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Before midday
Triangles are my favourite shape: three points where two lines meet.
Se hanno fatto tre film che si chiamano, nell’ordine, Before sunrise, Before sunset e Before Midnight, allora io posso scrivere un post con questo titolo, Before midday. Perchè la storia finisce a mezzogiorno, perchè è la storia di due persone, un lui e una lei, perchè uno è una vecchia conoscenza di questo blog e quando si parla di lui si parla sempre di film.
Notturno, esterno. Una grande costruzione grigia e austera sullo sfondo. Lei sta di fianco alla sua bicicletta, si guarda attorno. Ha un mezzo sorriso in faccia, lo stomaco in subbuglio da ore. Sta pensando che arrivare in anticipo agli appuntamenti le è sempre piaciuto, le piace quel guardarsi attorno, cercare di indovinare la direzione da cui la persona arriverà, vedere un puntino lontano che si avvicina: guardarlo, abbassare lo sguardo e sorridere.
Un urlo e due mani arrivano da dietro e la prendono di sorpresa. Lei si gira, è lui. Si abbracciano, come l’ultima volta, con le costole che le sembrano destinate a rompersi in quella presa forte. I primi minuti sono d’imbarazzo, sono passati sei mesi dall’ultimo incontro e le cose da dire escono in ordine sparso, una sull’altra, come se non ci fosse già tempo a sufficienza e troppe parole da dirsi.
Interno, bancone di un locale affollato, musica e chiacchiericcio di sottofondo. Lui e lei ordinano delle birre in bottiglia e si fanno dare due bicchieri. Lui in uno slancio di cavalleria prende le birre e i bicchieri e si avvia verso il tavolo. Assieme ai bicchieri lui prende anche il vasetto delle mance, lei cerca di fermarlo ma non è in grado di proferire parola. Ride, come non rideva da mesi a questa parte, una risata bonaria, cristallina, il suono rotondo che fluisce, circola, ricircola e contagia. Anche lui.
Interno, camera di lei, è nel letto, sola. Si sveglia e ripensa al sogno che ha fatto, uno di quei sogni che ti prendono di prima mattina, che non sai mai se ti sei già svegliata o se sei ancora sotto le coperte. Sa che quello che ha sognato non succederà, ride perchè il suo subconscio non ci è ancora arrivato.
Esterno, davanti a casa di lei. Lui arriva con il suo zaino, l’ultima notte avrebbero dovuto passarla insieme in una città vicina ma all’ultimo momento i piani sono cambiati e lui passerà la notte da lei, su un materasso di fortuna. Arriva alla porta con un sorriso e un bacio sulla guancia per lei, di quelli che le labbra schioccano sulla pelle, sotto lo zigomo. Lui entra, sale le scale e si siede al tavolo e beve un bicchiere d’acqua, giusto il tempo per rischiarare la voce e ricominciare a parlare con lei. Continueranno a farlo per le prossime sei ore.
Esterno, stazione dei treni, poche persone sulla banchina, un ragazzo con la giacca di jeans è seduto su un gradino. Lei lo conosce e lo saluta, il ragazzo fa lo stesso ma è alterato dall’alcol. Iniziano a parare in attesa del treno che arriverà da lì a poco. Il ragazzo ha un forte accento francese che, unito all’alcol, rendono la comprensione delle sue parole difficili. Il ragazzo fa qualche domanda di circostanza a lui e poi chiede “Why are you leaving?“. O almeno entrambi, lui e lei, così capiscono e poco importa che la domanda fosse in realtà “Where are you living?“. Lui risponde “Perchè ci sono delle persone che mi aspettano”, lei soppesa quella risposta e pensa che non le dispiacerebbe se lui non partisse affatto, ma lui questo non lo sa.
