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Del mettersi giù da gara
Quando ero ancora nelle terre mie, quelle del vino e salame, quando arrivavo tra i miei amici e mi si diceva che quella sera ero “messa giù da gara”, voleva dire che quei cinque minuti passati al trucco e guardaroba erano stati momenti produttivi.
Ingredienti fondamentali per guadagnarsi lo status da “giù da gara” non sono scarpette chiodate e calzoncini ma una miscela di intrigo ed esibizione. Ma più la seconda.
Sì, cari miei. Questo post sembra frivolo ma in verità non lo è. Non è che Agosto fa impennare il tasso di tette-e-culi anche su questo blog, con i vip in spiaggia, i tormentoni in radio e il colore dell’estate. Ammetto che qui si andrà a parlare di vestiti e di apparenza, ma in maniera del tutto funzionale al lavoro. Che qui Agosto è un po’ il vostro Settembre, siamo già con le gambe sotto alla scrivania (e la testa altrove) e la-vo-ra-re. Tac!
Nello specifico, tra tre settimane sarò a una conferenza in Germania, perchè apparentemente le mie conferenze sono solo in Cruccoland o in altri posti incredibilmente noiosi (L’anno scorso che era in Sicilia il mio capo non ha voluto che andassi per poi pentirsene!). Una conferenza nel mio campo è un evento con rapporto uomo donna più o meno 50-50, che rispetto al campo dell’IT è tutto grasso che cola, in cui si respira una certa aria nerd ma non troppo. A parte alcuni casi disperati ci sono anche persone dalle sembianze normali, che fa sempre piacere. L’età media è attorno ai 30-40, quindi io sono ancora nella parte bassa della media che mi dà lo svantaggio di essere potenzialmente la figlia di chiunque conti qualcosa in questo gruppo di persone ma al tempo stesso sono definibile come il nuovo che avanza o, più francamente, carne fresca.
L’ho detto davvero. Carne fresca. Perchè la legge della jungla è valida sempre e ovunque: un po’ di pilu non guasta mai. Il pilu tuttavia deve essere assolutamente funzionale a far interessare un potenziale interlocutore al vostro lavoro scientifico, quindi la sua quantità ed esibizione deve essere sapientemente dosata.
Per fare un esempio, l’anno scorso ero a questa piccola conferenza e durante una pausa caffè mi sono trovata a parlare con due rappresentanti di una casa farmaceutica. Mentre si discuteva vedo che gli occhi di uno dei due svolazzavano di tanto in tanto al di sotto del mio mento. Poco dopo mi resi conto che la mia camicetta di tendenza, giallo senape con le rouge, tendeva con lo scollo a V molto in basso, lasciando la puntina della V a metà seno e dando spazio a qualcosa altro che non la sola immaginazione.
Quindi, memore di questo fallimento, il mio obbiettivo è di migliorare la tecnica nel far notare le mie qualità scientifiche attraverso altri generi di qualità.
L’acquisto incauto numero 1 è già stato effettuato e se non sapevate dell’esistenza di questo capo fantastico, bè sapevatelo da adesso: un paio di jeggins neri. Rispondono al nome di jeggins pantaloni a metà tra i leggins e i jeans, che se fossero gli anni 90 li chiameremmo jeans elasticizzati (e nel dubbio ci attaccheremo una staffa, che sai mai che poi ti vengono su per la caviglia) ma siamo nel 2012 e se non volete sembrare mia zia li chiamate jeggins. Da lungo tempo mi vanto di aver osteggiato la calata dei leggins con tutte le mie forze, specialmente quando spacciati per pantaloni, ma i jeggins sono diversi. Quando si acquista un paio di jeggins è meglio andare al negozio digiune, come per gli esami del sangue. Il jeggins, per sua definizione, deve essere stretto ma ciò nonostante una volta indossato permette di mangiare maialini sardi di traverso, che lui si adatta alla nuova bizzarra forma del corpo senza esitazione. Che non è male, se si contano le torte e pasticcini che vengono propinati nelle mille pause caffè e che vengono spazzolati a ritmo costante per riempire gli imbarazzanti momenti di silenzio nella discussione con lo sfigato scienziato di turno.
