Etichettato: Svezia
Don’t waste your time waiting
Disclaimer: a seguire ci saranno parole di quasi 20 lettere senza un apparente significato. Si sconsiglia la lettura ai deboli di cuore.
Ore 7.58 esco di casa, sicura di quella sicurezza che hanno solo gli stolti.
Ore 8.12 arrivo all’ufficio personale dell’Università e chiedo di Bo Persson. Mi dicono che è in vacanza. Come in vacanza?! Mi doveva preparare un documento! Ah… Come ti chiami? Frou Svedese. Sì… Ci ha lasciato una busta per te.
Grazie mille. Grazie Bo Persson. Mi hai fatto prendere un colpo ma grazie.
Ore 8.30 arrivo ad Arbetsförmedlingen, l’ufficio della disoccupazione Svedese. Tutti iniziano a lavorare alle 8 in Svezia. Tutti, ma non quelli di Arbetsförmedlingen che invece aprono alle 9. Aspetto in una sala d’aspetto calda.
Ore 8.58 con un sorprendente anticipo si aprono le porte dell’ufficio. Una decina di persone attendono ai cancelli tipo concerto a San Siro all’apertura delle porte. Una signora invece di controllare i biglietti ci smista verso i vari uffici. Io vado alla registrazione dei nuovi disoccupati.
Ore 9.02 incontro Sebastian. Mi chiede un documento. Gli do il passaporto. Lo guarda ma si vede che non è soddisfatto. Sarà la foto terribile? Mi chiede se ho un personnummer (tipo codice fiscale). E certo che ce l’ho! Vuoi che te lo reciti a memoria? No voglio un documento con su il personnummer. Ecco quello non ce l’ho. In 5 anni in Svezia nessuno me lo ha mai chiesto. Frou, non ti preoccupare. Giusto dall’altra parte della strada c’è Skatteverket, l’ufficio delle tasse. Te lo rilasciano loro un Personbevis.
Con le palle girate mi alzo e attraverso la strada. Tutti le persone iniziano a lavorare alle 8 in Svezia, tranne quelli di Skatteverket che aprono alle 10.
Mentre la mia fiducia nell’umanità inizia a vacillare vado a cercare un posto caldo in cui aspettare fino alle 10.
Ore 9.20 scopro che anche i bar in Svezia aprono alle 10. Tranne i pressbyran e i seveneleven che però latitano nella zona in cui sono. Trovo una pasticceria sgangherata e prendo un caffè, io che il caffè non lo bevo mai. Inizio a sospettare che possa diventare una lunga giornata e avrò bisogno di ogni connessione sinaptica per sopravvivere alla burocrazia Svedese.
Ore 9.52 con un po’ di anticipo sono davanti a Skatteverket. Ma proprio davanti alla porta come un questuante. In un improvviso sprazzo di positività penso che poteva andare peggio. Poteva piovere.
Ore 10.28 piove. Però nel frattempo una signora di Skatteverket mi ha stampato in 5 secondi 5 il Personbevis. Sebastian e il suo petto villoso hanno redatto un piano per i prossimi 4 mesi con la strategia per trovarmi un lavoro. Più o meno dice che devo cercarmelo da sola e mandare curriculum in giro. Per fortuna che c’è Sebastian e tutti i suoi peli. Racconto a Sebastian che io però non voglio rimanere in Svezia mentre cerco lavoro ma dice che a lui non interessa. Che il suo lavoro è registrarsi e mettermi al corrente del suo brillante piano di lavoro e di cosa devo fare quando sono registrata ad Arbetsförmedlingen. Mi passa una brochure con tutto quello che c’e da sapere, dal titolo “cosa farai domani”. Cosa farò domani? Quello che ho fatto oggi? Cercare di conquistare il mondo? Del domani non v’è certezza. E forse non v’è certezza nemmeno dell’oggi.
Ore 11.46 arrivo a casa ma non è ancora finita. Nel frattempo ho incontrato per strada una mia amica, fatto la spesa e stampato il biglietto del concerto di Sharon van Etten (ah, ecco cosa farò domani!). Più importante ho inviato parte della documentazione a tale Magnus F. dell akademikernas erkända arbetslöshetkassa (a-kassa per gli amici). La documentazione è stata inviata a mezzo postale, come le migliori lettere dei soldati nella seconda guerra mondiale. Svezia, capisco l’arretratezza dei paesi del sud Europa ma da te mi aspettavo qualcosa di meglio. Uno scanner e una bella mail, no? Con tutti quei computer che avevi ad Arbetsförmedlingen non potevo mandarla via mail? No. Quelli vogliono l’originale con la firma dell’unico ed inimitabile Bo Persson (che sarebbe un po’ un Mario Rossi in salsa Italiana visto quanto è comune questo nome e cognome).
