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Però quel matto mi conosce perchè ha detto una cosa vera

La primavera è da sempre tempo di amorazzi ma quest’anno no. Quest’anno è arrivata La Persecuzione.

Penso di essermi lamentata a sufficienza di quanto sia piccolo un posto in cui ci sono sì e no centomila abitanti. Il problema è che di questi centomila ho come l’impressione di imbattermi sempre nella solita ventina di persone. Chè poi alla fine non è vero, perchè quelle due volte, due di numero, in cui mi è capitato di incontrare qualcuno di interessante questi sono spariti per sempre nella troposfera e tanti saluti.

Comunque, posso lamentarmi (inutilmente) finchè voglio ma se adesso c’ho La Persecuzione è per un buon 80% colpa mia. La mia attitudine alla vita è un po’ quella di Candy, che non capisce che in orfanotrofio la trattavano una pezza, che Anthony muore ma lei corre per le colline ad ogni santissima sigla. E sono abbastanza convinta che essere Candy nella vita sarebbe perfetto se solo gli alberi fossero di zucchero filato, i fiumi di succo di mirtillo e la terra fosse cioccolato. Ma la terra è fatta di terra, gli alberi di foglie e i fiumi di acqua fetente, quindi Candy alla fine va a casa irrimediabilmente con le pive nel sacco.

Appurato che per l’80% è colpa mia, bisogna pur spiegare di chi è il restante 20% di colpa.

Una settimana fa ero al pub con amici e ho malauguratamente abbandonato la giacca su un attaccapanni. Il caso vuole che davanti all’attaccapanni si va a sedere un tizio alto, niente male, con un accento esotico: la suddetta Persecuzione. Quando vado a riprendermi la giacca ne approfitta per iniziare una conversazione. Se al primo momento il buon senso di non dargli corda stava prevalendo, ho perso ogni controllo della mia volontà quando mi ha detto che era Irlandese. Ci sono quelle nazioni per cui abbiamo dei preconcetti tali per cui siamo convinti che adoreremo qualsiasi suo abitante e per me uno di quei pochi angoli del mondo è l’Irlanda. Dopo qualche minuto mi accorgo che il suo amico che sedeva affianco non sembrava proprio l’anima della festa e quindi mi dico “dai, povero Irlandese che si è appena trasferito qui, non lo posso far morire di noia ma devo assolutamente parlargli per infondergli gioia e ottimismo in questa terra inospitale”. Perchè farsi i fatti propri certe volte per me non è un’opzione.

Oltre ad avere problemi con il concetto di “fregatura” e “generosità” sembra che abbia qualche problema con il concetto di “ironia”. Perchè io avrei potuto accorgermi di quale cul de sac stavo imboccando se avessi dato peso ad elementi della conversazione che emergevano fin dall’inizio.
Come quando io ho fatto una battuta sui complottismo dilagante e lui ribatte che Google e Facebook ci spiano e che ne dobbiamo parlare piano perchè lui ha dei segreti da rivelare. Era una battuta? No.
Come quando mi dice che lui ha brevettato dei programmi per proteggere la privacy di tutti i computer privati ma l’NSA li sta osteggiando. Era una battuta? No.
Come quando dice che l’anno prima lo ha passato a lavorare per un’impresa caritatevole. E io me lo immaginavo in una landa sperduta a scavare pozzi in mezzo a bambini festanti e invece dopo si scoprirà che era a fare il tuttofare per una santona in India che ha millemila proseliti. Era una battuta? No.

Però quando i miei amici sono usciti e io aspettavo che finisse la birra per andarli a raggiungere assieme a lui in un altro locale, non avevo messo insieme ancora i pezzi del puzzle. Tutto è diventato molto più chiaro all’entrata dell’altro locale, quando il buttafuori gli chiede la carta d’identità e lui si rifiuta di mostrargliela. Perchè è chiaramente più vecchio di 24 anni e perchè, cito, “sono le persone come voi che seguono le leggi senza pensare al loro significato che danno origine alle dittature”. Di tutti i posti per fare una filippica sulla politica e il lavaggio del cervello del mondo moderno bisogna proprio scegliere l’ingresso di un locale e dei buttafuori che non vedono l’ora di tirarti un cartone in faccia visto che sono sotto la pioggia battente da tre ore? Sì, di tutti i posti bisogna proprio scegliere quello, a quanto pare.