Interno, locale affollato, lui e lei sono in piedi con una birra. Parlano di una cosa farebbero se incontrassero una persone uguale in tutto e per tutto a loro. A volte fanno queste conversazioni senza senso, ma le portano avanti con serietà, come se quello fosse un problema che li riguarda quotidianamente, che è bene discuterne e risolverlo. La loro concitazione deve aver attirato l’attenzione di alcuni ragazzi seduti lì vicino che si alzano e vengono a parlargli. Lui si ritrova una bionda un po’ chiatta con degli occhiali senza lenti, lei ha un tizio bassino con i rasta e un anello al naso dalle dimensioni preoccupanti. La marcatura è a uomo, i due figuri cercano di separarli. Sia lui che lei sono in imbarazzo. Dopo qualche minuto entrambe le conversazioni languono, lui e lei con la birra ormai finita ad un segno complice decidono di abbandonare il campo. Il ragazzo chiede a lei il numero di telefono, lui dà a lei dei colpetti con il gomito come un gesto d’intesa. Lei deve mantenere un certo aplomb e non scoppiare a ridere mentre salva quel numero, che non userà mai.
Interno, stazione dei treni sotterranea. Lei dice che quella stazione si chiama Triangolo e che a lei fa molto ridere l’architettura della stazione. Lui dopo poco realizza che è pieno di triangoli, ovunque, all’interno, all’ingresso, sui muri. Quasi subito arriva il treno. Lui e lei salgono e continuano a parlare, tanto per cambiare. Lei chiede quando sia il suo compleanno perchè lui non le ha mai voluto dire il giorno esatto e continua a non volerlo fare. Spiega che la ragione di questo segreto è che delle persone a lui care si sono dimenticate di fargli gli auguri, una volta fu una sua ragazza, un’altra volta sua sorella se ne dimenticò, da allora non vuole che si sappia di questo giorno e che se può si rifugia in un posto isolato in cui stare da solo. Lei pensa alla fragilità di lui nascosta sotto l’apparenza di un ragazzo normale, a quelle zone sensibili che lui le ha già mostrato alcune volte, al suo evitare le delusione proprio perchè evita di mettersi in condizione di averle, le delusioni. Lei pensa che gli regalerebbe una scatola con 31 pacchetti, uno per ogni giorno del mese, così non potrebbe dimenticarsi del suo compleanno. Lei pensa anche che non ce ne sarà bisogno.
Interno, casa di lei, camera da letto. Lui e lei sono appena tornati ed è il momento di cambiarsi e andare a letto. Vanno in bagno a turno, lei è un po’ imbarazzata, non hanno mai condiviso una camera prima d’ora. Lui dormirà su un materasso di fortuna ai piedi del letto di lei che lascia poco spazio per muoversi nella camera. Quando lei torna dal bagno lui è già avvolto nelle coperte, sul materasso ai piedi del letto. Dopo gli ultimi accordi per il risveglio al mattino successivo spengono le luci. Lui si rigira nel letto. Lei pensa a cosa succederebbe se si alzasse e si infilasse sotto le coperte sul materasso ai piedi del letto. Dopo pochi minuti lei dorme.
Interno, casa di lei, cucina. Lui e lei stanno facendo colazione, lei guarda l’orologio. La conversazione la mattina è più lenta e scattosa rispetto al fiume in piena dei due giorni precedenti. A un certo punto parlano anche del tempo, forse complice la pioggia che batte forte sui vetri della finestra. Lei guarda l’orologio perchè il treno per l’aeroporto parte a mezzogiorno, mancano una ventina di minuti, giusto il tempo necessario perchè lui corra alla stazione. Lei glielo fa notare, dice che non vuole buttarlo fuori di casa ma che se vuole prendere quel treno deve andarsene ora. Lui si alza dal tavolo e in tutta tranquillità lava i denti, non prima di aver raccontato una storiella divertente sul dentifricio che è solito usare, raduna le poche cose che aveva lasciato ancora in giro, infila la giacca e prende un ombrello che lei gli offre per ripararsi dalla pioggia. Lui le promette che gli restituirà l’ombrello quando lei andrà a fargli visita. Lei lo accompagna giù dalle scale fino alla porta, si abbracciano, le costole vacillano come al solito, lui fa per andare, poi torna, le scocca un altro bacio sulla guancia e infine se ne va. Lei chiude la porta e risale le scale, guarda fuori dalla finestra ma lui ha già voltato l’angolo della strada e non si vede più.