Ore 14.05 ho finalmente finito. Ho telefonato pure a Magnus F. che mi ha fatto la pausa pranzo più lunga del mondo ma poi è tornato e dopo avergli notificato i miei quasi successi con la burocrazia svedese gli ho detto che io sono in partenza. Ciao Svedesi, arrivederci a fanculo.
Che alla fine non è la cronaca di questa mattinata a contare ma tutti i giorni in cui ho chiamato qualsiasi ufficio per cercare di mettere insieme le informazioni lacunose che ho trovato sui siti istituzionali, ovviamente tutte in Svedese. È un riassunto dei giorni passati a non avere idea di in che giorno avrei finito di lavorare (anche questo è stato un mistero per un po’!), in che giorno me ne sarei andata e se avrei usufruito o meno di uno sussidio di disoccupazione.
Mi sono fatta venire dei travasi di bile perchè per ottenere il sussidio all’estero, solo per 3 mesi invece che 12. La regola dice che devi aspettare da disoccupato su suolo svedese per 4 settimane prima di potertene andare, mentre la vita fuori dalla Scandinavia va avanti. Queste 4 settimane si possono evitare se tu segui il partner, con cui hai convissuto, perchè lui ha ottenuto un lavoro altrove. Io mi trovavo in una terra di mezzo: il “partner” lavora già altrove e abbiamo convissuto per un mese. Provare che noi avessimo davvero convissuto era un’impresa titanica (niente contratto, a meno che non lo scriva io di mio pugno!). Che facevo? Gli portavo gli scontrini della spesa? Era chiaro che una spesa del genere è per due persone e una pure di bocca buona (lui). E se poi vogliamo andare a fare i precisi, lui non ha trovato un lavoro altrove ma il lavoro già ce lo aveva. Perchè il partner lo puoi seguire ma mica raggiungere.
Per un paio di giorni qualche settimana fa ho fatto cento telefonate, raccontato la mia situazione, detto in Svedese che le loro regole sono molto stupide. In tutta questa frenesia ho perso di vista l’obiettivo, essere felice.
È chiaro che stramaledire persone che nemmeno si conoscono al telefono non aiuta, non è d’aiuto nemmeno rimanere in Svezia da sola per un mese e mezzo, nel mese in cui pare si possa toccare un nuovo record per il minor numero di ore di sole (che culo!). Rimanere in Svezia per cosa? Per avere due spicci in più per tre mesi in cui cerco lavoro? E se il lavoro lo trovassi di qui a poco? Che cosa avrei fatto del mio tempo libero? Sarei rimasta a fare la maglia come una Penelope Svedese, in attesa che i tempi fossero maturi? E se non mi capitasse più un’occasione del genere? E se… E se…
E se invece prendessi in mano le redini, mandassi a quel paese gli Svedesi e facessi un po’ quel che mi pare?
Volevo essere la Giovanna D’Arco dei disoccupati, il Braveheart di quelli che non ricevono il sussidio per delle capziosità ma forse certe battaglie non valgono la pena di essere combattute.
Ciao Svedesi, ciao. Me voy…
Fatto
È fatta.
Ho consegnato la tesi di dottorato, con ben due ore di anticipo sulla scadenza. Perchè fare le cose all’ultimo è uno stile di vita.
È stata un’esperienza. La scrittura è durata sei mesi, di cui solo negli ultimi due o tre è diventata un lavoro a tempo pieno. L’ultimo mese è stata una maratona, sempre di corsa e non si molla un cazzo. L’ultima settimana non saprei come definirla. Ho pianto praticamente tutti i giorni. Ho pianto di rabbia, per il nervosismo, ho pianto di gioia e ho anche pianto perchè ho riassunto in due pagine di ringraziamenti quattro anni di vita, quella fuori dal laboratorio, quella che conta davvero.
Sono stanca mentalmente e fisicamente. Mi fanno male la schiena e le gambe. A me, che il massimo sforzo di questi ultimi giorni era andare dall’ufficio alla stampante.
È una sensazione strana. È come essere arrivati nel posto in cui una fine e un inizio si incontrano, chè la fine di qualcosa è sempre l’inizio di un’altra (che magari questa sembra un’uscita da baci Perugina, ma quando la lessi su un volantino di uno spettacolo teatrale alle medie ne rimasi folgorata). E come sia la fine più o meno si sa.
E del doman? Non v’è certezza, ovviamente. Però qualche idea di massima c’è.
