritorno dalle vacanze, mentre stavo affogando tra le migliaia di revisioni del mio articolo, vengo prelevata da uno dei professori che mi vuole assolutamente presentare ad un nuovo PostDoc che è appena arrivato. E lì appena lo vedo ho un paio di secondi di vuoto totale in cui penso che questo lo devono aver mandato per sbaglio quelli del casting dei modelli di H&M, e poi ho avuto l’epifania. Nemmeno fosse uno dei membri dei One Direction e io una fan in preda ad un attacco isterico, gli punto il dito contro e esclamo “Ma io so chi sei! Sì, A. mi aveva detto che saresti venuto!”. Ottimo inizio, una roba sobria per non farsi riconoscere.
Qualche giorno dopo arriva il fine settimana e io che sono sempre stata una Wendy per tutti i bambini sperduti che approcciano queste lande, non mi tiro indietro davanti a un PostDoc, così lo incontro per i corridoi e gli chiedo se ha piani per il sabato e se mi vuole dare il suo numero di telefono. Ma ricordiamoci che il soggetto in questione è bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante, per cui mi sento in dovere di sottolineare le mie intenzioni puramente umanitarie di questa richiesta, farfugliando una frase sconnessa che conteneva le parole “colleagues”, “beer”, “saturday” e “normal”, non necessariamente in questo ordine. Un po’ stupito per il mio essere diretta o perchè mi voglio prendere cura del suo equilibrio psicologico facendogli incontrare altri bipedi dal pollice opponibile, accetta a darmi il numero, che ovviamente scrivo correttamente solo dopo mille tentativi perchè il suo accento inglese, diciamocelo, fa un po’ cagare, in netto contrasto con le sue doti fisiche, nel caso non lo avessi sottolineato già a sufficienza.
Iniziamo a uscire insieme con colleghi e con altri amici e inizio a scoprire cose di lui che farebbero venire degli svenimenti isterici a qualunque donna eterosessuale tra i 16 e i 65 anni, di cui vado a fare un dettagliato elenco:
- fa triathlon, corre maratone e ha un passato da ciclista
- parla quattro lingue e vuole imparare pure lo svedese
- è un chimico (che a mio dire è ragione necessaria e sufficiente per almeno uno svenimento)
- preferisce i cinema piccoli ai multisala
- gli piace Londra
Diciamo che quando ho pensato di fare questo elenco mi ero immaginata di venire fuori con una lista della spesa che non finiva più (e gli ultimi tre punti sono trascurabili per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale) e invece questa défaillance mi conferma la conclusione a cui ero più o meno giunta qualche giorno fa, non appena sono riuscita a superare le caldane e i risolini isterici quando ci incrociamo in corridoio. E la conclusione è che sarà anche bello bellissimo in maniera quasi imbarazzante ma dopo di quello, bah…
Va bene, non è da tutti sapere parlare quattro lingue e correre a destra e a manca più veloci della luce ma qui non stiamo compilando un questionario delle proprie abilità e quello che marca più crocette (check!) vince. Qui stiamo parlando di budella in subbuglio e per quanto mi riguarda il mio intestino sta vivendo in tutta tranquillità la sua vita (di merda).
Queste sono le (amare) conclusioni che traggo dopo questi mesi un po’ così e una recente sovraesposizione a film pseudo-realistico-romantici in cui con un occhio si guarda alla perfezione dell’amore in 16:9 e dall’altra ci sono degli sprazzi di cinismo quotidiano che io facevo sì sì con la testolina e mettevo una firma sotto quelle parole. Tipo quando dicevano che da giovani (sic!) siamo portati a pensare che è facile trovare persone con cui connettere e invece con il tempo ci si rende conto quelle persone capitano raramente nella vita e alla fine mandiamo all’aria quelle occasioni e ci riduciamo a “connetterci malamente”. E per quanto mi riguarda non è nemmeno detto che le connessioni di cui si parla qui sopra siano delle connessioni realmente esplorate, ma piuttosto intendo connessione che sono rimaste in potenza, sospese, racchiuse in uno spazio di tempo limitato e, soprattutto, passato.
E quindi va così. Il PostDoc rimane dov’è, senza che io nemmeno mi improvvisi una panterona da laboratorio (salvo imprevedibili rivelazioni semi-personali del sopramenzionato soggetto che mi rivoltino come un calzino e facciano sbarbattare il mio cuore come una carpa spiggiata sulle rive del Po).
Però almeno ogni giorno, quando vado al lavoro, c’è lì qualcuno che mi saluta ed è bello bellissimo in una maniera quasi imbarazzante. Che insomma, buttalo via!
Serramenti
(Che poi uno i serramenti non li deve per forza chiudere, no?)
Succede che ci sono delle sere di Gennaio in cui uno si rimane da soli con i propri pensieri e non si può fare a meno di farsi delle domande (che non bisognerebbe farsi in una fredda sera di Gennaio), tipo “Dove sarò tra cinque anni?”, “Che cosa starò facendo?” o più in generale “Che cazzo sto facendo ora della mia esistenza?”.
