Etichettato: Riflessioni
All you need is
(E il caso vuole che quando io ero in quella città la ascoltavo mentre mi perdevo per i vicoletti e ora, che in quella città ci sono tornata per altre ragioni di cui vado ora a raccontare, eccola che ritorna con un nuovo album. Mi piacciono queste sovrapposizioni tra la musica e le mie esperienze. E adesso devo ancora capire dove e quando la riuscirò a vedere: se qui o là. Spero là.)
Sono partita per un viaggio. Più o meno. Avevo accennato a qualcosa tempo fa, avevo alluso a delle regole che mi ero messa e che avrei potuto infrangere. Viene fuori che, alla fine, del foglio delle regole ne ho fatto una palletta e l’ho buttata nel cestino. Io parto, non mi importa.
La volta precedente che mi ero imbarcata in un viaggio del genere dovevo averlo preso più come un viaggio spirituale e avevo sostenuto che ci volesse fede. Ma per una che in chiesa ci va solo per i matrimoni o i funerali, fa scena muta per tutta la cerimonia e si guarda con sospetto attorno pensando a quanto è surreale tutta la situazione, forse rifugiarsi nella fede non è la soluzione. E i fatti lo hanno provato.
Allora cerco di trarre vantaggio dai miei errori precedenti, invece di lasciare perdere un’occasione per paura di rimanerci ancora bruciata. E questa volta è un altro viaggio, metaforico e non, quello in cui mi sono imbarcata e quando si parte è bene fare una lista, per ricordarsi quello che serve, per non dimenticarsi le cose a casa.
Serve un biglietto aereo. Più d’uno, andata e ritorno. Per quella città in cui ascoltavo Sharon van Etten e uno per lui direzione Svezia. Serve un biglietto del treno, come quello su cui viaggio ora, con il mare sulla destra, grigio e arrabbiato come il mare d’inverno, che inverno non è. Ne serviranno altri di biglietti, credo.
Serve pazienza. Per convivere con le spigolosità che ho accumulato nel tempo, per la mia facilità di giudicare qualcosa dalla prima impressione. Serve pazienza per capire le spigolosità altrui e i punti di vista che non sono i miei, a volte così uguali e a volte no. Prendere quegli angoli e guardarli, non cambiarli. Che dire “lo cambierò” non ha mai portato a niente di buono e chissà che tutti quegli angoli non vadano a combaciare un giorno.
Serve un piumone più grande, chè l’estate Svedese è soltanto un ricordo e nemmeno dei più belli.
Serve una scatola in cui riporre tutti il “nostro”, per dividerlo dal “loro”. Ci sono cose che sappiamo solo in due. Cose che credo nemmeno questo blog verrà a sapere. Probabilmente è per questa ragione che mi ci è voluto così tanto a scrivere questo post.
Serve pazienza, che l’ho già detto ma ne serve ancora. Per quando non siamo insieme, che è la maggioranza del tempo. Meno poeticamente, serve uno smartphone, una serie di app di messaggistica online e skype. Preferirei non servissero ma servono eccome. Serve pazienza anche per passare la giornata ad aspettare di parlarsi e poi finire a raccontarsi cosa si è mangiato a pranzo, se c’era il sole o no e se la coinquilina è tornata a casa o è ancora fuori con quello là.
Serve un libro di ricette perchè ho sfoderato i miei più grandi successi culinari degli ultimi 28 anni e adesso sto raschiando il fondo del barile. Che non sono una massaia ma lo spirito da matrona Italiana si impossessa sempre di me in queste occasioni. Serve davvero perchè lui è più bravo di me a cucinare.
Serve dello spazio per riporre i bagagli di esperienze sentimentali accumulati in questi ultimi anni. Tanti piccoli bagagli per me, uno solo grande grande per lui. Alcuni di questi bagagli sono leggeri e si spostano alla svelta, altri pesano e rimangono in vista, a ricordare che ci sono stati e ancora occupano spazio.
Serve un nuovo vocabolario per colmare le differenze lessicali. Le parole di questo vocabolario sono: cara ve, ces!, criminale, riposo gli occhi, tesoro. Dal dizionario sono state cancellate altre parole (alcune di queste non andrebbero mai usate a prescindere): baci baci, branda, buondì.
Servono altri due vocabolari, uno per ciascun paese in cui abitiamo.
Serve un piano, perchè a fare questo avanti e indietro mi sono già quasi stancata. Il piano si sta delineando poco per volta, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, sperando che le fondamenta su cui si trama questo piano reggano. Chè non si sa mai, anche i piani meglio pensati possono andare a finire in niente.
E con questo penso di aver preso tutto.
Si parte.
30 anni per due
Poi per un po’ la smetto con Paolo Conte.
Solo che in questo caso questa canzone è proprio necessaria. E non solo perchè al concerto di Paolo Conte ci siamo proprio andati (e alla fine no, non ho rimandato la partenza e comunque quella è un’altra storia).
Sull’onda (su onda!) emotiva di Dallas buyers club* mesi fa avevo fatto un acquisto azzardato: tre biglietti per il concerto di Paolo Conte al Vittoriale in gradinata “poveracci” non numerata (che comunque era l’unica tipologia di posto ancora disponibile). Uno per me e due per coloro che mi stanno dietro da che sono nata, ovvero i miei genitori.
Il regalo aveva piú di una ragione di essere:
1. Perchè mio padre ha fatto sessant’anni quest’anno e lui ama Paolo Conte
2. Perchè i miei hanno fatto trent’anni di matrimonio quest’anno e mio padre adora Paolo Conte (mia madre no, ma se ci siamo io e mio padre lei viene anche solo per la compagnia!)