All you need is
(E il caso vuole che quando io ero in quella città la ascoltavo mentre mi perdevo per i vicoletti e ora, che in quella città ci sono tornata per altre ragioni di cui vado ora a raccontare, eccola che ritorna con un nuovo album. Mi piacciono queste sovrapposizioni tra la musica e le mie esperienze. E adesso devo ancora capire dove e quando la riuscirò a vedere: se qui o là. Spero là.)
Sono partita per un viaggio. Più o meno. Avevo accennato a qualcosa tempo fa, avevo alluso a delle regole che mi ero messa e che avrei potuto infrangere. Viene fuori che, alla fine, del foglio delle regole ne ho fatto una palletta e l’ho buttata nel cestino. Io parto, non mi importa.
La volta precedente che mi ero imbarcata in un viaggio del genere dovevo averlo preso più come un viaggio spirituale e avevo sostenuto che ci volesse fede. Ma per una che in chiesa ci va solo per i matrimoni o i funerali, fa scena muta per tutta la cerimonia e si guarda con sospetto attorno pensando a quanto è surreale tutta la situazione, forse rifugiarsi nella fede non è la soluzione. E i fatti lo hanno provato.
Allora cerco di trarre vantaggio dai miei errori precedenti, invece di lasciare perdere un’occasione per paura di rimanerci ancora bruciata. E questa volta è un altro viaggio, metaforico e non, quello in cui mi sono imbarcata e quando si parte è bene fare una lista, per ricordarsi quello che serve, per non dimenticarsi le cose a casa.
Serve un biglietto aereo. Più d’uno, andata e ritorno. Per quella città in cui ascoltavo Sharon van Etten e uno per lui direzione Svezia. Serve un biglietto del treno, come quello su cui viaggio ora, con il mare sulla destra, grigio e arrabbiato come il mare d’inverno, che inverno non è. Ne serviranno altri di biglietti, credo.
Serve pazienza. Per convivere con le spigolosità che ho accumulato nel tempo, per la mia facilità di giudicare qualcosa dalla prima impressione. Serve pazienza per capire le spigolosità altrui e i punti di vista che non sono i miei, a volte così uguali e a volte no. Prendere quegli angoli e guardarli, non cambiarli. Che dire “lo cambierò” non ha mai portato a niente di buono e chissà che tutti quegli angoli non vadano a combaciare un giorno.
Serve un piumone più grande, chè l’estate Svedese è soltanto un ricordo e nemmeno dei più belli.
Serve una scatola in cui riporre tutti il “nostro”, per dividerlo dal “loro”. Ci sono cose che sappiamo solo in due. Cose che credo nemmeno questo blog verrà a sapere. Probabilmente è per questa ragione che mi ci è voluto così tanto a scrivere questo post.
Serve pazienza, che l’ho già detto ma ne serve ancora. Per quando non siamo insieme, che è la maggioranza del tempo. Meno poeticamente, serve uno smartphone, una serie di app di messaggistica online e skype. Preferirei non servissero ma servono eccome. Serve pazienza anche per passare la giornata ad aspettare di parlarsi e poi finire a raccontarsi cosa si è mangiato a pranzo, se c’era il sole o no e se la coinquilina è tornata a casa o è ancora fuori con quello là.
Serve un libro di ricette perchè ho sfoderato i miei più grandi successi culinari degli ultimi 28 anni e adesso sto raschiando il fondo del barile. Che non sono una massaia ma lo spirito da matrona Italiana si impossessa sempre di me in queste occasioni. Serve davvero perchè lui è più bravo di me a cucinare.
Serve dello spazio per riporre i bagagli di esperienze sentimentali accumulati in questi ultimi anni. Tanti piccoli bagagli per me, uno solo grande grande per lui. Alcuni di questi bagagli sono leggeri e si spostano alla svelta, altri pesano e rimangono in vista, a ricordare che ci sono stati e ancora occupano spazio.
Serve un nuovo vocabolario per colmare le differenze lessicali. Le parole di questo vocabolario sono: cara ve, ces!, criminale, riposo gli occhi, tesoro. Dal dizionario sono state cancellate altre parole (alcune di queste non andrebbero mai usate a prescindere): baci baci, branda, buondì.
Servono altri due vocabolari, uno per ciascun paese in cui abitiamo.
Serve un piano, perchè a fare questo avanti e indietro mi sono già quasi stancata. Il piano si sta delineando poco per volta, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, sperando che le fondamenta su cui si trama questo piano reggano. Chè non si sa mai, anche i piani meglio pensati possono andare a finire in niente.
E con questo penso di aver preso tutto.
Si parte.