Questa vita da nomade in cui mi sono cacciata è bella. Quando siedi a un bar e racconti la tua storia, le città in cui vivi, hai vissuto e in cui tornerai o meno ci sono persone che genuinamente ti invidiano. Peccato, che con questo stile abitativo molto temporaneo non sia possibile creare legami stabili. Non con cose, luoghi e sopratutto persone.
Le persone sono il vero problema: apri porte, finestre e tapparelle, fai entrare persone nella tua vita, altre escono e alla fine è un bazar in cui tanti passano e pochi rimangono. Forse è così per tutti ma la mancanza di un luogo fisico in cui raccogliere tutte queste persone fa sentire il loro passaggio ancora più fugace.
Le persone non sono il problema: il problema è che uno ci si affeziona alle persone, in meno di un giorno, forse meno di un’ora. Disaffezionarsi è il problema.
Succede che ho aperto una finestra per qualcuno. Volevo farlo entrare, lo volevo così tanto che mi svegliavo nel cuore della notte per pensare a quanto sarebbe stato bello se. Immagino che volere a volte non sia abbastanza. Non so se anche lui aveva le stesse intenzioni, così forti, ma è certo che se c’è qualcuno che ha mancato di volontà è stato lui. Lo dico senza rancore: mi sono messa in gioco, ho chiesto, ho scritto, ho ballato, ho sorriso. Adesso scrollo le spalle. Mancano pochi giorni alla fine dell’Appartamento Olandese e ho già due valigie da riportarmi in Svezia, non mi posso portare dietro altri fantasmi.
Succede che avevo socchiuso una porta tempo fa. Fortunatamente non sono l’unica persona al mondo che fa questa vita raminga e succede che io e lui ci veniamo a trovare nella stessa nazione. Ai capi opposti, ma sempre nello stesso Stato, e fino ad ora non era mai successo. Ci sentiamo, parliamo, ridiamo, io sorrido di quel sorrido che lui conosce bene. Lui mi racconta della sua vita Olandese, temporanea come la mia, e dei suoi nuovi incontri, del suo mentore, una ragazza Italiana di Pisa. Gli dico che dovrebbe provarci, perchè io sono una disinvolta e incentivo i miei ex ragazzi a saltare addosso a chiunque gli capiti a tiro.
E lì lui si mette a parlare di porte. Dice che ha chiuso parecchie porte e prima di aprirne di nuove vorrebbe cercare di capire se ne ha lasciata una socchiusa. Forse ci vedremo la prossima settimana. Forse.
Di lui mi piace che posso prenderlo in giro e lui può prendere in giro me. È bello ed insieme siamo uno il complemento dell’altro. Lui capisce quello che faccio al lavoro, frustrazioni, scazzi, (rare) gioie. Crede che io sappia cucinare,l’illuso. Tra noi due lui è la fighetta, io sono quella tutta d’un pezzo che dà consigli e sa consolare. Lui è la drama queen della situazione e la interpreta con la maestria di uno che ha vissuto in un paese del Sud Europa per tutta la vita con una punta di esoticità lasciata da quegli anni in cui era nella sua isoletta in mezzo all’Atlantico.
Di lui non mi piace che per almeno altri quattro mesi non saremo nella stessa nazione e nemmeno in paesi confinanti. Russa come un trattore e ovviamente dorme abbracciato a me, con la pesta appoggiata al mio collo. A volte non sa di avere torto e non sa fermarsi anche quando sa di fare un errore. Di lui non mi piace che tradì la sua ragazza di allora (con me…) e lei non lo è mai venuto a sapere.
Penso alle porte, socchiuse e non, al fatto che non mi sono svegliata stanotte a pensare quanto sarebbe bello se ci incontrassimo la prossima settimana, ma ho sognato l’altro, quello della finestra, quello che mi fa scrollare le spalle. Poi oggi quando il maledetto subconscio era domato ho pensato alle porte, se aprirle, se lasciarle come sono.
Ho promessa a me stessa di ricordarmi che devo morire, penso che farsi prendere dall’entusiasmo per essere finalmente nello stesso posto possa giustificare un incontro, ma quanti altri fine settimana dovremo incontrarci prima di capire cosa dobbiamo fare con questa porta?
L’imbarazzante momento in cui
Ovvero de l’arte della exit strategy.
Credo che ci sia il bisogno di queste righe perchè la filmografia americana di massa ci bombarda con brillioni di film in cui è tento facile innamorarsi. La trama è semplice ed è sempre la stessa: incontro, interesse, accidente, peripezia, lieto fine. Mischia le carte di Propp, mettile in un ordine a caso e butta un finale melenso che di sicuro non ti sbagli.
Perchè non va sempre come nei film, può capitare che tu esci con qualcuno e poi… non ci esci più. E davanti a queste situazioni si può essere del tutto insensibili, continuare a vivere la propria vita come se nulla fosse, incontrare l’ormai ex uscente e fare come se nulla fosse ma successo, oppure si può essere me.
Nel caso questo anno di blog non avesse ancora fugato il dubbio, me stessa è la causa prima di ogni complicazione della mia esistenza. Davanti a qualsiasi situazione sentimentale adoro crogiolarmi in centinaia di perchè e percome, analizzare ogni frase, sguardo, intenzione e infine affogare nelle mie stesse supposizioni. Se non vivessi ogni flirt come un’esperienza totalizzante probabilmente inizierei a preoccuparmi di avere un cuore morto (because a heart that hurts is a heart that works, cit. Placebo).