Matt Berninger, prega per noi
I wanna hurry home to you
Put on a slow dum show for you
and crack you up.
So you can put a blue ribbon on my brain
god I am very very frightened
I’ll over do it.
Se dicessi che le canzoni sono dei piccoli vasi di Pandora dentro a cui ci vanno a cadere momenti speciali, direi una banalità. E infatti l’ho detta. Mannaggia!
Sarò così prevedibile perchè mi arriva poco ossigeno al cervello visto che è da mesi che sono già in iperventilazione perchè questo sabato, finalmente, vado a vedere, sentire, cantare i The National.
Chi hai detto che vai a sentire? I The National. E chi sono, di grazia?
Io non so se i The National sono famosi in Italia, se MTV li ha mai passati o anche una radio qualsiasi. Comunque i The National sono, a mio modesto parere, una delle band migliori che gli anni 0 abbiano visto. E, ovviamente, una band che ha segnato nel bene e nel male questo ultimo anno e mezzo.
Per ragioni fumose che anch’io fatico a spiegarmi, come vedevo la copertina di High violet (il loro penultimo album) apparire nel lettore di Spotify io mandavo avanti la canzone senza possibilità di redenzione, per cui ho dovuto aspettare fino a quando sono capitata per caso ad ascoltare Brainy, che è di un altro album, un pomeriggio qualunque poco prima di Pasqua 2012. (You know I keep your fingerprints in a pink folder in the middle of my table) Fu quella batteria dominante e che cambia in continuazione che mi ha trascinato dentro il baratro dei The National, facendomi passare anche la paura fottuta per le canzoni di High violet, chè tanto ormai era uscita anche la exteded version che aveva una copertina che mi creava meno repulsione immotivata.
Il caso vuole che proprio in HIgh Violet ci fosse una canzone intitolata England (You must be somewhere in London, you must be loving your life in the rain) e chi è che sarebbe partita a giorni per una vacanza (che poi si rivelerà tragicomica) a Londra? Io, of course. E non potevo per nessuna ragione al mondo lasciarmi scappare l’occasione di avere una colonna sonora semi-personalizzata per una quattro giorni con un mio amico invaghito di me e quello che la ggente crede che sia il mio ragazzo (e che invece è solo un caro amico che si è ritrovato, sapendolo dall’inizio, a fare da chaperone). Mi ricordo che quando arrivavo in albergo (una stanza in una casa vittoriana a Bayswater con il pavimento in pendenza) distrutta da una giornata in giro mi coricavo a letto mi mettevo nelle orecchie i The National, per isolarmi per un momento da quel mondo di chiacchiere che dopo quei giorni di compagnia forzata iniziavano a diventare un po’ vuote di significati.
Una volta tornata a casa ho continuato ad ascoltarli e ad apprezzarli sempre di più, ascoltanto prevalentemente i loro tre album più recenti, High Violet, Boxer e Alligator.
Proprio da Alligator viene un’altra canzone in cui sono inciampata. Era in Olanda, avevo avuto una giornata pessima al lavoro e lui sarebbe arrivato da lì a poco a casa mia. Mi ero sdraiata sul letto, ero stanca e nervosa perchè avevo l’ansia da prestazione per quella serata, avevo lasciato acceso Spotify con l’impostazione radio, quella che più random non si può!, e inizia questa canzone (Oh come, come be my waitress and serve me tonight, serve me the sky tonight) La ascolto impegnandomi perchè non voglio perdermi nemmeno una nota, perchè era esattamente la musica che volevo sentire in un momento come quello, anche se non avevo idea di che canzone fosse. Non faccio in tempo ad andare a controllare il titolo che suona il citofono. E’ arrivato.
Quando sono ritornata in Inghilterra questa primavera mi è sembrato ovvio rispolverare la vecchia colonna sonora che tanto aveva dato soddisfazioni l’anno precedente, per cui mi sono fatta proprio una playlist che si chiama “England”, la fantasia proprio.