Det fixar sig
Qui in questo paese lo ripetono sempre: “det fixar sig, det fixar sig”.
Si aggiusta da sè, stai tranquillo, non c’è da preoccuparsi.
Don’t worry ‘bout a thing ‘cause every little thing is going to be alright.
E io non mi preoccupo, o almeno cerco di non pensarci troppo a come andrà finire.
È meglio pensare all’inizio.
All’inizio è bastata una chiacchiera in coda per una birra e un chilometro sotto la pioggia, sotto lo stesso ombrello, che aveva già sbaragliato ogni concorrenza. E per capire dove sarebbe andata c’è voluto solo un incontro in mensa, che quando l’ho visto da lontano arrivare verso di noi, prima con un sorriso e poi con una linguaccia, sentivo le guance riempirsi di un caldo infantile e innegabile. Infine con un lavoro di sguardi e gentilezze durato il tempo di una sera, le intenzioni sono state messe sul tavolo. È stato fin troppo facile.
All’inizio dovevo fare attenzione per trovare le famose sette differenze con quello di prima. Dottorando in una città non sua, dalla quale partirà presto, incontra dottoranda. La materia di studio è la stessa, certe passioni pure, certe uscite anche. Veniva da chiedersi se non stavo per entrare in una storia già vista solo per togliermi di dosso una volta e per tutte i fantasmi di quella di prima. Ma non è la visione d’insieme quella a cui si deve prestare attenzione, bensì alle differenze. E le differenze, nonostante il (poco) tempo per cercarle, sono tante.
Fa male ammetterlo, ma era da tanto che non avevo attorno qualcuno che ci tiene così. Ho fatto due conti, quando dico “tanto” credo di intendere almeno sei anni: c’è da tornare indietro per una serie di storie più o meno senza senso, ammesso che anche questa uno ce l’abbia, per trovare qualcosa di paragonabile. Ci vuole una certa strategia per infilarsi sistematicamente in relazioni in cui lui è coinvolto per il tempo funzionale a fargli avere qualche mero tornaconto. Mi ero dimenticata come ci si sta bene in un paio di braccia più lunghe e due mani più grosse. Che a lasciarsi stare un po’ lì dentro ripenso a tutti questi anni in cui l’ho svangata sempre da sola, contando solo su quello che avevo io, non uno di quei lui, e riprendo fiato da quella fatica.
È successo tutto così in fretta che gli ho dovuto spiegare il perchè delle mie ragioni e della mia scelta, per lui. Dico che mi ha colpito da subito, come mi succede sempre in questi casi. Lui con uno sguardo candido, con quell’occhio di due colori, mi dice che non gli era mai capitato di aver fatto colpo su qualcuno al primo incontro. Rido e non so se crederci. Penso alla mia miopia galoppante, se oltre che alle cose lontane mi sta impedendo di vedere anche quelle ben vicine o se ho acquisito chissà quale super potere, uno sguardo ai raggi X che va oltre le superfici.
Come ogni storia che si rispetti deve esserci un però.
Però lui partirà a fine mese. E se non fosse già troppo poco un mese per conoscersi, io partirò una settimana prima di lui per le mia vacanze, improrogabili causa impegni familiari da compleanno (non mio) con uno zero in fondo, a meno che Paolo Conte non decida di spostare il suo concerto di una decina di giorni.
Ho sempre saputo che se ne sarebbe andato, presto o tardi. Quando ho saputo la data con esattezza però ho sentito il dovere di mettere le mani avanti, ho dettato delle regole. Una parte più razionale di me ha preso il comando e ha ricordato al resto di tutti i voli pindarici (e non) dell’anno scorso, di quella grossa delusione che è la precedente relazione, di cui vorrei dimenticarmi e che invece a volte mi sembra un replay di questa. Questa parte razionale, mi ha fatto dire agli stessi occhi di due colori, che non sapevo se ci sarei stata dopo la sua partenza, ho raccontato per sommi capi le mie ragioni, gli ho fatto vedere qualche cicatrice. Lui non si è scomposto, mi ha fatto vedere le sue cicatrici, simili alle mie, forse più profonde. Dice che è tutta una questione di volontà, e lui quella volontà ce l’avrebbe, nonostante tutto quello che gli è già successo prima.
Di recente ho detto che fissare delle regole è il primo passo per infrangerle.
Manca meno di una settimana.
In ogni caso, si aggiusta tutto.
Sogni caldi/Aquila pericoli
Era da un po’ che non aggiornavo il memorandum dei concerti e visto che ce ne sono stati un paio degni di nota negli ultimi tempi, mentre di tempo per scrivere non ce n’è, ho pensato di metterli insieme e buona lì.