Di conseguenza, quando le cose con un uscente iniziano a stagnare e non si capisce se il capitolo ha da chiudersi o meno, io faccio quello che ogni ventiseienne con un discreto passato amoroso alle spalle farebbe: mi faccio prendere dal panico. Anni e anni di educazione sentimentale vengono gettati alle ortiche e se questo fosse una partita a scacchi, bè io inizio a fare mosse a casaccio, perchè se non puoi batterli almeno confondili!
Tra le (recenti) pensate di maggior successo terrei a menzionare le seguenti:
(e se questo fosse un programma televisivo ora andrebbe in onda quella scritta che dice, mi raccomando che non vi venga in mente di fare a casa quello di cui leggerete qua sotto. Ne va della vostra vita! Ma se volete farlo, procuratevi delle amiche senza scrupoli dotate di una videocamera.)
1. L’uomo invisibile
Quando vi trovate obbligati a condividere lo stesso spazio vitale, fingete che il vostro ex uscente non esista.
Ridete, scherzate, sorridete con qualunque bipede vi capiti a tiro. Animali sono ammessi, a patto che riusciate a mantenere un certo applombe, che non è che potete mostrarvi disperate e desiderose di attenzioni come un cane zoppo. Voi siete totalmente autosufficienti e in quanto tali state vivendo la vostra esistenza con successo anche senza di lui.
Ma non appena entra nel vostro raggio di interazione, ecco che scatta la mossa numero 2.
2. Il simpatico umorista
Adesso che avete dimostrato al mondo quanto la vostra vita sia altrettanto compiuta anche senza di lui al vostro fianco (in un patetico tentativo di attirare la sua attenzione non dandogliene, psicologia inversa 1.0) è possibile, seppur non certo, che lui possa avvicinarsi a voi in un raggio di due metri. La zona entro tale raggio verrà rinominata come il vostro cerchio di terrore. Un uscente che entra nel cerchio di terrore può voler dire tutto e niente, ma per la vostra mente ottenebrata dagli estrogeni avrà il solo effetto di far aprire quella coda di pavone a piena ruota. Se avete una quarta non vi devo spigare io cosa fare, in mancanza di quello dovrete puntare sulla simpatia e direte qualcosa di divertentissimo coinvolgendolo nella vostra oltremodo esilarante conversazione.
3. Fish eye
Quando il vostro charme avvolge tutto e tutti è il momento di essere lascivi e mostrare il vostro interesse non con le parole ma con i fatti.
Dunque, lanciate occhiate da un lato all’altro della stanza per individuarlo e quindi puntare il soggetto, sperando che anche lui volga lo sguardo verso il vostro. La vostra espressione non deve far trapelare nessun sentimento in particolare, come se voi eravate assorte a elucubrare sulle cose del mondo guardando un punto all’infinito e lui si è proprio messo in mezzo tra voi e il punto, interrompendo quello straordinario flusso di coscienza. In poche parole, uno sguardo da pesce.
4. Stay casual, stay foolish
Se tutto questo imbarazzo che vi siete inflitte non è sufficiente, allora potete ancora percorrere la definitiva via dell’autoseppellimento facendo le donne-del-giorno-d’oggi.
La donna-del-giorno-d’oggi (DDGD’O) ne ha piene le palle di aspettare il principe azzurro a casa mentre va palpeggiando arcolai o addentando mele (la DDGD’O infatti rifugge da ogni clichè Disney, che viene imputato a unica causa delle sue delusioni amorose). Infatti in barba alle convenzioni sociali in auge nel Sud Europa lei scrive di suo pugno messaggi, mail, whatsapp (e sia maledetta la tecnologia!) proponendo intrattenimenti di varia natura (cibo, bevande, proiezioni di audiovisivi). Se la risposta è negativa o assente, allora la DDGD’O potrà desistere nei suoi intenti perchè è DDGD’O ma non è abituata a confrontarsi con la sconfitta. Ma se sfortunatamente i segnali dall’altra parte non sono così netti (forse, devo vedere, mi piacerebbe ma, sì sì dai e poi ti do buca) allora subentra un meccanismo di autocompensazione in cui l’opera iniziata con così tanta modernità non vuole essere abbandonata, dimostrando al mondo intero che una DDGD’O va e si prende ciò che vuole, ciò che è suo.
Così non demorderà a inviare forme di comunicazione non verbale ma multimediale ad alto tasso di emoticons per riuscire a strappare un paio d’ore di libertà al povero malcapitato.
Ma arrivata fino a qua, cosa ho voluto dire? Se arrivata fino a questo punto della lettura ci si è resi conti di essersi resi ridicoli facendo una o più delle cose elencate ai punti precedenti (o forse anche altre cose inenarrabili), bè allora, facciamocela una risata.
Innanzitutto perchè anche se non siete dei mostri di savoir-faire in queste situazioni imbarazzanti, almeno ci avete provato a fare qualcosa con i vostri seppur scarsi mezzi. E poi anche se le cose non vanno per il verso giusto non vuol dire che la vostra esistenza è compromessa per sempre.