3. Perchè Paolo Conte inizia ad avere un’età e volevo andarlo a vedere con mio padre (che pure, nel suo piccolo, inizia ad avere un età)
Non voglio raccontare tanto del concerto: è stato bello, ma questo lo si sapeva già. Il vero spettacolo non era Paolo, non l’orchestrina, ma mio padre. Non è che a casa mia non si sorrida, ma gli ho visto in faccia una espressione così soddisfatta alla fine del concerto che non la vedo spesso. Un sorriso autentico, dimenticate le tensioni di quel lavoro che si è scelto e stramaledice quotidianamente, la faccia rilassata con quelle poche rughe sul viso pieno. Un sorriso sotto ai baffi, come quelli di Peul, che se se li tagliasse non lo riconoscerei più. Gli stessi baffi che gli avevo diseganto su una carta d’identità che ci avevano fatto fare all’asilo, quella in cui asserivo che era alto trenta metri.
Mio padre dice che quando va in pensione vuole trovare un pezzo di terra per allevare dei vitelli biologici. Poi i vitelli li vuol portare in giro a pascolare e li chiama Vitellozzo, seguito da un numero crescente. In questo piano infallibile non ha tenuto conto che i Vitellozzi non sono autosufficienti e se non vuole passare ogni giorno dell’anno con i suoi Vitellozzi gli serve un socio, ma appena lo trova e appena va in pensione è fatta. Mio padre è campione inter-regionale di idee bislacche.
L’eccentricità delle sue idee può essere dovuta dal fatto che da giovane era un’artista. Aveva addirittura fatto una scuola e ci sono dei suoi lavori appesi al muro in casa. Dalle poche foto che visto di lui da giovane doveva essere un capellone (paga per ora!) fascinoso. In più con l’aggiunta della frequentazione della scuola d’arte mi immagino che avesse il suo mercato. Immagino perchè delle vite amorose dei miei genitori prima che si incontrassero so davvero poco. Per mio padre è stata nominata una volta una morosa di quando era a militare in Puglia ma chissà che fine avrà fatto. Chissà se se lo chiede anche lui. Chissà che cosa ha combinato mia madre da giovane.
Per risolvere tutti questi interrogativi potrei semplicemente farle queste domande. Però, nonostante la curiosità, non me la sento proprio. Ho un ottimo rapporto con i genitori, una roba da pubblicità del Mulino Bianco, ma in quelle pubblicità ci si sorride e ci si vuole bene ma non si fanno domande imbarazzanti. Ecco, l’unica differenza tra la mia famiglia e quella del Mulino Bianco è che i miei non si baciano. Mai. Non ho memoria di un bacio tra i miei genitori, nemmeno a stampo. A me sì ma tra loro mai. Fortunatamente, dico io, con l’età, la figlia fuori di casa e magari una puntina di demenza senile hanno iniziato ad avvicinarsi e a stuzzicarsi a vicenda come dei pre-adolescenti quando ci chiamiamo via skype. A guardare bene mio padre non sembra questo campione di romanticismo. La sua massima espressione di romanticismo in tempi recenti è stato recitare appena sveglia a mia madre un pezzo della canzone qua sopra “Marisa, svegliami, abbracciami. È stato un sogno fortissimo”. Mia madre, di tutta risposta, sgrana gli occhi e chiede “Chi è questa Marisa?”.
Così come sono mancati i baci, sono anche mancate le liti. Ho memoria di una sola volta in cui i miei genitori hanno avuto una discussione. La totale assenza di brutti momenti nella mia infanzia fa sì che il mio ricordo di quest’episodio sia piuttosto vivido, nonostante i più di vent’anni passati: c’era il TG2 in TV, erano in cucina, credo parlassero di soldi. Non credo sia l’unica discussione che abbiano avuto ma è l’unica di cui io so. Anche qui, mi chiedo se in questi trent’anni sia andato tutto bene, se ci siano stati momenti in cui la tentazione di lasciare perdere tutto sia venuta.
Ma questa è una domanda retorica. Non la voglio sapere al risposta. Preferisco pensare a loro come alla coppia più salda che ci sia, quella che si prende in giro ogni giorno e che è l’esempio più vivo che ho di come si sta insieme.
Io spero che con l’età possano diventare come quegli anziani che, dopo essere stati insieme una vita, si riscoprono come fossero dei ragazzini alla prima cotta. Quegli anziani che passeggiano all’ombra dei viali alberati dei paesini di provincia, che si tengono per mano e lui, nonostante gli acciacchi del tempo, si china ancora a raccogliere un fiore dall’aiuola per fare colpo sulla sua morosa.
*non guardate questo film se a) non volete piangere tutte le lacrime che avete in dotazione, b) fare gesti impulsivi dettati dalla improvvisa catarsi che la vita è troppo breve
Det fixar sig
Qui in questo paese lo ripetono sempre: “det fixar sig, det fixar sig”.
Si aggiusta da sè, stai tranquillo, non c’è da preoccuparsi.
Don’t worry ‘bout a thing ‘cause every little thing is going to be alright.
E io non mi preoccupo, o almeno cerco di non pensarci troppo a come andrà finire.
È meglio pensare all’inizio.
All’inizio è bastata una chiacchiera in coda per una birra e un chilometro sotto la pioggia, sotto lo stesso ombrello, che aveva già sbaragliato ogni concorrenza. E per capire dove sarebbe andata c’è voluto solo un incontro in mensa, che quando l’ho visto da lontano arrivare verso di noi, prima con un sorriso e poi con una linguaccia, sentivo le guance riempirsi di un caldo infantile e innegabile. Infine con un lavoro di sguardi e gentilezze durato il tempo di una sera, le intenzioni sono state messe sul tavolo. È stato fin troppo facile.
All’inizio dovevo fare attenzione per trovare le famose sette differenze con quello di prima. Dottorando in una città non sua, dalla quale partirà presto, incontra dottoranda. La materia di studio è la stessa, certe passioni pure, certe uscite anche. Veniva da chiedersi se non stavo per entrare in una storia già vista solo per togliermi di dosso una volta e per tutte i fantasmi di quella di prima. Ma non è la visione d’insieme quella a cui si deve prestare attenzione, bensì alle differenze. E le differenze, nonostante il (poco) tempo per cercarle, sono tante.