Se il buon senso di cui sopra avesse avuto il sopravvento almeno a questo punto, lo avrei salutato e sarei entrata nel locale. Però. Però in quel momento di indecisione ho pensato che non la potevo dare vinta ai buttafuori rissosi, anche se il mio destino era di rimanere sotto la pioggia con uno che iniziava a dare i primi segni di squilibrio, non potevo schierarmi con gli uomini in divisa. E all’urlo mentale di Hasta la revolucion siempre siamo andati a ripararci dalla pioggia in un bar vicino.

Lì, con i capelli e i cappotti zuppi, in un piccolo remake dell’ultima scena del Titanic, deve essergli partito l’embolo di fare lo psicologo perchè ha iniziato a dirmi una serie di cose che sì ce lo avevano un capo e una coda, ovviamente mischiate a boiate pseudo-spirituali, giusto per confondermi e vedere se ero attenta (tipo che mi chiede se ero nata nell’87 perchè il suo astrologo dice che quelli dell’87 hanno un’alta affinità per lui. Tuttavia è possibile che i miei ascendenti/congiunzioni astrali/Saturni in case sfitte possano essere un’eccezione alla regola).

Di vero, mi ha detto che sono una che è molto “choosy“, e non penso si riferisse alla Fornero e al mercato del lavoro. Dice che deve aver detto o fatto qualcosa di sbagliato (vuoi una lista? c’è sopra) e che mi sono persa in mezzo ai miei dubbi e a chissà quali pensieri.

Di vero, mi ha detto che secondo lui per un micro-istante mi ha visto che ero interessata.

Divero, mi ha chiesto qual era la mia storia, cosa mi era successo per farmi diventare così esigente. Io non ho voluto rispondere per non riversare sulle spalle del primo sconosciuto con le rotelle un po’ mischiate le mie storie para-adolescenziali, uguali a tante altre. Dice che secondo lui non sono stata lasciata all’altare e non sono un damaged good ma che c’è qualcosa che mi blocca. E allora una risposta un po’ più seria gliela do, per lo sforzo che ci sta mettendo o perchè è solo fortunato e sta andando a toccare tutti i tasti dolenti che ci sono: gli dico che mi affeziono alle persone tanto e troppo in fretta e poi faccio fatica a metterle via quando le strade si separano. Che è un po’ la verità e un po’ un modo per dirgli che non ce n’è.

Mi ha lasciato il numero che non ho mai usato e la serata è finita lì.

Non fosse che vivo in un buco di culo. Il fine settimana dopo lo ritrovo allo stesso pub (ci sono due pub in questo posto dimenticato da dio), allo stesso identico posto di dove l’ho incontrato e quando faccio per raggiungere i miei amici dopo averlo salutato alla svelta mi manda a quel paese, va a parlare con la mia amica in coda per il bagno e le chiede chi sono quelli seduti con noi, e, per un revival degli escamotage da scuola media, mi urta mentre sono al bancone per una birra.

Prendersi un fuck you gratuito e una mezza spallata da uno che se pure c’ha visto bene si staglia come un personaggio da neurodeliri non mi avrebbe disturbato, fino a quando non l’ho visto in palestra. Cielo. Si dirigeva verso il corridoio da cui io stavo uscendo non lasciandomi scampo ma la mia volontà di non incrociarlo è stata talmente forte che ho fatto uno di quei numeri da Pantera Rosa, di quando ti appiattisci dietro uno stipite, lasci entrare la persona e poi ti svicoli alle sue spalle. Tutto con molta nonchalance, come se lo facessi ogni giorno.