Va bene il dispiacere, il pensare a quello che sarebbe stato, la voglia che vi assale di fare le stalker ma tutti questi momenti indimenticabili (nemmeno con anni di psicoterapia) vi avranno riempito delle giornate che altrimenti sarebbero state solo un altro mucchietto di ore tra un sorgere e un calar del sole.
Tornare indietro non si può
Questa è ormai l’ennesima versione di questo post, che per chissà quale ragione non riesco a scrivere. Forse l’unico modo per dargli un senso è raccontarlo dalla fine e a salire fino all’inizio della vicenda.
Erano più delle 3 di notte quando il taxista mi ha lasciato sulla soglia di casa, sono entrata e ho dormito un sonno spesso come non mi capitava da tanto tempo. Visto che ho una coscienza, il sonno era farcito di sogni con momenti e persone estrapolati dalla serata, come a ricordarmi cos’era successo.
Il taxi l’avevo preso dopo un terribile viaggio in treno. Lo straniero ubriaco che avevo incontrato all’aeroporto non la smetteva di parlare. In meno di mezz’ora mi aveva già raccontato tutta la sua vita. Ha una bambina di sei anni, ha comprato un appartamento di recente, lavora in un ristorante che ha quasi il mio stesso nome e mi ha snocciolato un serie di autori e sceneggiatori Italiani, perchè lui è un’attore quando non fa il cameriere. Era difficile da credere a vederlo ridotto in quelle pietose condizioni. Lui mi parlava in un inglese pietoso e io cercavo di rispondergli gentilmente ma senza dargli troppa corda. Parlavo piano, un po’ per la stanchezza e un po’ per prendere tempo. L’attore ubriaco mi ha chiesto se volevo andare a casa sua per la notte, così, dopo nemmeno un’ora. Accettare non era nemmeno una possibilità, ma non ho potuto fare a meno di chiedermi che genere di persona potrebbe accettare una tale offerta fatta da una persona in quelle condizioni. Le risposte che mi sono data non mi sono piaciute.
L’attore ubriaco l’ho incontrato all’aeroporto mentre aspettavo il treno, sembrava un po’ perso e io gli ho dato indicazioni. Dopo questa sera mi sentivo in vena di dare indicazioni a persone un po’ perse, per empatia e perchè sentivo di dover recuperare un migliaio di punti karma. Nell’attesa del treno di quasi un’ora all’aeroporto mi sono seduta su dei gradini e ho mangiato del cioccolato comprato al chiosco ancora aperto nonostante la tarda ora. Mi ha calmato un pochino. Mentre aspettavo e mangiavo, pensavo a quante persone ci sono di notte all’aeroporto. Non avevo idea ma forse c’erano degli aerei in ritardo o dei voli internazionali ma al terminal principale ci saranno state almeno cento persone.
La metro per l’aeroporto non passava mai, per cui avevo deciso di prendere l’altra metro e di raggiungere un’altra stazione dei treni per non perdere quello delle 1.26. Quando arrivo all’altra stazione, le transenne chiudono l’accesso ai treni: è chiusa di notte per lavori. Torno alla stazione della metro, sperando che passi presto una metro per l’aeroporto. Da parte a me c’è una coppia, sono belli si toccano appena e parlano con i loro corpi vicinissimi uno all’altro ed entrambe sorridono tantissimo.
Quando vado in albergo a ritirare i miei bagagli per poi andare a prendere la metro e il treno per arrivare a casa mi accorgo facendo le scale che i miei occhiali sono sporchi. L’impatto della mia faccia sulla sua pelle deve avere lasciato quel segno. Cerco un pannetto per le lenti e pulisco gli aloni.
Sono arrivata in albergo dopo una camminata di oltre mezz’ora. Non pioveva ma l’aria era umida. Avrei potuto prendere la metro fino all’albergo ma volevo camminare, anche se già sentivo che la gola mi faceva male e le narici erano chiuse, segno che il mattino dopo mi sarei svegliata con un bel raffreddore e magari un po’ di febbre. Il labbro inferiore mi formicolava e mordermelo come faccio sempre in queste situazioni era come toccare un taglio ancora fresco. Ho camminato veloce per smaltire tutti i sentimenti accumulati nel giro di quei dieci minuti. Rabbia perchè un anno fa non è stato e magari poteva essere. Rimorso perchè lui ha una ragazza e per quanto psicopatica lei possa essere, non se lo meritava, di nuovo. Eccitazione per quel contatto fugace che ha aperto un vaso di pandora di ricordi seppellito qualche tempo fa e che non pensavo sarei andata a rispolverare. Voglia di rimanere quando invece me ne sarei dovuta andare e basta, saltando quegli ultimi dieci minuti.
Gli ultimi dieci minuti li avevamo passati baciandoci, intensamente e senza curare che eravamo nella via principale. Tra un bacio e l’altro le frasi avevano solo condizionali.
Se vivessimo vicini. Se tu non te ne andassi. Se qualcuno ci vedesse.
I condizionali sono una bella invenzione in queste situazioni. Ci siamo salutati dandoci appuntamento al prossimo incontro di lavoro, che sarà più o meno tra dieci mesi. Un tempo sufficiente a far dimenticare l’accaduto. Da venerdì ad oggi non ne abbiamo ancora parlato, come a cercare di non ammetterlo e perchè in fondo non c’era niente da dire. C’è sempre stata chimica e stare a stretto contatto per quattro giorni l’ha fatto venir fuori. Punto e basta.