Fa male ammetterlo, ma era da tanto che non avevo attorno qualcuno che ci tiene così. Ho fatto due conti, quando dico “tanto” credo di intendere almeno sei anni: c’è da tornare indietro per una serie di storie più o meno senza senso, ammesso che anche questa uno ce l’abbia, per trovare qualcosa di paragonabile. Ci vuole una certa strategia per infilarsi sistematicamente in relazioni in cui lui è coinvolto per il tempo funzionale a fargli avere qualche mero tornaconto. Mi ero dimenticata come ci si sta bene in un paio di braccia più lunghe e due mani più grosse. Che a lasciarsi stare un po’ lì dentro ripenso a tutti questi anni in cui l’ho svangata sempre da sola, contando solo su quello che avevo io, non uno di quei lui, e riprendo fiato da quella fatica.
È successo tutto così in fretta che gli ho dovuto spiegare il perchè delle mie ragioni e della mia scelta, per lui. Dico che mi ha colpito da subito, come mi succede sempre in questi casi. Lui con uno sguardo candido, con quell’occhio di due colori, mi dice che non gli era mai capitato di aver fatto colpo su qualcuno al primo incontro. Rido e non so se crederci. Penso alla mia miopia galoppante, se oltre che alle cose lontane mi sta impedendo di vedere anche quelle ben vicine o se ho acquisito chissà quale super potere, uno sguardo ai raggi X che va oltre le superfici.
Come ogni storia che si rispetti deve esserci un però.
Però lui partirà a fine mese. E se non fosse già troppo poco un mese per conoscersi, io partirò una settimana prima di lui per le mia vacanze, improrogabili causa impegni familiari da compleanno (non mio) con uno zero in fondo, a meno che Paolo Conte non decida di spostare il suo concerto di una decina di giorni.
Ho sempre saputo che se ne sarebbe andato, presto o tardi. Quando ho saputo la data con esattezza però ho sentito il dovere di mettere le mani avanti, ho dettato delle regole. Una parte più razionale di me ha preso il comando e ha ricordato al resto di tutti i voli pindarici (e non) dell’anno scorso, di quella grossa delusione che è la precedente relazione, di cui vorrei dimenticarmi e che invece a volte mi sembra un replay di questa. Questa parte razionale, mi ha fatto dire agli stessi occhi di due colori, che non sapevo se ci sarei stata dopo la sua partenza, ho raccontato per sommi capi le mie ragioni, gli ho fatto vedere qualche cicatrice. Lui non si è scomposto, mi ha fatto vedere le sue cicatrici, simili alle mie, forse più profonde. Dice che è tutta una questione di volontà, e lui quella volontà ce l’avrebbe, nonostante tutto quello che gli è già successo prima.
Di recente ho detto che fissare delle regole è il primo passo per infrangerle.
Manca meno di una settimana.
In ogni caso, si aggiusta tutto.
Giulia con i pantaloni su
Ero indecisa sul da farsi: il caso vuole che la stessa sera ci siano ben due concerti interessanti. Ormai stavo tergiversando da un mesetto davanti alla pagina di billietkungen, valutavo i pro e i contro delle due proposte, facevo calcoli sulla fattibilità logistica visto che i concerti sono un martedì.
Poi l’altra sera attorno a mezzanotte ho visto questo, ho mandato a quel paese quei baggiani dei Bombay Bicycle Club e ho sentito solo il bisogno irrefrenabile di andarlo a sentire. Per la seconda volta. La prima volta, ne parlai anche su queste pagine, non fu proprio un incontro felicissimo. Mi aveva convinto ad andare un coinquilino dei tempi dell’Erasmus e io che mi faccio convincere davvero con poco, avevo ascoltato il disco mezza volta, constatato che non si trattasse di epic metal o hip-hop (che sono le due cose al mondo che proprio non posso godere) ed ero andata. Mi colpirono i bassi, non solo emotivamente ma anche fisicamente perchè erano veramente troppo marcati credo per colpa di un fonico con un principio di sordità, e mi colpì quasi anche un libro che dopo averlo decantatato per un pezzo il cantante, Moonface, lanciò dal palco.
Fu così che il buon Moonface, all’anagrafe canadese Spencer Krug, dopo aver fatto un mediocre disco rock incazzato con un accenno di paturnie, fa perdere le sue tracce per un annetto buono e alla fine di ottobre mi ritrovo per le mani il suo nuovo disco con dieci pezzi fatto solo di voce e pianoforte.
Immaginiamo il mio stupore quando l’ho ascoltato per la prima volta.
Ora immaginiamo il mio stupore quando mi sono resa conto che mi piaceva pure.
A me.
Io che sostengo che Einaudi, Allevi, Yiruma siano i Modà per quelli un po’ snob, mi sciolgo davanti alla musica di quello che lanciava i libri fino ad un anno fa.
Per tutto c’è una spiegazione. Il buon Spencer Krug ha scritto questo disco l’anno scorso (2012? 2011? non ci è dato sapere con esattezza) quando dopo un’ecatombe di sfighe tra cui scioglimento della sua band e mollamento con la fidanzata decide di trasferirsi ad Helsinki proprio quando l’inverno sta per cominciare. Che idea felice. Per non suicidarsi, decide di acquistare un pianoforte e resosi conto che in inverno ad Helsinki non c’è veramente un cazzo da fare suona e scrive un sacco. In realtà, Spencer non è così sprovveduto come ci vuole far credere perchè ad Helsinki ci sono i Siinai (quelli con cui ha fatto il disco del lancio del libro) e una donna, alla facciazza della fidanzata che l’ha mollato, quindi proprio da solo ad espiare i suoi peccati al freddo e al gelo non era. Però gli va riconosciuto che sbarcare un inverno scandinavo non è cosa facile e penso che sia proprio per questo che Spencer questa volta ha colpito e soprattutto affondato.
Ed è così che la sera tra il 9 e il 10 Gennaio ho comprato un solo biglietto per il concerto. Proprio il giorno in cui cade il quarto anniversario di vita in Svezia. Alla fine non so se andrò da sola, magari quel mio amico dello scorso concerto vuole venire e ho un paio di altre persone a cui potrebbe interessare ma se anche dovessi essere sola non mi preoccuperei più di tanto. Un concerto per piano e voce in una chiesa non richiede una grande compagnia per essere apprezzato. Ti siedi lì e lo ascolti abbassando ogni guardia.