Le possibilità di incontrare La Persecuzione in ogni angolo possibile di questa cittadina sono ancora alte ma io ho visto un sacco di episodi della Pantera Rosa e sono determinata a usare tutti i trucchi che conosco per non dovermi sentir dire cose che già so di me. Anche se il giorno dopo quell’incontro ero un po’ provata nel bene e nel male, chè la verità brucia sempre un po’ sulle ferite scoperte.

Epigrafe da un appartamento Irlandese

(Dovevo scrivere dell’appartamento Albionese, chiudere il capitolo, ma altro è successo. Tornerò quanto prima sul seminato. Oggi purtroppo scrivo questo.)

Correva l’anno 2009. Erano i prodromi dell’Appartamento Svedese Erasums mode e io avevo deciso che dovevo imparare l’Inglese. Ma visto che andare ad una scuola estiva era troppo da brava ragazza, decisi di andare a lavorare in un ostello in Irlanda. Se già questa scelta può sembrare bizzarra, verrà definitivamente ricategorizzata come “bislacca” se l’ostello di cui sopra si trova in un’isoletta in mezzo all’Oceano Atlantico.

Zaino in spalla partii per tre settimane. Il posto era un sogno: l’ostello dava sul porto della cittadina e sulla via per raggiungere la cucina dove facevo colazione passavo per una veranda da cui si vedeva l’oceano e potevi seguire il profilo dell’isola all’orizzonte, fino a quando non finiva o si perdeva nella nebbia. Come ogni ostello che si rispetti, il fattore umano fu determinante per la buona esperienza. Il mio capo Irlandese lo vidi giusto un paio di giorni, complice la sua balbuzie e la mia modesta padronanza della lingua, capii zero di quello che mi disse. Il tuttofare era Italiano, nemmeno a farlo apposta, sospetto sniffasse cocaina o magari gli piaceva mettersi la farina sulle narici e c’erano altre due ragazze Italiane nello staff che con me e un’altra ragazza Americana facevano da pulisci-camere/receptionist/animazione/guide-turistiche/dicci-quello-che-dobbiamo-fare-e-noi-lo-facciamo.

Anche se rimasi sull’isola solo tre settimane riuscii a intrallazzare con la fauna locale, nella fattispecie U., il ragazzo che lavorava al pub accanto all’ostello. Dopo un ridicolo corteggiamento durato per diverse sere, U. riuscì a tirarmi fuori dal pub e a farmi salire sulla sua macchina. Aveva detto che mi doveva far vedere un posto speciale. Dopo una decina di minuti di guida nel buio dell’isola arriviamo al faro, una torre diroccata in cima al punto più alto dell’isola. Saliamo le scale traballanti e poi bum, un colpo al cuore a guardar cosa c’è la fuori. Notte limpidissima, oceano, luci dall’Irlanda che si riflettono in lontananza. Per quanto questa descrizione e la situazione in sé stessa possano sembrare solo un altro paragrafo di un libro di Nicholas Sparks, posso giurare che a trovarcisi in mezzo, la spocchia sparisce e diventa solo meraviglia per essere lì e in quel momento, felici per aver deciso di seguire quel ragazzo con i capelli rossi, finalmente. Non mi illudo di essere stata la prima a salire le scale di quel faro con lui in una notte limpida. Anzi, sono certa che quella era una mossa tatticissima che sfoderava al passaggio di ogni ragazza che acconsentiva a salire in macchina con lui.