Quando mi ha accompagnata fuori dalla discoteca per darmi indicazioni sulla strada da prendere ci stavamo salutando ancora e le ultime parole che sono sicura di avergli detto suonavano come “Vedi, tra di noi è a posto. Quando hai voglia di sentire qualcuno per parlare dei tuoi scazzi dovresti chiamarmi. Sì, dovresti chiamarmi più spesso”. Ma poi ho aggiunto “Forse dovremmo smettere di flirtare e io me ne dovrei andare”. E invece non me ne sono andata. A sentire lui è stata tutta colpa dei miei occhi, lo guardavo come facevo un anno fa. Lui mi ha accompagnato fino alla strada principale, che era a meno di venti metri.
Stavamo ballando assieme ai nostri altri colleghi, la notte era più che piacevole ma iniziava a farsi tardi e se io volevo andare a casa con il sole ancora sotto all’orizzonte era meglio mettersi in marcia in quel momento. Inizio il giro dei saluti, che era piuttosto lungo e quando arrivo a lui mi rendo conto che non ho idea di dov’è il locale, per cui mi serve che l’unico autoctono del gruppo mi dia indicazioni. Lui dice che mi accompagna per un pezzo.
Prima che ci mettessimo a ballare, lo vedo che guarda il telefono continuamente. Approfitto di un momento di calma nella mia conversazione, mi giro e metto un mano a coprire lo schermo del telefono e sorrido. Lui capisce perchè l’ho fatto e mi sorride indietro. Iniziamo a parlare e io rimando alla domanda che gli avevo fatto quattro giorni prima, che era “Come va?” e a cui lui aveva risposto “Chiedimi qualcos’altro”. Adesso era il momento di rispondere. Nel frattempo lui si era praticamente trasferito dalla sua ragazza ma lei, come già sapevamo, è un’adoradrammi, una per cui un giorno è tutto bellissimo e il giorno dopo sono fuoco e fulmini. Lui non è da meno in quanto a complicarsi la vita ma lei batte tutti. Il problema è che lui non è in grado di mettere un punto a questa storia che è un tira e molla da ormai due anni. Perchè è innamorato, perchè avere qualcuno a fianco è meglio che stare da soli, perchè non se la sente. Lui dice che adesso con la sua ragazza è un periodo in cui le cose non vanno bene. In più, dovrà lasciare casa, quella solo sua, a Novembre e non sa come fare e dove andare. Lui però mi chiede come sto io e come va con il mio Amico Stalker. Il mio amico Stalker non mi parla più, sono uscita con un ragazzo che era un’idiota e mi sono invaghita di un altro che è un amico dello Stalker e con cui non è funzionata. Mi serve aria, non vedo l’ora di andarmene e ho conosciuto un ragazzo che vive in Olanda e poi chissà. L’ho detto quasi tutto d’un fiato. Dovevo riassumere tante cose che mi sono successe. E in fondo in fondo volevo fargli vedere come mi ero ripresa anche senza di lui. Lui dice che sono cambiata rispetto alla ragazza innocente che si era fatta vecchia aspettando il Principe Azzurro. Lo prendo come un complimento.
I giorni precedenti a questo sono allo stesso modo densi di successi sul lavoro, di apprezzamenti, di proposte. Ero e sono elettrizzata all’idea dei nuovi orizzonti lavorativi e geografici. Ci sarà l’Olanda ma non solo, e di questo se ne parlerà più avanti quando sarà il momento. Questi giorni di meeting per quanto intensissimi, sono una delle ragioni per cui mi piace il mio lavoro e non solo per quello che ho appena scritto ai paragrafi precedenti.
Un ultimo passo indietro per completare la storia. Appena arrivata, entro nell’albergo e lo vedo di spalle. Il suo aspetto è sempre lo stesso, anche se erano otto mesi che non ci vedevamo. E’ sempre bello. Sorrido e intono “Ehi, laggiù! Come stai? Come vanno le cose?”.
“Ok, chiedimi qualcos’altro”.
Il femminismo ha i giorni contati
Mettiamo le cose in chiaro: non si vuole puntare il dito, accusare o fare delle discriminazioni sulla base di sesso, paese di origine e usi e costumi. Sono a conoscenza del fatto che i clichè sono fatti anche da eccezioni, ma se esistono un motivo ci sarà. Qui, come al solito, si fa della chiacchiera e a questo giro anche un po’ di sociologia spicciola. Che vada bene o no.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata il mio vicino di casa. Questo tizio lo vedo di rado, non sembra uno che si ammazza di vita sociale. Quando l’ho conosciuto, alla giornata dedicata a rimettere a posto il giardino comune, abbiamo parlato un po’ e annoverò tra i suoi maggiori interessi la musica metal, i libri fantasy e i computer, infatti lavora in un azienda qui vicino come ingegnere informatico. Insomma, un dark-nerd senza speranza di remissione. L’anno dopo, sempre a pulire il giardino, è arrivato accompagnato dalla mamma, come l’ultimo degli scolaretti (tra l’altro una mamma un po’ ficcanaso e con la tendenza a mettersi in mezzo e ogni riferimento a mamme italiane è puramente casuale). Se avevo capito bene, la mamma si era anche stabilita in modo non permanente a casa del figlio, che una mano in casa fa sempre comodo.