E pensi a tutto quello che è successo negli ultimi quattro anni. A tutti quelli che ci sono stati, tenendo bene in mente che l’unica che è rimasta e rimarrà alla fine sono io e che everyone has to build themselves up alla fine della fiera, perchè in posti come questo volersi bene è fondamentale.
Buon anniversario a me, una Giulia con i pantaloni su qualsiasi. A me soltanto.
Perfetto.
Premessa: questo post contiene un po’ di disagio. Ho anche messo in cima i Verdena per rendere il tutto ancora più palese. Così, per avvertire.
E’ successo più o meno un mese fa mentre ero in vacanza. Quelle due settimane abbondanti di vacanza che mi sono ritagliata quest’anno, ben meno delle vacanze che mi sarei potuta prendere, ma si sa che qui dentro brucia il fuoco sacro dell’autolesionismo. Di queste due settimane di assenza avevo avvisato ripetutamente tutte le persone che, lavorativamente parlando, avrebbero potuto sentire la mia mancanza. Inutile aggiungere che queste mie e-mail sono state ignorate e mi sono continuate ad arrivare incarichi che dovevano essere fatti asap e che in casi veramente imprescindibili sono state anche svolte dalla sottoscritta asap (autolesionismo: burn burn burn!), con buona pace delle mie vacanze.
Il problema è sorto quando una e-mail diversa dalle altre è arrivata. Questa era la risposta dell’editore di un giornale scientifico riguardo alla pubblicazione di un mio articolo. Questo genere di lettere contengono pareri anonimi sul tuo lavoro e decidono se il tuo articolo può essere pubblicato o meno. Alla prima lettura ho avuto un nodo allo stomaco: gente che nemmeno sai chi è ha sparato a zero sul mio lavoro, chi giudicandolo buono ma con delle mancanze, chi cassandolo senza pietà, chi facendo domande superficiali. Tutti i commenti e le domande che ci (mi) ponevano sembravano essere fatte con spocchia, come se gli avessi fatto perdere il tempo più prezioso della loro vita e mi sentivo personalmente imputata di quelle mancanze verso cui loro puntavano il dito.
La realtà è un’altra. E’ che questa lettera ha toccato due dei miei punti debolissimi in una volta sola: l’iper-auto-responsabilizzazione per gli errori e l’ansia da perfezione.
Non so quale sia l’eziologia di questi mali, forse sono un retaggio della latente cultura cattolica, o una cosa comune tra la popolazione mondiale, tipo l’intolleranza al lattosio, solo che la gente non te lo viene a dire a te che ha certe paranoie. C’è che nel mio piccolo mondo, con la mia piccola esperienza queste paturnie contano e mi influenzano. Il rimuginare all’infinito sul passato, su quello che è andato male, su quello che non ho fatto io. Senza mai pensare che magari io non ero l’unica persona coinvolta in quella situazione, che invece di andare male poteva andare peggio (poteva piovere!).
Da qui alla voglia di uber-perfezione il passo è breve. L’imposizione di standard creati da me medesima su tutto e tutti, che portano alla rimuginazione sul non raggiungere quegli standard, che portano alla creazione di nuovi standard. E questo vale in tutti i campi del pensare e del fare. Al lavoro. Con gli amici. Con me. E ovviamente con gli “amici speciali”.
Quando mia madre mi dice che non è che non lo trovo ma che non lo cerco, mi fa arrabbiare, ma ha ragione. Perchè per me uno normale non va bene nemmeno per provarci, per vedere che succede. C’era quello a cavallo tra l’etero e l’omosessualità (più d’uno), quello che affogava tra mille interessi, quello che aveva problemi di relazione con gli altri, ognuno con le loro piccole peculiari manie, che per me erano le cose che li rendevano speciali.
Perchè questo non è un paese per un Joe Sixpack qualunque. O almeno vedremo.
Alla fine di tutta questa pippa esistenziale, il mio articolo è stato accettato per la pubblicazione. Perchè sono andata oltre alle critiche che avevo visto come personali, le ho affrontate e controbattute. Alcune accettandole, altre rigettandole con delle motivazioni. Un po’ come in una grande metafora di quello che dovrei fare quotidianamente. Invece che stare qui a ripensare a Joe Sixpack.
Roba in tasca
Oggi ha ricominciato a fare freddo.
Per andare in palestra mi sono messa la giacca, visto che sulla via casa lavoro mi sono congelata, io e il mio top largo e corto che trasudava ottimismo. Ho messo la giacca, e le chiavi in tasca. Ad aspettare le chiavi c’era un rettangolino di cartone, non c’era bisogno di tirarlo fuori per sapere che cos’era: ancora un fottutissimo biglietto della metro di Parigi.
Che a ripensarci è buffo: allora l’estate faticava a farsi trovare, nonostante Giugno fosse quasi finito e io me la mettevo ancora la giacca. Poi l’estate arrivo proprio in quei giorni e la giacca è rimasta appesa all’ingresso. Fino a oggi. Mentre per me l’estate ha voluto dire sì bel tempo ma anche una serie più o meno lunga di pensieri tristi. Bah, ironia.
Questa cosa delle tasche mi fa ripensare a quel compleanno di due anni fa quando un mio spasimante mi aveva regalato un borsa comprata in Iran, poichè Iraniano era il soggetto in questione. Me l’aveva impacchettata e me la diede sull’uscio di casa mia e allontanandosi mi disse di guardare nelle tasche. Aprii il pacchetto e vidi questa borsa, orrenda, ma proprio terribile, che aprii per cercare se c’era qualcosa dentro. Un biglietto giallo scritto a mano diceva che lui ha l’abitudine di guardare sempre nelle tasche, nella speranza di trovare qualcosa, che gli piace “esplorare” le tasche non solo fisiche ma anche quelle del carattere delle persone. Mi ringraziava di avergli fatto esplorare le mie (E giusto per chiarire qui parliamo di tasche metaforicissime, nessuna tasca fisica fu mai esplorata!). Quella sera iniziai a intuire che ci fosse qualcosa di più sotto, che intuito!, perchè io all’epoca non avevo idea che questo spasimasse per me. Quindici giorni dopo, più o meno, mi fece una dichiarazione “d’amore” in luogo pubblico che se ci penso ancora mi sotterro. Io lo rifiutai. Quindici giorni dopo ancora toccò a me fare una dichiarazione a una terza persona, seppur meno plateale. E venni rifiutata. Un’ecatombe, insomma. Una tragedia Shakespeariana con sangue che scorre, lacrime che sgorgano, Montecchi, Capuleti e compagnia bella.