Vuoi per il paesaggio, vuoi per i capelli rossi, vuoi perchè alla fine chi se ne frega, uscii con lui anche le sere successive. Ho ricordi lontani di quelle sere, un po’ per il tempo passato e un po’ per la birra (ma che lo dico a fare, se siamo in Irlanda?!). Mi ricordo quella croce enorme tatuata sulla sua schiena. La macchina verde che guidava fino a casa all’altro capo dell’isola, che aveva fermato nel mezzo del nulla più nulla perchè aveva avvistato tra le frasche un suo amico ubriachissimo a cui serviva assolutamente un passaggio a casa (e cosa ancora più sorprendente l’amico era davvero tra le frasche). Gli scarafaggi che camminavano ordinati nel bagno di casa sua. Un incisivo scheggiato. Gli sguardi dal bancone del pub e le burla del suo capo quando aveva sbagliato a fare un panino, neanche a farlo apposta proprio il mio. Lui che cercava di convincermi che ce la potevo fare a bere la Guinness con il succo di ribes nero.

L’ultima sera che ero sull’isola non si fece vedere, passò in macchina ubriacherrimo con i suoi amici, tutti rigorosamente maschi. Su un isola vigono leggi non scritte che noi personaggi di terraferma non possiamo nemmeno immaginarci. Lo vidi di sfuggita il giorno dopo mentre stavo per andare a prendere il traghetto, mi salutò senza dire una parola, alzando solo una mano dalla finestra del pub che dava sul molo, una faccia che rimpiangeva di aver bevuto ogni singolo bicchiere la sera prima e un mezzo sorriso asimmetrico in faccia.

Ho appreso l’altro ieri da Facebook, se non ci fosse modo ancora più triste di sapere certe cose, che U. è “morto tragicamente in Australia, dove si era trasferito per lavoro qualche tempo fa”.

Non ho molto da aggiungere a questo punto.

Non un saluto, la gente lì usa solo alzare una mano e fare una smorfia.

Questa notizia mi ha lasciata a bocca aperta, come il paesaggio del faro ma con un altro sapore in bocca. Non lo sentii più da quando lasciai l’isola. Tutto quello che ho da dire è banale ma veritiero: il tempo è corto e c’è tutto da fare.

L’effetto farfalla

Come ogni peggior soap opera che si rispetti bisogna iniziare con un riepilogo.

(voce baritonale un po’ da marpione) Nelle puntate precedenti: Frou si imbatte in un bello sconosciuto. Dopo qualche difficoltà escono insieme e lui si dimostra per ciò che è. Un imbecille. Lei decide di non continuare a frequentarlo ma… (effetto sfumatino e torniamo ai giorni nostri).

Ma. Tutti i peggiori discorsi iniziano con un “ma”.

Mi piaci ma non abbastanza. E’ perfetta per questo lavoro ma abbiamo già trovato qualcun’altro. Ho fatto i compiti ma me li ha mangiati il cane.

E io di ma ne ho più di uno.

Ho deciso di non continuare a frequentarlo ma lui ha deciso il contrario. E quando finalmente ho risposto ai suoi messaggi al fine di scaricarlo lui mi ha risposto “smettila con questo non-sense, noi ci vedremo ancora”.

Ho deciso di non continuare a vederlo ma la Svezia è francamente un buco di culo. Perché se il giorno stesso in cui lui ritorna dalle vacanze a nove ore esatte dal suo arrivo io me lo ritrovo davanti senza essersi dati appuntamento, questa è una discreta sfiga.

Ho deciso di non continuare a vederlo ma quando l’ho visto per un millisecondo ho pensato “In fondo non è così male” e ho contemplato la possibilità di aver fatto un errore di valutazione.

Ma poi è passata e ho continuato a pensare che non voglio continuare a vederlo.

Per finire di dipingere la situazione a tinte grottesche, l’incontro è avvenuto Venerdì sera in centro mentre aspettavo persone che non sarebbero mai arrivate con il mio amico stalker. Quando già mi preparavo a una serata lunga una vita che lui avrebbe considerato come un appuntamento romantico, ecco che spunta il mio insistente corteggiatore con un amico. Dopo qualche introduzione e chiacchiera di convenienza, lui ci chiede “Vi volete unire a noi?”. Nonostante fosse chiaro che quella era una proposta indecente non sapevo quale fosse il male minore e per mancanza di ragioni per cui declinare, accettiamo.

Da lì inizia una interminabile serata in cui le avance si sprecano e l’imbarazzo anche.