Ai miei occhi lui era stato archiviato come caso perso. Fino a quando non vedo lui, la mamma e una ragazza ieri passeggiare verso casa. La ragazza e il mio vicino procedevano mano nella mano e lei era una sorridente ragazza dai tratti asiatici, non so dire se fosse Cina, Giappone o Corea del Sud, ma da quelle parti. La mamma, ovviamente reggeva moccoli alla coppietta che nemmeno un candelabro a dieci bracci.
Questo episodio mi ha fatto venire in mente una serie di conversazioni che ho avuto di recente con il mio amico stalker, che è tornato da un viaggio in Giappone. Il mio amico non è esattamente un esperto di cos’è l’amore e la vita di coppia, suppongo che per il suo retaggio culturale non sia andato in giro a “fare cose e vedere gente” ma stia aspettando, fermo nella sua certezza che un giorno arriverà, quella Giusta già fasciata in un abito nuziale e tagliamo la testa al toro. Tuttavia, quando l’amico è tornato dal suo viaggio nell’estremo Oriente era totalmente affascinato da come le ragazze laggiù fossero così “caring“. Per rendere cosa intendesse con questo aggettivo, che ripeteva in modo ossessivo e con occhi sognanti, sembra che lui abbia visto soddisfatti tutti i suoi desideri (nella sfera del lecito!) senza nemmeno esaudirli e queste ragazze facevano tutto questo paradiso in terra con un sorriso in faccia e gentilezza a carrettate.
Così, quando il poveretto è tornato in Svezia e si è ritrovato in mezzo al mondo del fai-da-te-che-fai-per-tre, dove nessuna ragazza al mondo ti degna di uno sguardo e tanto meno si sogna di farti un sorriso, ha subito uno shock culturale al contrario. Ha iniziato a lodare il Giappone e a sputare sull’equità Svedese in cui a volte non si capisce bene chi sia l’uomo e chi la donna. Perchè, siamo chiari, il mio amico (uomo) ha avuto parola d’oro per ste Giapponesi che lo incensavano ma non ha potuto dire lo stesso dei ragazzi, che invece erano un po’introversi e non così caring, mannaggia a loro.
La ragione del suo viaggio in Giappone non era fare esperienza della gentilezza nipponica, ma accompagnare un suo amico in un viaggio in cui avrebbe rivisto la sua fidanzata, Giapponese ovviamente, incontrata qui in Svezia e ora ritornata al paese d’origine. Non entrerò in dettaglio di ciò che sono venuta a sapere sulla relazione ma il mio amico ha riportato quanto lei fosse prodiga in offrirsi per massaggiare mani e piedi quando il suo lui era stanco, senza volere mai niente indietro. Il suo ragazzo, Svedese, accettava questi servigi ma alla lunga è venuto a domandarsi se fosse lecito o meno e soprattutto se non fosse il caso di ricambiare il favore.
Potrei andare avanti per pagine a citare esempi di ragazze che ho conosciuto qui in Svezia che facevano l’impossibile e il più che impossibile per far contento lo stronzo di turno, che magari se ne approfittava e prendeva il benefit senza dare niente in cambio, ne un gesto fisco e nemmeno un sentimento.
Innumerevoli volte mi è capitato di sentire altre persone tessere le lodi di queste paladine del faccio tutto io (mentre io mi sono dovuta sbattere per far capire ad ex morosi che i piatti non si lavavano da soli) anche da insospettabili uomini tutti d’un pezzo di legno massello made in IKEA.
Il mio dubbio a questo punto, è che magari a ‘sti Svedesi uomini gli abbiamo stracciato le palle con il femminismo, l’uguaglianza dei sessi (jämställdhet), con l’obbligo di dividere i giorni liberi per la gravidanza tra la madre e il padre, facendogli accollare di fatto le cure del bambino e non delegando il cambio del pannolino alla vaginomunita di turno. Che sia per questo che si invaghiscono di occhi esotici che gli massaggiano i piedi e che hanno sempre tutto dove deve essere, pronte a scattare per il più insulso desiderio di questi uomini che si sentono proprietari del proprio fallo solo se c’è qualcuno che si riduce a qualcosa che vale meno di loro?
Questi non sono uomini ma maccheroni.
Amica G.
Nella vita, le amiche femmine io le posso contare sulle dita di una mano, forse due.
Fin da quando ero un’adolescente ho sempre preferito la compagnia dei ragazzi, un po’ perchè era facile ricevere le loro attenzioni e un po’ anche perchè i ragazzi sono meglio. Credo di non scoprire niente che vi farà cadere dalle sedie se dico che i ragazzi sono in generale abbastanza semplici da capire, del tipo che ad azione corrisponde reazione, seguono i principi di fisica classica: tu mi piaci, ergo ci provo; tu non mi piaci, ergo io ti parlo delle mie storie; tu sei stata stronza con me, ergo fottiti.