Ce l’ho ancora quel biglietto ed è questo qui.
E sapevo di averlo ancora, proprio perchè ieri ho trovato un altro biglietto giallo, scritto dalla stessa mano, un anno dopo. Per un periodo della mia vita questi biglietti gialli mi hanno perseguitato. Quella volta era andato in un negozio di dischi di Tokyo, mi aveva trovato un cd. Cd tra l’altro non richiesto, di un gruppo sconosciuto, che è ancora qui nella sua plastichina a prendere polvere su una mensola, accanto a Padania degli Afterhours. Quest’anno non ho ricevuto nessun bigliettino giallo, semmai mi è arrivata una mail un mese fa in cui mi diceva che una delle mie band preferite aveva fatto un nuovo cd ma non era disponibile su Spotify. Io già lo sapevo, anche perchè il cd era uscito a Gennaio, dicso non entusiasmante tra l’altro. Non gli ho mai risposto a quella mail perchè non avevo nulla da dirgli, nemmeno un grazie. Vuoi perchè sono una brutta persona, vuoi per un contrappasso universale, è che dopo due anni di no sarebbe il momento di farsene una ragione. E invece questo fesso che controlla quando escono i miei cd preferiti, che ha ascolta la mia musica, che vuole esplorare le tasche se mi servisse un rene e un polmone sarebbe in prima linea e io nulla. Niente. Neanche un pelo sulle braccia che si rizza, l’anaffettività proprio. Che è ironico, se si pensa che tutto questo sbarbattare di cuori, di tasche, di regali, di ricordi è tutto fine a sè stesso e non si concretizzerà mai in qualcos’altro. Da parte sua, da parte mia ma per altre parti. Ironia, ancora, palate di ironia.
E magari la smetterei di essere così finto-filosofica se non stessi leggendo il libro più triste della storia della letteratura moderna. Si chiama “Il museo dell’innocenza” di Ohran Pamuk. La prima pagina inizia dicendo che quello per il protagonista era il momento più felice della sua vita, facendo intuire al lettore che il resto del libro sarà una discesa negli inferi della disperazione umana. Sono a poco più di metà e al momento non vedo come possa andare peggio di così, ma ha ancora 200 e passa pagine per prendere un badile per mettersi a scavare la propria fossa, per cui sono fiduciosa che possa finire anche peggio di quanto ci si possa aspettare. E la cosa peggiore, quella che mi dovrebbe far pensare, è che questo tizio colleziona roba, oggetti che ha incontrato nella sua vita e che erano presenti a un dato momento in una certa situazione che per lui assumono valore storico, testimonianze di fatti accaduti a lui, che costituiscono un museo di storia personale.
Come il mio, fatto con i cd, i biglietti, gialli o della metro. Il biglietto della metro è rimasto nella giacca, negli scorsi giorni ho già buttato tante altre cose, scontrini, mappe e biglietti di ogni sorta, ma quel piccolo rettangolino lo ho lasciato in quella tasca grandissima, gli angoli spiegazzati dalle mie dita nervose.
Tanto io fra un paio di giorni la giacca non la uso più. La lascio qui in Svezia e come le rondini sverno.
Epigrafe da un appartamento Irlandese
(Dovevo scrivere dell’appartamento Albionese, chiudere il capitolo, ma altro è successo. Tornerò quanto prima sul seminato. Oggi purtroppo scrivo questo.)
Correva l’anno 2009. Erano i prodromi dell’Appartamento Svedese Erasums mode e io avevo deciso che dovevo imparare l’Inglese. Ma visto che andare ad una scuola estiva era troppo da brava ragazza, decisi di andare a lavorare in un ostello in Irlanda. Se già questa scelta può sembrare bizzarra, verrà definitivamente ricategorizzata come “bislacca” se l’ostello di cui sopra si trova in un’isoletta in mezzo all’Oceano Atlantico.
Zaino in spalla partii per tre settimane. Il posto era un sogno: l’ostello dava sul porto della cittadina e sulla via per raggiungere la cucina dove facevo colazione passavo per una veranda da cui si vedeva l’oceano e potevi seguire il profilo dell’isola all’orizzonte, fino a quando non finiva o si perdeva nella nebbia. Come ogni ostello che si rispetti, il fattore umano fu determinante per la buona esperienza. Il mio capo Irlandese lo vidi giusto un paio di giorni, complice la sua balbuzie e la mia modesta padronanza della lingua, capii zero di quello che mi disse. Il tuttofare era Italiano, nemmeno a farlo apposta, sospetto sniffasse cocaina o magari gli piaceva mettersi la farina sulle narici e c’erano altre due ragazze Italiane nello staff che con me e un’altra ragazza Americana facevano da pulisci-camere/receptionist/animazione/guide-turistiche/dicci-quello-che-dobbiamo-fare-e-noi-lo-facciamo.