Adesso viene la parte più difficile, perchè se il pezzo sotto è sistemato, devo trovare qualcosa da mettere sopra che è anche la parte più vicina al viso, ovvero dove immagino che il mio interlocutore stia guardando (il chè, come già dimostrato, non è sempre il caso). E se i pantaloni dicono “il corso di step sta dando i risultati sperati!”, il pezzo sopra dovrebbe dire “quando non sono a step, le mie passioni sono il cinema d’autore francese e l’ikebana” che è un bel discorsone da far fare a una camicetta.
Sabato sono andata alla ricerca di questo capetto dei desideri ma tutto quello che mi sono sentita dire dai capetti è stato “Glastonbury quest’anno era una sacco bello”, “uh, davvero ci voleva un reggiseno qua sotto?!” e “leggere la Bibbia: che divertimento!”, quindi immagino di dover continuare le ricerche.
E saranno ricerche lunghe e penose, perchè come se non bastasse, sono anche limitata nella scelta dei colori. In breve, alle conferenze se sei una schiappa come me vai e ti porti un poster in cui riassumi il tuo lavoro che verrà appeso per un’oretta durante una delle tante pause e tu dovrai fare il cane da guardia da parte al poster in attesa di un avventore, al fine di dare il via a intense chiacchierate scientifiche in cui tu avrai un’epifania che ti permetterà di salvare il mondo, debellare ogni malattia infettiva e vincere il premio Nobel.
Quindi, in questo mondo di scienziati semi-autistici che vagano per i poster bisogna andargli un po’ incontro ed è stato provato scientificamente che se ci si veste in tinta con il poster la mente malata del vostro pari scienziato sarà più facilmente portata a riconoscervi come l’autore di quel lavoro. E questa è l’unica cosa davvero seria di questo post e di cui voglio farvi partecipi, perchè d’ora in poi qualsiasi presentazione pubblica avrete dovrete andare in abbinato con il power-point o le trasparenze e fare i grafici a seconda di che cravatta/maglia/borsa indosserete quel giorno, ricordandovi ovviamente che i vostri vestiti dicono cose e voi volete che parlino bene di voi, o mentano, se necessario.
Mi raccomando, fate mercimonio del vostro corpo, responsabilmente.
Intervention
Avrei voluto raccontarvi di quella volta che sono uscita con uno Svedese e dell’appuntamento pietoso che è stato e di come abbia fatto a trovare l’unico Svedese Asvedese.
Ma non succederà perchè oggi è giornata di intervention. Se non avete ancora fatto partire la canzone adesso è il momento di farlo, apprezzate la gravità dell’organo e iniziate a redimere le vostre colpe, perchè oggi io mi sono dovuta redimere delle mie.
E’ iniziato tutto come un tranquillo Sabato di paura in cui il mio stalker amico mi invita fuori a pranzo, cosa che facciamo praticamente ogni settimana ma già da un pò di giorni sentivo nell’aria l’odore pungente di cazziatone. E il cazziatone arrivò.
Oggetto del contendere sono le mie cattive frequentazioni. Io, che mi vedo con gente che “lavora in una compagnia di cosmetici”, con una ragazza “che non è in grado di seguire il filo di un discorso e a volte cambia argomento senza preavviso” e con un ragazzo “che ha dei pregiudizi sugli altri tipici del Mittel Europeo”. Peccato che la prima faccia la ragioniera in quell’azienda, la seconda cambierà anche argomento ma mette tanta allegria e il terzo è Belga quindi è a tutti gli effetti Mittel Europeo.
Ciò nonostante mi sono dovuta subire un’ora e passa di polemica sulle mie cattive compagnie davanti a un pranzo a buffet che partiva dagli involtini primavera e arrivava alle lasagne passando per il sushi e gli hamburger con le cipolle. Oltre al danno, la beffa.
Mio padre in ventisei anni di onorata carriera da babbo non ha mai messo in questione nessuno dei miei amici ma adesso una qualsiasi persona può arrivare e dirmi chi mi fa bene e chi no. A questo punto richiedo una commissione che censisca i miei Facebook-amici per decidere chi resta e chi se ne deve andare perchè a lui non gli piacciono e così non devono piacere anche a me. A quanto pare le mie facoltà intellettive non bastano e mi servono quelle altrui per decidere: che bel pensiero.