Il primo concerto (che risale a più di un mese fa!) è quello di Timber Timbre. Il biglietto, come al solito, è stato acquistato in un momento di improvviso entusiasmo. Ed è stato acquistato appena prima che i biglietti del concerto andassero esauriti, per cui, questa volta sì, sono andata davvero da sola. Premesso che non è la prima volta che andavo ad un concerto da sola (una volta durante un festival il mio amico mi pianto là da sola a metà pomeriggio dicendo “I’m a bit tired” e un’altra volta la mia amica era prima in ritardo e poi era rimasta imbottigliata nel traffico per ore e quindi mi ero fatta metà giornata da sola) questa volta mi ha fatto un po’ strano essere là solinga in mezzo alla folla. Che puoi guardare il cellulare per cinque minuti come un bimbominkia qualsiasi ma se arrivi con un’ora d’anticipo devi trovare qualcosa da fare. Per ovviare al problema mi sono messa a fare un mini esperimento antropologico e guardavo gli altri astanti del concerto. Tra tali astanti ho riconosciuto il signore che sedeva davanti a me al concerto di Moonface, quello che guardava continuamente l’ingresso come se aspettasse qualcuno che alla fine non arrivò. Anche questa volta era da solo con lo stesso sorriso speranzoso. Mi sono chiesta se il sorriso speranzoso non fosse in realtà un sorriso disturbato. La differenza tra le brave persone e gli psicopatici a me viene difficile coglierle.
Comunque inizia il concerto. Anzi no. Inizia il gruppo spalla. Niente contro i gruppi spalla ma certe volte mi chiedo se non li prendano scarsi apposta. Questo più che scarso era strano. Stranissimo.
Per quanto riguarda il concerto, ammetto che Timber Timbre io non è che li conoscessi proprio benissimo. Ci sono un paio di canzoni che mi facevano venire la pelle d’oca. Come questa e questa. Ma soprattutto la seconda che mi è salita sulle spalle come una carogna durante il film “Stories we tell”. Non li avevo mai visti in faccia questi Timber Timbre e quando un signore sulla quarantina, stempiato, stretto in un completo giacca e pantaloni di una taglia più piccola della sua sale sul palco e si mette a cantare sono rimasta stupita. È questo l’uomo che canta con una voce tremula nel disco o è un impiegato delle poste? Le apparenze ingannano. Rimpiango i tempi di MTV in cui sapevi a cosa andavi incontro.
Il concerto passa tranquillo nella sua ora e qualcosina. Hanno fatto più o meno tutto il nuovo album “Hot dreams” e qualche canzone vecchia ma non la seconda la sopra, of course. Non so se era la situazione, se era il gruppo spalla, se era il concerto in sè ma non è stato poi questo gran che. Bravi, per l’amor del cielo ma di solito quando si ascolta la musica dal vivo si è sempre più coinvolti. Ma non quella volta. Vuoi forse perchè hanno cambiato ogni singolo arrangiamento delle canzoni che hanno suonato che era quasi difficile capire cosa stavano cantando? Forse.
Forse è per questo che ci ho messo tanto tempo a scriverne.
Si vede che mi ci voleva lo stimolo di un bel concerto per parlare della mezza delusione di cui sopra.
Per colpa dei miei genitori che mi hanno cresciuto a pane e Goran Bregovic, quando parte la cosidetta “musica balcanica”* mi si innesca un meccanismo di coordinazione piedi-bacino-spalle e devo assolutamente ballare. Tipo incantatore di sperpenti con il flauto, la cesta e il turbante. Uguale. Però se vai ad abitare in Svezia non ti puoi aspettare di trovare la “musica balcanica” e invece sì: non solo è musica ed è simil-balcanica ma è pure disco!
A farla sono un gruppo che si chiama Discoteka Yugostyle (nomen omen) e son proprio della cittdina in cui abito. E non solo! Due dei ragazzi che suonano nel gruppo lavorano nel mio supermercato di fiducia (ora ex supermercato di fiducia perchè ho traslocato ma il thè PG ce l’hanno solo loro per cui ogni tanto ci torno pure). Uno dei ragazzi (che non ho mai ben capito che ruolo abbia al supermercato) è quello che viene adescato con il biscotto e poi (spoiler) rimane schiacciato dalla lavastoviglie, invece l’altro che penso sia il fruttivendolo è quello che si accuccia e suona la tromba per vendicarsi dello schiacciamento del suo collega. So che sembra non aver alcun senso quello che ho scritto ma a guardare il video si capisce tutto e ci si fa un trip mica da ridere.