Anche se rimasi sull’isola solo tre settimane riuscii a intrallazzare con la fauna locale, nella fattispecie U., il ragazzo che lavorava al pub accanto all’ostello. Dopo un ridicolo corteggiamento durato per diverse sere, U. riuscì a tirarmi fuori dal pub e a farmi salire sulla sua macchina. Aveva detto che mi doveva far vedere un posto speciale. Dopo una decina di minuti di guida nel buio dell’isola arriviamo al faro, una torre diroccata in cima al punto più alto dell’isola. Saliamo le scale traballanti e poi bum, un colpo al cuore a guardar cosa c’è la fuori. Notte limpidissima, oceano, luci dall’Irlanda che si riflettono in lontananza. Per quanto questa descrizione e la situazione in sé stessa possano sembrare solo un altro paragrafo di un libro di Nicholas Sparks, posso giurare che a trovarcisi in mezzo, la spocchia sparisce e diventa solo meraviglia per essere lì e in quel momento, felici per aver deciso di seguire quel ragazzo con i capelli rossi, finalmente. Non mi illudo di essere stata la prima a salire le scale di quel faro con lui in una notte limpida. Anzi, sono certa che quella era una mossa tatticissima che sfoderava al passaggio di ogni ragazza che acconsentiva a salire in macchina con lui.
Vuoi per il paesaggio, vuoi per i capelli rossi, vuoi perchè alla fine chi se ne frega, uscii con lui anche le sere successive. Ho ricordi lontani di quelle sere, un po’ per il tempo passato e un po’ per la birra (ma che lo dico a fare, se siamo in Irlanda?!). Mi ricordo quella croce enorme tatuata sulla sua schiena. La macchina verde che guidava fino a casa all’altro capo dell’isola, che aveva fermato nel mezzo del nulla più nulla perchè aveva avvistato tra le frasche un suo amico ubriachissimo a cui serviva assolutamente un passaggio a casa (e cosa ancora più sorprendente l’amico era davvero tra le frasche). Gli scarafaggi che camminavano ordinati nel bagno di casa sua. Un incisivo scheggiato. Gli sguardi dal bancone del pub e le burla del suo capo quando aveva sbagliato a fare un panino, neanche a farlo apposta proprio il mio. Lui che cercava di convincermi che ce la potevo fare a bere la Guinness con il succo di ribes nero.
L’ultima sera che ero sull’isola non si fece vedere, passò in macchina ubriacherrimo con i suoi amici, tutti rigorosamente maschi. Su un isola vigono leggi non scritte che noi personaggi di terraferma non possiamo nemmeno immaginarci. Lo vidi di sfuggita il giorno dopo mentre stavo per andare a prendere il traghetto, mi salutò senza dire una parola, alzando solo una mano dalla finestra del pub che dava sul molo, una faccia che rimpiangeva di aver bevuto ogni singolo bicchiere la sera prima e un mezzo sorriso asimmetrico in faccia.
Ho appreso l’altro ieri da Facebook, se non ci fosse modo ancora più triste di sapere certe cose, che U. è “morto tragicamente in Australia, dove si era trasferito per lavoro qualche tempo fa”.
Non ho molto da aggiungere a questo punto.
Non un saluto, la gente lì usa solo alzare una mano e fare una smorfia.
Questa notizia mi ha lasciata a bocca aperta, come il paesaggio del faro ma con un altro sapore in bocca. Non lo sentii più da quando lasciai l’isola. Tutto quello che ho da dire è banale ma veritiero: il tempo è corto e c’è tutto da fare.
In the house
Notiamo l’albinoicità (o albionicezza) di questo contributo video, please.
Diciamo anche che riferimenti a fatti o persone reali continuano ad essere puramente casuali. Casualissimi, direi. Pure il titolo è proprio casuale, perchè io non ho visto un film che si chiama così, no. E il film che non visto non parla di cose che accadono in una casa (o in più case a dire il vero, ma che ne so io se non l’ho visto!), o forse non succedono, e se succedono sono cose che fanno accapponare la pelle. Visto che io il film non l’ho visto magari ve lo vedete voi, questo qui.
Lascio da parte il film (o forse no) e ritorno a parlare della Casa. Il conto dei coinquilini aumenta di un’unità fisica più una paranormale.
Il Tedesco è un ragazzo più basso di me, senza collo, che parla con un accento che nemmeno il dietologo di Fantozzi. Nonostante questo sia stato presente nella casa da due settimane l’ho visto solo una volta ed era di fretta perchè stava uscendo, ça va sans dire. A giudicare dalle due parole scambiate sulla porta sta vivendo i giorni migliori della sua vita e dormire gli sembra uno spreco di tempo, e come dargli torto! Se ho capito bene se ne va tra poco, quindi non affezionatevi al personaggio.
L’Indiano non l’ho mai visto ma so che c’è. Il Belga ha sentito nenie mugugnate alle ore più improbabili del giorno e della notte e io ho visto la luce della sua camera accesa all’una di notte di Sabato. La stessa notte sono stata punita per aver visto quelle luci perchè una serie di rumori inconsulti provenivano dalla sua camera, tipo un mini trasloco, alle 6.30 di mattina. Ho anche sentito i suoi passi mentre ero in bagno. Tra le passioni dell Indiano, a parte i traslochi e la meditazione sul fuso orario di Nuova Dehli, annoveriamo la micologia vista la coltivazione di muffette nel suo barattolame in frigo.
Nella casa altre cose stanno succedendo, come quel pasticciaccio brutto con l’Algerino.
Lo incontro sabato mattina all’una, mentre io mi preparo una pasta lui fa colazione perchè la sera prima ha fatto tardi con i suoi colleghi e mangia dei biscotti al cioccolato che hanno un profumo così intenso che quasi mi fanno passare la voglia per i miei tortelloni con il sugo. Mentre io mangio lui mi fissa e qualche volta mi parla. Tengo la conversazione viva pur di non cadere in un imbarazzante silenzio e come mio solito finisco a raccontare di dettagli della mia giornata che annoierebbero chiunque. Non lui però, che quando racconto di come voglio fare la laundry ha un guizzo e realizza che prima o poi anche lui dovrà lavare i suoi averi. Ci salutiamo sul pianerottolo e io mi metto a preparare il mio bagaglio di lordura, tre borse della spesa di sudore e microbi. Quando esco dalla stanza con il mio fardello lui esce in sincrono dalla sua stanza che manco i tuffatori Cinesi e mi dice: vengo a fare la laundry pure io!