Le ragazze invece sono un campo in cui al CERN ancora ci stanno sbattendo la testa. Fisica quantistica allo stato puro.
Intanto, la descrizione dello stato delle cose dipende dal sistema di riferimento. Perchè, cioè, Lara mi ha detto che Lisa ci ha provato con Luca davanti a lei. Però Lisa, davvero, dice che Luca ci ha provato con lei e Lara era dietro e ha visto tutto. Un bordello, gente. Mille variabili, eccezioni e spesso è troppo cervellotico per apprezzarne davvero l’insieme per cui ci si accontenta di carpire l’essenza di un momento, certi che il futuro sarà volubile.
Come faccio a saperlo? Bè, innegabilmente io sono una di loro e proprio per questo mi rendo conto dei limiti di questo sistema e che per avere una cognizione delle cose ed essere felici è meglio rimanere sulla fisica classica, per quanto limitata possa essere.
(Non so se essere contenta per questa introduzione o se dovermene vergognare da quanta secchionità trasuda)
Nonostante le mie teorie pseudo-scientifiche, anch’io ho qualche amica donna e la sorte ha voluto che per tre di loro il nome fosse lo stesso. G.
In ordine cronologico, la prima G. non ha fatto un esordio grandioso nella mia esistenza. Andavamo al corso di danza insieme e per chissà quale ragione lei e un’altra ragazza mi avevano preso di mira per i loro scherzi. Intendiamoci, niente che mi abbia ferito nel profondo ma quando si ha una decina d’anni e poca dimestichezza con il mondo reale (immaginatemi come la bambina de “La casa nella prateria”), allora non si hanno tutti gli strumenti per fronteggiare gente simile. Dopo qualche anno, per merito dell’altra G., io e questa G. siamo diventate amiche. Nonostante le tante notti passate a dormire in quattro in un letto a casa sua e le estati e le vacanze passate insieme, io e la G. siamo sempre rimaste amiche ma non Amiche. Con lei era difficile confidarsi, forse perchè la sua aria matura da sempre metteva un po’ di soggezione e i miei “problemi” sembrava che l’annoiassero.
Lei è la figlia del dottore e per chiunque venga da un paese piccolo va da sè che la figlia del dottore è di un’altra categoria. Fu così che appena dopo i venti le nostre strade si divisero, ci si vide sempre meno fino a che un giorno non ci si salutammo nemmeno più. La puzza sotto al naso (rifatto!) deve avere contagiato anche lei e adesso le poche volte che torno a casa la vedo seduta al bar con i suoi e il cane. G. ha avuto pochissimi morosi, almeno che io e l’altra G. sapessimo, e mi sono sempre chiesta perchè non faceva l’adolescente come tutte noi. Di recente l’ho vista in foto su Facebook con il bello del paese vicino, agognato oggetto del contendere di tutte le squinzie di paese dieci anni fa. Lui è sempre carino, ha la piazza in testa ma poco importa. Sembrano felici e io sono forse non contenta per loro, ma almeno sollevata, come quando vedi la fine di un film di cui poco ti importa e ti accerti che tutti vissero felici e contenti.
L’altra G. è arrivata dopo a quella qui sopra ma lei è rimasta. La G. è una di quelle che da sempre si è infilata in ogni psico-dramma possibile e immaginabile. Lei era ed è molto bella e per questo si è sempre guadagnata tante attenzioni dai ragazzi. Quando ancora minorenne, gli appena maggiorenni le correvano dietro e lei si lasciava trascinare in queste storie fatte di macchine (quando io ero in piena fase motorini, ma a volte neanche quelli!), fatte di scomparse misteriose, fatte di dettagli che elargiva a larghe mani chiedendoci consiglio su che fare. Consiglio su cose che noi non avevamo nemmeno idea che esistessero. Lei è stata un po’ il mio Bignami al sesso e per questo la ringrazio.
La G. chiedeva sempre consigli perchè lei era ed è molto insicura. Si è sempre fatta mille paranoie sul suo fisico e su come le altre persone la percepissero. Non stupì che si mise assieme a un ragazzo, che noi chiamammo “il re dei bellissimi”, ma che bello non era e che invece era così sicuro di sè al punto da tirare al lotto e riuscire a mettersi con la G.. Questo fidanzato durò per quattro o cinque anni, in cui io e la G. non ci vedemmo tanto perchè lui era uno un po’ snob, non piaceva ai miei amici (maschi) e perchè lui non era bene per lei. Il suo essere più forte di lei la rendeva succube delle sue pressioni che la trasformarono nel fisico e nell’aspetto, diventando un’altra G., non quella che mi chiedeva numi sulla pugnetta, ma che era anche lei diventata parte di quella cerchia ristretta di gente che fa le vacanze a Forte e che va a sciare a Cortina a Natale. In quel periodo, nelle rare volte che ci vedemmo lei riuscì a combinarmi con un amico del suo ragazzo che mi rivelò che anche lui non lo sopportava e forse per quel sentimento comune diventò il mio ragazzo per qualche tempo.