Difatti, nonostante io sia abbastanza espansiva sulla mia vita privata in queste pagine, non lo sono ugualmente nella vita reale perchè credo fermamente che se ognuno si facesse i cazzi propri questo mondo sarebbe un posto migliore. Quindi, non sono certo andata a dire a ogni mia conoscenza che io uscivo con qualcuno e la comparsa di questo figuro deve avere sconquassato e non poco il mio stalker. Per non dare nell’occhio il mio corteggiatore ha mantenuto un basso, bassissimo profilo per tutta la serata: mani che ogni tanto si allungavano sulle mie gambe, richieste in diretta di abbracci e baci, dichiarazioni di quale pezzo di gnocca sono in varie salse. Tutto questo sotto gli occhi dello stalker, che a fine serata ci ha tenuto a farmi sapere che aveva visto che quello metteva le mani in ogniddove.

Una cosa però della serata la vorrei salvare. Tra le tante idiozie che il corteggiatore ha detto, e appena prima di riconfermarmi che lui crede negli universi paralleli, ha menzionato l’effetto farfalla. Ovvero quella teoria che dice che se una farfalla sbatte le ali qui la direta conseguenza del battito di ali è una tempesta a millemila chilometri di distanza.

Nelle intenzioni della favola, lui probabilmente ci vedeva che la sua rompicoglionaggine perseveranza avrebbe scaturito prima o poi una mia tempesta ormonale.

Nelle intenzioni della favola, io ci ho visto che tutto fa brodo. Insomma, anche questa esperienza per quanto tragicomica mi deve aver insegnato qualcosa e mi porterà a una tempesta a ormonale. Ma per qualcun’altro.

Come se non bastasse quando sono arrivata a casa, apro il social network e vedo che mentre eravamo insieme nella serata ha scritto che io e lui eravamo in un certo qual bar della città e il commento era “Feeling good…”. A imperitura memoria delle cazzate che ogni tanto faccio.

Grandi numeri

Se c’è una cosa della matematica che mi piace è la legge dei grandi numeri. Quella che dice che per caso, prima o poi, shit happens.

Un’altra cosa abbastanza figa è tutta quella teoria sui sei gradi di separazione che se poi uno è sociopatico, misantropo o abita sul cucuzzolo della montagna mi sballa le statistiche. Fortunatamente ci sono io a riparare per loro e ad abbattere questa odioso ping pong di ben cinque intermediari tra te e il sesto ed ultimo contatto a cui tanto aneli ad arrivare. Non sbatterti: chiedi a me!

Tutto inizia venerdì sera, quando un amico di una ragazza che conosco si siede al nostro tavolo e guardandomi mi dice: io ti conosco. E io che già andavo a rispolverare tutte quelle sere appannate dall’alcol, mi fermo poco dopo quando mi dice che lui è l’amico di quella mia collega che lavora in Germania ma che ha visto delle mie foto (foto?! davero davero?!) e che la faccia gli era rimasta familiare. Ok, incasso il riconoscimento che nemmeno se fossimo in quei telefilm americani e tu punti il dito contro quello con più cicatrici/tatuaggi e dici “è lui!!!”.

Ma non passano nemmeno due ore che ci muoviamo in un altro pub e li vedo il compagno di studentato di una mia amica. Lui è italiano per cui invece dell’abbraccio spolvera schiena alla svedese partiamo di baci finti sulla guancia e quando arrivo a fare capolino sulla sua spalla spunta da dietro Lonely Boy, che ovviamente era lonely ma  in compagnia di amici. L’italiano è niente-popò-di-meno che lo studentello di Lonely Boy ed erano a bersi una birra insieme quando io sono apparsa sulla scena. Raccolgo i cocci, finisco la serata e sopravvivo fino alla domenica pomeriggio.