Ma ce l’hai la scheda per le lavatrici? Ce l’hai il detersivo? No, lui ha solo mezza borsina di panni vari e un tempismo perfetto. Andiamo, lo aiuto, gli presto il prestabile e facciamo partire le lavatrici: io scelgo il programma “delicati” e lui dopo un’attenta valutazione delle opzioni della lavatrice e della gamma cromatica dei suoi panni preme per “colorati”. Questo mi regala un buon quindici minuti di vantaggio sul suo programma, che significa che non dovremo più venire insieme a scaricare e caricare l’asciugatrice. Ah, sì perchè dopo la lavatrice si fa l’asciugatrice, dico io. Ma qual è l’asciugatrice?, chiede. L’asciugatrice è quella con su scritto asciugatrice, Monsieur Lapalisse. Ma le cose escono già stirate dalla asciugatrice?, incalza. Se l’asciugatrice è una di quelle buone riattacca anche l’etichetta con il prezzo e i capi sono come nuovi.
Dopo questa surreale conversazione realizzo che forse il suo fissare e il suo seguire e il suo coordinarsi altro non erano il frutto di una mamma che gli ha fatto il bucato fino ad oggi e la necessità di una mamma-bis che lo introducesse nel magico mondo di cestelli e centrifughe.
O forse no. Perchè dieci minuti dopo avermi fatto cadere le braccia con quella domanda sull’asciugatrice bussa alla mia porta e mi chiede che programmi ho per il giorno a seguire. Io, come uno scolaretto colto a rubare la merendina al vicino di banco, abbozzo. Forse, voglio andare in una città che comincia con L a fare un po’ di compere, forse. Ok, allora se vuoi posso venire anch’io, dice lui. Sì, ma tu ci sei già stato in quella città che comincia con L, non è un po’ noioso quando hai mille altri posti in cui poter andare? No, a me è piaciuta L, questo fine settimana volevo andare a N in realtà ma io ci torno pure a L! Ma guarda che io sono un notevole piede nel culo quando vado a fare shopping, forse è meglio se vado da sola. Cioè, se vuoi puoi venire a L poi però io vado a fare le mie commissioni da sola. Insomma, abbi pazienza, ci penso e ti faccio sapere se davvero ci vado a L.
Alla fine a L non ci sono andata, un po’ per non dover lasciare a casa il porta borse o per non dovermelo tirare dietro controvoglia. Ho fatto le mie spese, ho mangiato la mia torta, bevuto il mio tè e pensato che alla fine qui non è poi così male. Ma se lo penso non è per merito dell’Algerino, oh proprio no!
À suivre…
L’importante è partecipare
Come se fosse necessario un ennesimo commento a questa tornata elettorale. Come se a qualcuno gliene importasse qualcosa, io lo voglio raccontare.
Nel caso non si fosse capito, io abito in Svezia e non mi sono voluta iscrivere all’AIRE, per cui mi prendo le mie responsabilità e muovo il culo, prenotando con mesi di anticipo il volo, spendendo poco con una compagnia low-cost. No, non quella Irlandese, l’altra.
Esco da lavoro verso le tre per non perdere il volo, mi precipito in aeroporto e dopo che il personale di terra ci ha stipato oltre i cancelletti dell’imbarco, come un branco di lama, aspettiamo che si aprano le porte. All’improvviso un annuncio “Ops, si sono rotti i freni”. Niente paura, solo sette ore dopo arriverà un altro aereo per portarci a destinazione.
L’aereo decolla nel cuore della notte ma dopo poco sono svegliata da un odore acido. Il ragazzo seduto dietro di me aveva deciso di ammazzare l’attesa in aeroporto bevendosi una caraffa di birra (cioè, un sudoku, no?) e si è messo a vomitare a spruzzo. Lo trascinano in bagno, ma nel frattempo due dei suoi amici vomitano pure loro per simpatia. E su un aereo non è che puoi aprire un finestrino, ecco. Arrivo alle cinque di mattina a casa disgustata e stremata, ringraziando quelle anime pie dei miei genitori che mi sono venuti a prendere all’aeroporto ad un orario improponibile, in un revival dei vecchi tempi in cui andavamo a ballare e poi c’era il genitore sfigato di turno che ti veniva a prendere alle 3 e un quarto.
Il giorno dopo, con troppe poche ore di sonno sulle spalle, arriva Narnia. Venti centimetri di neve si sono ammonticchiati nel giro di qualche ora, le strade erano impraticabili perchè alla provincia hanno tirato la cinghia sui mezzi antineve e io ero bloccata a casa e non ho potuto incontrare i miei amici.
Domenica sono andata a votare, prima del primo rilevamento a mezzogiorno, come al solito, nel turno con gli anziani coi problemi di insonnia, dei contadinotti che scendono in paese per il mercato e delle beghine che vanno a messa. So che è il turno degli sfigati ma le tradizioni sono tradizioni e lo faccio per dare un vago valore statistico a questi rilevamenti del Quirinale.
Lunedì mio padre mi dà un passaggio in aeroporto. Abbiamo chiacchierato tanto, una di quelle chiacchiere intense come la giornata che sarebbe arrivata da lì a poco. Abbiamo parlato di lavoro, di futuro e di politica. Lui era ottimista, credeva che si sarebbero smacchiati leopardi, giaguari e tutte le fantasie animalier. L’ho abbracciato forte e l’ho salutato con un sorriso in faccia, credendoci anche.
L’imbarco per l’aereo del ritorno era alle 3, in concomitanza con l’uscita delgi exit-poll, maledetta a me e a quando prenoto gli aerei senza controllare questi dettagli. Non ho internet e gironzolo nervosa in prossimità degli schermi sperando che il finto telegiornale filo-mediaset di Malpensa trasmetta qualcosa che non sia un oroscopo o i risultati di Serie A. Arriva l’ultima chiamata e degli exit-poll neanche l’ombra.