Il caso vuole che durante un film con il Belga (il Belga! Guarda chi andiamo a rispolverare…) la canzone finale del film su cui se hai un cuore da qualche parte ti viene un magone infinito e su cui scorrono i titoli di coda (che ci siamo visti tutti fino all’ultimo dei truccatori) era questa (Don’t leave my hyper heart alone on the water, cover me in rag and bones. sympathy. cause I don’t wanna get over you). Da allora questa canzone che già è tristissima di suo, ha guadagnato il gusto extra dell’atmosfera di quelle settimana, di un’amicizia che, va be’, mi ha fatto stare bene e mi ha fatto pensare parecchio. Alle opportunità, al coglierle, allo sprecarle.
Come se questo non fosse sufficiente per far capire che la mia grama vita e quella dei The National tutti sono legate a doppio filo, quando sono ancora in Inghilterra, poco prima che i fantasmi Olandesi ritornassero, i The National rilasciano ben due singoli del loro nuovo album (Cannot stay here I can’t sleep on the floor, drink the blood and hang the palms on the door, do not think I am going places anymore, wanna see the sun com up above New York) Da lì a poco seguirà un album, che purtroppo non amerò incredibilmente come i precedenti, quelli con le canzoni che canto ad alta voce sulla via di casa, che tanto non incrocio mai nessuno, e quelle volte che succede gli sorrido e continuo sulla mia strada. L’unica che salvo è forse (I am having troubles inside my skin, I try to keep my skeletons in, I’ll be a friend and a fuck up and everything but I’ll never be averything you ever wanted me to be. I keep coming back here were everything… slipped)
Sto notando che con il continuare di questo post le citazioni delle canzoni diventano sempre più lunghe, quindi è forse il caso di piantarla qui prima che diventii, più di quanto già non sia ora, una lunga lista di dediche da Smemoranda.
Matt Berninger, io ti vengo a vedere questo sabato. Per favore, tu apri tutti i vasi di Pandora che trovi. Non avere pietà. Chè in questo periodo un po’ grigio ho bisogno che mi rimescoli dentro tutte le emozioni di questi mesi passati insieme.
(In tutto questo sproloquio non ho commentato la canzone iniziale, Slow show, che secondo me è la più onesta dichiarazione d’amore (se, e dico SE, l’amore esiste) che si possa mai fare)
31 Novembre?
Che scherzi sono questi? Se c’è stato un mese che ha brillato per inutilità e incompiutezza quello è Novembre. Come se non bastasse, è passato in un battibaleno!
Ricapitoliamo.
Inizia il mese in cui mi divido tra lavoro, paturnie per mio precedente uscente che mi usa come un rimpiazzo per la sua bella che era in trasferta per una settimana e il corso di svedese che mi succhia 5 ore (5!) a settimana e che rimane costante per tutto il mese. Dopodichè c’è la puntata in Italia con tanto di caduta di Berlusconi in sincrono al mio ritorno e festa amara. Quindi torno in Svezia e iniziano i sintomi influenzali, conosco il canadese e quando lui si intrufola in una serata con i miei amici, io sono dolente e piangente in una valle di cleenex con la febbre. Ad oggi: non più pervenuto. Quindi mi rimetto in salute e ritorno a lavorare per finire questo cavolo di articolo che coprirà tutto lo scibile delle moderne biotecnologie: dall’alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno! E chissà chi se lo pubblica… Scadenza immaginaria a Natale, che mi dà 10 giorni buoni di lavoro per mettere un punto a questa pagina ignobile della scienza moderna, la quale non solo è approssimativa e basata sul caso ma è anche infarcita di tutto il peggio del mondo universitario (sì, anche in Svezia!). Ma di questo se ne parlerà semmai un’altra volta. Dicevo, torno al lavoro, vado al concerto del mese e sudo tantissimo che di sicuro non mi fa bene e poi finisce il mese con meeting di sangue di due ore con il boss che invece di mettermi sulla retta via mi sprona a sviarmi. E poi eccoci qua! Alle porte di Dicembre con le stesse paturnie di Novembre, meno luce e un mese in più sul groppone.
Nota positiva: ho messo le luci alle finestre. Luci IKEA d’ordinanza usate in modo improprio con effetti speciali. Come al solito: stile svedese + gusto italiano = pollice in su!