Domenica ero invitata a uno di quegli odiosi pranzi internazionali che, per la legge dei grandi numeri di cui sopra, prima o poi riuscirò a trovarne uno in cui davvero mi diverto. Per chi non ha la fortuna di sapere di cosa sto parlando, sono quelle cose chiamate anche potluck in cui tu porti un cibo sconosciuto ai più e che in genere condividi con persone altrettanto sconosciute, al di fuori dell’amico/conoscente che ti ha invitato e che comunque siederà all’angolo più remoto del tavolo abbandonandoti al tuo triste destino di conversazioni sul tempo, usi e costumi svedesi con tanto di “ma io nel mio paese faccio così e cosà e tu cosa fai?”. Insomma, una buona zappa sui piedi.

A risvegliarmi dal torpore di questa mondanità forzata è arrivata una tedesca che dopo un pò di chiacchiera introduttiva mi chiede ma tu conosci StoTizio? StoTizio?! Ma certo che sì! In un fine settimana come questo come faccio a non conoscerlo? StoTizio è un crucco che ho incontrato a una conferenza e dopo avermi circuito promettendomi di sintetizzare chissà che molecole per me è sparito e riapparso su facebook in veste di stalker, dicendo di volermi mandare un caffè con UPS che magari arriva ancora caldo. O magari no. Ecco, magari al seconda. Comunque, a quanto pare StoTizio aveva dato chiare indicazioni su di me, in modo che fossi identificabile e facile bersaglio di corrieri espresso e ragazze tedesche.

Sono in giorni come questi che capisci che i numeri, per quanto grandi, sono sempre troppo piccoli. Soprattutto se abiti qui ad Inculandia (Svezia) e hai l’abitudine di parlare con cose, animali e persone (animate e non).

Non lo sapevi che il nerd è il nuovo dandy?

Bè, in tal caso, sapevatelo.

Quando pensi che la Svezia e il buco di culo in cui vivo non abbiano più niente di nuovo da offrirti ecco che arriva l’esperienza definitiva che ti farà rimangiare quello che hai detto.

Piccola premessa. Io non è che mi lamento di questa cittadina in cui sono finita, ci sono i suoi pro ma ci sono anche i contro. Un grosso contro è che i pub sono contabili sulle dita di una mano, forse due, e alla fine va che scegli un pub in cui vai sempre e in cui il barista sa già cosa prendi e si preoccupa se non ti vede per due settimane.

Ma non ieri sera. Mi è stato svelato il segreto che nello scantinato della facoltà di fisica ogni mercoledì sera gli studenti organizzano un pub.

Ebbene sì, il posto più di tendenza in cui andare al mercoledì sera è uno scantinato a fisica. Con un sacco di fisici, perchè l’ingresso non è pubblico ma devo conoscere qualcuno dentro al pub che ti viene ad aprire. Nemmeno fosse una loggia massonica!

Nonostante io non faccia parte della categoria avevo un aggancio che aveva un aggancio e come Alice nel paese delle meraviglie siamo caduti nel tunnel e alla fine c’era questo mondo all’incontrario.

Adesso, io ho la mia buona dote di nerd ma nella mia vita, tutti i fisici che ho conosciuto non erano questi adoni. No, errore. Uno di recente mi ha conquistato dicendo “Ma tu abiti dive c’è un sincrotrone!”, ma questa è decisamente un’altra storia. Comunque, a parte rare eccezioni e con un buon quantitativo di pregiudizio inculcatomi nella testa da troppi episodi di “The Big Bang Theory” mi sono acclimatata nel salotto underground della fisica che conta.

E com’era?

Un posto come un altro. Magari non consideriamo l’altissima densità di gente con la maglietta dentro ai pantaloni e quelli con le magliette in coordinato del laser show. E un forte sentore d’autismo quando è venuto il momento di mettersi in coda per prendere una birra, con la fila che iniziava non davanti al bancone ma da parte. Senza parlare delle birre mai viste (e del mio sidro che aveva sull’etichetta un personaggio mitologico che assomigliava a un hobbit).

Ecco, magari non proprio un posto come un altro.