Appena sbarco accendo il telefono. Mi connetto e mentre cammino spedita per il lungo corridoio cerco di caricare la pagina di Repubblica. Sono le cinque e mezza: Bersani è al 37%, Berlusconi al 29%, Grillo sotto il 20. Sussurro “Sì!” e mi avvio spedita verso la stazione dei treni, perdo la connessione wireless che ritroverò solo dopo una mezz’ora.
Quando ho nuovamente accesso a internet e posso ricontrollare i risultati su Repubblica penso ad uno scherzo. Bè, non c’è bisogno di raccontare quello che è successo. Lo sappiamo tutti, lo sanno pure gli Svedesi, quindi conto sul fatto che i risultati elettorali siano di dominio pubblico.
Ho controllato la pagina mille volte: in treno, alla fermata dell’autobus, sull’autobus, ma niente: i risultati si ostinavano a non cambiare. Anzi, se possibile peggioravano! Piango la prima volta sulla via di casa, mentre trascino la valigia. Chi mi ha incrociato deve aver pensato a tutto il peggio del mondo ma di sicuro non che stavo piangendo perchè i miei connazionali sono un branco di pecoroni ignoranti.
Appena arrivo a casa chiamo a casa per un commento a caldo. C’è solo mia madre. Nemmeno un minuto e sono ancora in lacrime. Questa volta piango semplicemente perchè ho ammesso ad alta voce che le elezioni erano andate di merda. Me la prendo quasi con lei, taglio corto e dico che non voglio parlare. Inizio a disfare la mia misera valigia del fine settimana elettorale, cerco di mendare giù qualcosa anche se la fame proprio non c’è.
Visto che mi sono ricomposta decido di chiamare a casa di nuovo a casa per rassicurarli. Stavolta c’è anche mio padre e anche lui come me è visibilmente incazzato, ma cerca lo stesso di rassicurarmi. Dice che comunque le cose si metteranno a posto, in qualche modo, che non mi devo preoccupare, che io sono fortunata perchè sono all’estero e che loro, anche nella peggiore delle ipotesi se la caveranno. Io nel frattempo mi sono messa a piangere di nuovo. Questa volta piango per tutte quelle brave persone come i miei genitori che si ritrovano in questo cul de sac, il risultato di anni di lobotomie di massa, nasi turati, memorie corte.
La serata passa ascoltando La7 e ricevendo messaggi su facebook e skype da tanti amici, anche loro sbigottiti da quanto successo.
In ultimo mi ha chiamato pure lui, quello del tuffo, se ne parlò sul blog l’ultima volta anche qualche tempo fa. Anche con lui è andata in scena la solita tribuna politica, le lamentele, le domande che rimarranno senza risposta (ma se noi non l’abbiamo votato chi l’ha fatto? dici che dobbiamo tornare in Italia a votare un’altra volta?).
Poi abbiamo cambiato discorso. Come a dimenticarci di quello che era successo. Abbiamo parlato di vacanze, di tende, di estati, di primavere, di fine settimana, di aerei. Ho riso finalmente, perchè lui mi fa ridere sempre. Non sono sicura che quei piani prenderanno davvero vita, se l’ho capito almeno un po’ non dovrei sperarci troppo. Almeno per un’ora quella sera non ho pensato a tutti questi brutti pensieri che la mia nazione mi dispensa a larghe mani ogni volta che i suoi cittadini sono chiamati a eleggere democraticamente chi deve rappresentarli.
Giannino voleva Fare per fermare il declino.
Io sono dell’idea di Flirtare per fermare il declino.
NON propositi per il nuovo anno ma opere di bene/3
Questo è l’ultimo proposito opera di bene, credo. Ci sarebbero altri frilioni di cose su cui dovrei aggiustare il tiro (oh, le gioie di essere le più grandi critiche di sé stesse!) ma credo di aver già messo parecchia carne al fuoco.
Ricapitolando, avevo deciso che ci sarebbero stati meno sìssignore e più sticazzi e che I need a fashion shower.
L’ultimo punto che vorrei aggiungere alla mia lista dice ricordati che devi morire.
Adesso spiego. Non che consideri l’eventualità come necessariamente prossima, ma come il frate dice a Troisi in Non ci resta che piangere, ecco: ricordatelo. Infatti mo’ me lo segno.
Chè alla fine io potrei stare qui e annoiarvi con le mie paturnie cosmiche però il nostro tempo è finito (in quanto non destinato a perdurare in eterno) e alla fine c’è da prendere ciò che viene quando viene. E dico prendere non inteso come accontentarsi ma come cogliere ogni occasione. Infatti, mentre io sono qui sul letto, a scrivere queste righe con il computer incastrato tra una costola e una gamba prima di prepararmi per stasera, là fuori il tempo scorre, le persone fanno cose e tu (e io) abbiamo meno tempo di quello che avevamo quando hai iniziato a leggere (scrivere) questa frase. E anche se il concetto è banale adesso che anche tu ne sei a conoscenza l’importante è non farsi prendere dal panico.
Chiudere il computer e iniziare a correre in tondo con le mani nei capelli per l’ansia che potrei averti messo addosso non serve: quello che bisogna fare è farsi prendere da un panico costruttivo.
Per questo, quando capita uno di quei giorni in cui tutto va troppo bene, quando cammini per strada canticchiando nella tua testa “I’m walking on sunshine” e ci credi pure, quello è il momento giusto per farsi prendere dal panico. Un’ansia di vivere, di assaporare appieno quei momenti perchè tempi come quelli non capitano tutti i giorni.
Quest’anno voglio fare cose, non pensarci troppo, sbagliare, rifarle, sbagliare di nuovo, rimanerci male o magari essere soddisfatta. Perchè alla fine devi morire. Magari nel 2113 ma è matematicamente provato che capiterà. E allora tanto vale arrivarci con un sacco di esperienze e storie da raccontare ai bisnipoti (o ai gatti) piuttosto che essere quella che ha centrato l’obiettivo, si è accontentata e si è seduta lì, smettendo di vivere. Ecco, io non mi voglio sedere, quest’anno rimango in piedi, oh se rimango in piedi.
Cari miei, vi auguro un 2013 pieno di tutte le cose bellissime che volete voi. E ricordatevi che dovete morire.