Ovviamente, i miei concittadini qui li ho già sentiti tre volte dal vivo, quattro con l’ultimo concerto. Come ogni gruppo beniamino del paese, godono di quell’aurea un po’ tipo Max Pezzali a Pavia ed ogni volta che suonano diventa sempre un evento.
La cosa più bella dei loro concerti sono loro e il pubblico. Nonostante siano algidi Svedesi gli deve scattare la molla pure a loro con la “musica balcanica” e alla fine si vedono scene di gente che si muove più o meno scoordinata e balla come se non ci fosse un domani. Bravi Discoteka Yugostyle!
* “musica balcanica” viene virgolettato perchè mi sembra di fare una generalizzazione spropositata. Poi magari i balcanici non se la prendono, ma io sì.
PS: questo post giaceva scritto e finito da qualche settimana. In realtà c’è ben altro che bolle in pentola di cui dovrei scrivere ma certe cose prima di scriverle bisogna passarci in mezzo. Cose belle, eh. Poi torno. Poi.
Prove di fuga #2: il mercato del pesce e altri scoramenti
È passato più o meno un mese dalla mia dichiarazione d’intenti di lasciare il villaggio in cui, che lo voglia ammettere o no, ho passato più di quattro anni della mia vita. Les jeux sont quasi fait, rien ne va plus qui in Svezia. Mancano cinque mesi alla difesa della tesi e sono scesa in campo per trovarmi un lavoro.
Riassunto della puntata precedente: appena presa coscienza della mia condizione di disoccupata nel giro di sei mesi, inizio a guardare su siti specializzati se qualcuno nel mondo ha bisogno di me, lavorativamente parlando. Sorprendentemente, le offerte di lavoro sono tante e ghiotte. Spesso, anche in posti non dimenticati da Dio, tipo Londra (o zone limitrofe). Armata di buona volontà, pazienza e (poca) coscienza di me stessa compilo un curriculum.
Eccoci, dopo che ho compilato il curriculum ho pure scritto una lettera di presentazione, e quest’ultima impresa si è rivelata ben più semplice. Con una frase a finale ad effetto che ero sicura avrebbe sciolto il cuore di ghiaccio di qualunque selezionatore delle risorse umane, ho mandato quel curriculum ad un’azienda vicino a Londra. E poi a un’altra (sempre a Londra). E un’altra a Copenhagen. E ancora un’altra a Copenhagen (anche se solo un mese dopo scoprirò che non avevo approvato qualcosa in qualche schermata finale perchè nel mio profilo non risulta che io abbia mai mandato un bel tubazzo).
Dopo un mese sono ancora qui, io e il mio bel curriculum e non è successo niente. Niente mail o chiamate notturne di capi di azienda anelanti per avermi nelle loro fila. E la cosa non mi sorprende più di tanto. Il pacco è che non ho nemmeno ricevuto un bel no come risposta, perchè a quanto pare, soprattutto in Scandinavia si risentono e fanno gli incubi se ti devono dare una brutta notizia per cui scelgono la via più facile (per loro): fare gli gnorri.
Per tenermi occupata però ho deciso di partecipare a un imprescindibile evento: una fiera del lavoro.
Già dal nome si dovrebbe subodorare che niente di buono può succedere in un posto del genere. A casa mia, quando si dice “fiera” si pensa alla “fiera d’agosto” o alla “fiera della gallina grigia”, eventi a cui un tempo si andava a vendere il bestiame, ora di quelle origini contadine sopravvive solo un’esposizione di macchine agricole e si trova per di più bancarelle con ciarpame di dubbia provenienza. Raramente si fanno affari sulla fiera, da cui il termine “aver fatto la fiera” quando questo accade. Per questa ragione, la fiera del lavoro (lavoro: sostantivo maschile, concetto intangibile) è un po’ la fiera dell’aria fritta.
Mi dicono che alle fiere del lavoro ci vai e fai networking, business card exchanging (ce-lo, ce-lo, manca), self-promotion e un sacco di altre cose che se le traduci in Inglese sembra che ti hanno fatto studiare. Io alla fiera del lavoro sono andata piena di buoni sentimenti e sono tornata con il mal di piedi e le idee confuse.
Forse era il mio approccio che era sbagliato, sai mai. Mi avvicinavo a uno stand e con un bel sorriso in faccia dicevo a uno di questi rappresentanti di questa o quell’altra azienda il mio nome, cosa faccio nella vita e che conosco/ero interessata a conoscere l’azienda e che volevo sapere di più su possibili opportunità per aitanti (presto) dottori. Al chè la risposta media era “guarda sul sito se ci sono degli annunci”. Che è un po’ la risposta che ti aspetti a una siffatta domanda. La quale domanda però è un po’ la cosa che ti aspetti ti venga chiesta a un evento del genere. Cosa devo andare a chiedergli al tipo dello stand? Allora, a casa tutto bene? Il gatto è ancora costipato?