La G. poi mollò il suo ragazzo. Ci vedemmo dopo tanto tempo e ci eravamo date appuntamento al bar del paese. Saremo state sedute lì a parlare per mille ore. Io pensavo di andare a incontrarla e raccattare i cocci di quella G. costruita e invece me la ritrovo a raccontarmi di essere andata a mangiare l’anguria con uno che votava Rifondazione Comunista e che nel frattempo andava a letto con un altro ragazzo e come se non bastasse si mise a consolare me, per le mie disgrazie amorose. La mia vecchia G. non sarebbe mai più tornata. Lei è sempre stata confusa e un po’ svanita ma le voglio bene proprio per questo. Le voglio bene perchè lei riesce a parlare di vestiti di Zara e di politica interna con lo stesso tono e la stessa convinzione. Adesso la G. fa coppia fissa con uno alla soglia dei quaranta con cui ha pochi interessi in comune ma per qualche misteriosa ragione ci sta bene insieme e per me è a posto così.
Da qualche mese ne ho incontrata un’altra di G., quassù tra i ghiacci. Con la nuova G. è stata un po’ una “bromance“, ci siamo incontrate e ad entrambe serviva un’amica, per cui ci siamo scelte a vicenda. Da quando G. è in giro ho una valvola di sfogo per tutte le mie frustrazioni affettive, lei ascolta e mi dà consigli. Io faccio lo stesso con lei. La G. si vede che è un po’ in crisi perchè vorrebbe una vita da cartolina, con un marito, dei figli, una casetta, ma non riesce a trovare quello giusto. Lei si guarda attorno, anche troppo, ma niente. Anche lei, come tutte le G. di cui sopra è bella ma questo non sembra aiutarla, anzi, anche lei si fa mille complessi per il suo fisico e non riesce a togliere di dosso gli occhi alle Svedesi, dicendo che sono perfette. Io che forse vedo la vita a tinte un po’ più rosa, concordo sul fatto che siano belle, ma a parer mio sono come i cinesi: alla fine del giorno ne hai incontrata una che assomiglia a tutte le altre e che domani non saprai più distinguere in mezzo a tutte queste bambole. Invece, la mora spicca tra la folla ed è l’eccezione.
(Ecco, questa teoria sta in piedissimo sulla carta. In realtà ci sono mille eccezioni (fisica quantistica?) ma per il momento passatemela così)
La G. è quella che mi ha fatto notare che Lonely Boy forse è gay e lei dice che Legit ci sta provando con me nel modo di provarci Svedese ma dice anche che non sembra uno che ha voglia di rimanere a fare colazione, per cui io devo fare i miei conti prima di buttarmi. Io e lei non sappiamo metterci il rossetto e ogni volta che usciamo ci complimentiamo l’un l’altra per i progressi fatti nell’applicazione di questo maledettissimo stick. Io non so come andrà a finire con questa G., intendo se tra dieci anni io vorrò scrivere un pezzo su un blog per lei o se tra sei mesi non mi ricorderò più nemmeno che faccia ha. Comunque per adesso siamo qui e ci siamo tutt’e due.
Non lo sapevi che il nerd è il nuovo dandy?
Bè, in tal caso, sapevatelo.
Quando pensi che la Svezia e il buco di culo in cui vivo non abbiano più niente di nuovo da offrirti ecco che arriva l’esperienza definitiva che ti farà rimangiare quello che hai detto.
Piccola premessa. Io non è che mi lamento di questa cittadina in cui sono finita, ci sono i suoi pro ma ci sono anche i contro. Un grosso contro è che i pub sono contabili sulle dita di una mano, forse due, e alla fine va che scegli un pub in cui vai sempre e in cui il barista sa già cosa prendi e si preoccupa se non ti vede per due settimane.
Ma non ieri sera. Mi è stato svelato il segreto che nello scantinato della facoltà di fisica ogni mercoledì sera gli studenti organizzano un pub.
Ebbene sì, il posto più di tendenza in cui andare al mercoledì sera è uno scantinato a fisica. Con un sacco di fisici, perchè l’ingresso non è pubblico ma devo conoscere qualcuno dentro al pub che ti viene ad aprire. Nemmeno fosse una loggia massonica!
Nonostante io non faccia parte della categoria avevo un aggancio che aveva un aggancio e come Alice nel paese delle meraviglie siamo caduti nel tunnel e alla fine c’era questo mondo all’incontrario.
Adesso, io ho la mia buona dote di nerd ma nella mia vita, tutti i fisici che ho conosciuto non erano questi adoni. No, errore. Uno di recente mi ha conquistato dicendo “Ma tu abiti dive c’è un sincrotrone!”, ma questa è decisamente un’altra storia. Comunque, a parte rare eccezioni e con un buon quantitativo di pregiudizio inculcatomi nella testa da troppi episodi di “The Big Bang Theory” mi sono acclimatata nel salotto underground della fisica che conta.
E com’era?
Un posto come un altro. Magari non consideriamo l’altissima densità di gente con la maglietta dentro ai pantaloni e quelli con le magliette in coordinato del laser show. E un forte sentore d’autismo quando è venuto il momento di mettersi in coda per prendere una birra, con la fila che iniziava non davanti al bancone ma da parte. Senza parlare delle birre mai viste (e del mio sidro che aveva sull’etichetta un personaggio mitologico che assomigliava a un hobbit).
Ecco, magari non proprio un posto come un altro.