Ma non è tutto. Se non ti piacciono queste persone, non mi chiedere di raggiungerci stasera in un posto dove ce ne saranno due su tre. Chè altrimenti mi viene il dubbio che te stai a rosicà.
Sfigati
C’era una volta il bamboccione, che il caro Tommaso aveva usato per designare coloro cresciuti a pane e bambagia. Ora è venuto il momento dello sfigato, che lascia le melodie da Accademia della Crusca del suo predecessore per un aggettivo da uomo della strada.
Ma chi è lo Sfigato?
Hai più di 28 anni e non hai ancora finito l’università perchè fai i turni in fabbrica? Dicesi “Studente-Lavoratore”.
Hai più di 28 anni, ti comporti come uno che ne ha 18 e passi le tue serate tra una discoteca e l’altra a spendere i soldi di Papà offrendo da bere a tutti, tanto chissenefrega dell’università fino a che c’è qualcuno che mi copre il culo? Sì, sei uno Sfigato.
Hai 24 anni e ti sei laureato con pieni voti ad entrambe le prime sessioni di laurea utili sia alla triennale che alla specialistica, ovviamente con il massimo dei voti, e come se non bastasse hai trovato lavoro prima che finissi l’università e hai dovuto pregarli di farti incominciare dopo la laurea anche perchè il lavoro era, così giusto per fare un esempio, in Svezia? Rimani lo stesso un pò Sfigato. Secchione sarà anche bello ma arrivano certi giorni e ti chiedi: perchè questa corsa? Le ragioni ci sono e sono anche buone. Fino a che ero (ehm… sei. Va bè, qui si parla di me, se non si era capito!) all’università vivevo sulle spalle dei miei genitori e a poco servivano i lavoretti estivi a sbarcare il lunario: le migliaia di euro di tasse universitarie non le coprivano nemmeno mesi di cameriera senza contare l’appartamento e così via. Poi a fare la parte da leone c’è la sindrome da prima della classe che mi affligge dal 1986 e quella è un morbo incurabile. In più, studiare per me non è mai stato difficile: anche nel periodo della mia vita A.F. (Avanti Facebook) trovavo il modo di cazzeggiare su internet, invece di stare sui libri eppure quello che facevo era sufficiente a barcamenarmi senza puntare al 18. Quando ero all’università sentivo che per me quello era il mio lavoro e come tale dovevo dedicargli un tot ore a settimana e un p di devozione.
Con il senno di poi mi chiedo a cosa sia servita tutta quella fretta e che forse a prendersela comoda, magari lavorando 9 mesi con un lavoretto qualsiasi per guadagnare quanto basta per farsi gli altri 3 mesi alle falde del Kilimangiaro o chissà dove. Ma come si be sa del senno di poi sono piene le fossa e adesso a 25 anni mi trovo in Svezia a metà del mio secondo anno di dottorato.
Hai più di 28 anni, non hai ancora finito l’università ma vivi in Svezia? Qui sei uno nella norma. Con il fatto che gli studenti hanno uno stipendio (una miseria, capiamoci, ma è pur sempre qualcosa!) il prendersela comoda in realtà assume più le sembianze di godersi la vita senza troppi stress e, credetemi, l’università svedese difficilmente offre qualsiasi tipo di stress. Per avere il titolo di dottorato devo seguire alcuni corsi con gli studenti della specialistica e nella maggioranza dei casi ci sono due terzi di lezioni e un terzo di esercizi in cui si risolvono in gruppo, con l’aiuto del professore degli esercizi identici a quelli che si troveranno all’esame. Per l’ultimo esame che ho fatto eravamo una quarantina in corso e dopo un paio di giorni dall’esame il professore invia una mail in cui dice che ha valutato solo metà delle prove ma che da una prima correzione generale tutti (!) hanno passato l’esame. E questo era l’esame di Chimica Farmaceutica, che nella maggioranza delle Università italiane miete vittime che nemmeno la peste.
In conclusione, il buon Martone si sarà forse fatto prendere un pò dall’entusiasmo e ha usato un termine d’effetto. Ha dipinto una situazione a tinte grigie con un bello squarcio nella tela con questo exploit: speriamo che ne possa uscire una discussione costruttiva piuttosto che tante polemiche fomentate anche da chi una laurea ce l’ha e non si sa come gli è arrivata tra le mani, vero Maria Stella?