L’unico scambio un po’ più normale che ho avuto è stato con un ragazzo di un’azienda, quella che fa la gnorri, e che mi ha raccontato un po’ la rava e la fava di com’è lavorare in quel posto lì. Però era tipo una chiacchierata normale, non una roba con dei sorrisi forzati in cui tu mi dici che la tua azienda è il posto migliore del mondo che fa le cose più belle del mondo e che però sì, devo guardare sul sito.
Agli antipodi si registra anche un tizio di un’altra azienda che quando io, ormai vaccinata, gli dico allora guardo sul sito lui mi risponde: “Sul sito?! No! Io per esempio ho mandato il mio curriculum alle risorse umane una volta a settimana per sette settimane. Alla fine è venuto fuori qualcosa che faceva al caso mio e mi hanno chiamato”. Pensavo avessero chiamato la neuro io, ma evidentemente si fa anche così a trovare lavoro. Si stracciano le palle al prossimo.
Comunque non mi do per vinta, sia chiaro! Sta per partire una nuova controffensiva di curricula, uno in particolare a me caro. Un curriculum in direzione Germania sud, che ho pure dovuto farmi fare la foto da un fotografo con lo sfondo bianco, i vestiti della festa (ma solo sopra chè invece i pantaloni erano dei jeans di H&M che stanno insieme con lo sputo) e il sorriso finto.
Che io temevo di fare una faccia alla Chandler ma invece non è venuta poi nemmeno così male.
A-way
Temevo sarebbe successo prima o poi: mi tocca iniziare un post scusandomi per l’assenza. Che poi magari si stava vivendo benone anche senza il mio sproloquiare, sia chiaro, ma mi sento in debito io e lo devo mettere per iscritto.
Sono in debito di qualche storia, almeno di un concerto, un viaggio e di una rubrica “Prove di fuga”, se non di qualcos’altro, ma qui viene sera e c’è tutto da fare (come diceva la mia professoressa di lingue delle medie).
La ragione di questo non scrivere è proprio la mancanza di tempo per l’essere troppo a zonzo e quando non sono in giro sono in casa a fare pacchi, come questa sera, in cui mi sono autoinflitta una reclusione al sabato perchè sono uscita mercoledì, giovedì e venerdì, e se poi mi prende uno scioppone si sa con chi prendersela. E perchè comunque i pacchi non si fanno da soli.
Pacchi, dicevo. Sto impacchettando tutto perchè trasloco. Niente di trascendentale sulla carta, vado ad abitare a un paio di chilometri da dove sono ora, un po’ più distante dal mio ufficio per delimitare geograficamente casa e lavoro, un po’ meno circondata da quella menomata mentale della mia (ormai) ex coinquilina.
Costei è stata citata in questi luoghi ormai due anni fa e lungi da me andare a rivangare istanze passate, presenti e (speriamo di no) future. Però posso dire che ha messo a dura prova i miei nervi comportandosi scorrettamente in ogni modo possibile e immaginabile. Alla fine tutto è andato più o meno per il meglio per entrambe le parti, io ho avuto quello che chiedevo senza scendere al suo becero livello e lei ci ha guadagnato un centinaio di euro e un bilancio stranegativo di punti karma.
Se sono riuscita a superare il mobbing della mia coinquilina negli ultimi mesi lo devo un po’ anche a Christopher Owens, l’ultimo dei cantanti disadattati che mi scaldano tanto il cuore e che mi canta sempre la canzone giusta al momento giusto. Quest’anno con l’inno della buona creanza che ho messo sopra, l’anno scorso con l’album della storia a distanza naufragata penosamente, un po’ di anni prima con delle canzoni bellissime e basta in un disco che si chiama “Father son and holy ghost” che il mio compagno di ufficio aveva sperato in una mia conversione e invece poi viene fuori un capellone biondo, una decina di toni di tinta più chiara di gesù. Tra poco uscirà un suo nuovo album e se tanto mi da tanto parlerà di traslochi, ricerca di lavoro e di una deludente vita amorosa.
Nonostante la recente overdose di Christopher Owens, qualche notte fa mi è apparso in sogno Manuel Agnelli, che anche lui è un po’ un gesù con i capelli più scuri. Mi ha detto (in inglese) che andrà tutto bene, mi ha ricordato quali sono, o dovrebbero essere, le mie priorità e poi è suonata la sveglia.
Credo di aver bisogno di una pausa ma dopo questo trasloco si cambia musica. Figurativamente parlando.
Hey, that’s no way to say goodbye
Questi giorni. In questi giorni ce ne sono troppe da raccontare, alcune allegre, altre meno. Bisogna iniziare con ordine, anche se questa sarebbe la seconda, a voler andare con ordine, ma va bene così.
In anni come questi, senza un posto fisso in cui abitare, circondata da persone che arrivano, passano e (irrimediabilmente) vanno, sono diventata immune agli ultimi saluti. Che, nota bene, non devono essere vissuti come delle estreme unzioni, perchè queste persone continueranno ad essere, altrove, senza avermi più attorno, che a quanto mi hanno detto è una cosa fattibile. E se con il tempo ho perso il dramma aggiunto ad ogni saluto, non ne sminuisco invece il valore. Quando saluti qualcuno per la forse ultima volta credo che sia come riconoscere a quella persona il fatto che ci sia stata per quel lasso di tempo e che la sua presenza fosse stata (più o meno) indispensabile.
Ho visto ogni sorta di saluti.
Ho visto saluti fatti con leggerezza, come se ci dovessimo rivedere il giorno dopo. Una ragazza che è stata qua in Svezia per qualche mese e con cui non ho particolarmente legato, l’ultima sera che era qui ha fatto la strada per tornare a casa insieme a me e arrivate al bivio della strada ci siamo salutate con un abbraccio, di quelli un po’ Svedesi che ti spolveri la spalla a vicenda, e un “dai, ci si vede presto, in Italia o in Svezia!”. E ognuno è andato per la sua strada.
Ci sono saluti fatti come se fossero un film. La mia amica Spagnola dei tempi dell’Olanda l’avevo salutata già la sera prima di andarmene ma la mattina dopo, mentre stavo buttando la spazzatura la vedo all’altro capo del corridoio, che sta per uscire. Anche lei mi vede, rimaniamo un secondo a guardarci e io con gli occhi umidi le dico “P. you are the best”.
Alcuni saluti li ho raccontato già in capitoli precedenti. Fatti da parole sincere e di abbracci strettissimi, di quelli che mettono a dura prova le costole.
Altri saluti invece li ho fatti senza sapere che sarebbero stati gli ultimi, e le persona in questione è attualmente vivente e in salute. Un saluto normale, per quanto fossero anormali quegli incontri, il salutarsi, tergiversare, tornare indietro per un ultimo bacio e poi andare senza voltarsi, lui. Nei mesi a venire ho rivisto al replay quel saluto un’infinità di volte, pesandone i secondi, le pause, a cercare significati lasciati tra le righe, chiedendomi se fossi solo io a non sapere che quello era l’ultima volta che ci saremmo visti.
L’ultimo saluto di questa carrellata si è consumato un paio di giorni fa. A partire, e qui prometto che lo tiro in ballo per l’ultima volta, è quello che se ne va a fucking Cardiff. Ci siamo visti in un pomeriggio di sole in una Copenhagen bellissima, scintillante nella sua semplicità che non è sciatteria ma alto design. Il luogo dell’incontro era il nuovo mercato coperto, una costruzione di vetro con all’interno bar, ristoranti e piccole gastronomie con prodotti da tutto il mondo. Ci sediamo ad un caffè che dà sulla strada, la gente che passa dall’altra parte del vetro. Abbiamo parlato per un paio d’ore di una chiacchiera sciolta sugli ultimi preparativi prima della partenza, i piani, la sua nuova casa. Ci siamo aggiornati a vicenda sugli ultimi avvenimenti delle rispettive vite, io gli ho detto della mia persecuzione e lui della sua stalker Polacca, che non si rassegna alla sua partenza. Pochi riferimenti al passato, uno scherzo da parte sua al fatto che andrà a finire che andrò anch’io a lavorare a fucking Cardiff. A me è uscito un discorso delirante che faceva più o meno così “dovremo ricordarci di questo incontro perchè la prossima volta che ci vedremo saremo diversi” alludendo a “le bellezze che allor più non avrai e che avesti nel tempo passato“ di cui parlava de Andrè. Lui non capisce e mi prende in giro, mi fa vedere il suo principio di calvizie, anche se con quei capelli cortissimi dello stesso colore della pelle è una sfida a trovarla. Insomma, il mio tentativo balengo di uscire con un pensiero profondo è stato mandato miseramente in vacca ma il pomeriggio è stato piacevole e va bene così.
Si è fatto tardi e ci avviamo alla metro, quando scendiamo le infinite rampe di scale mobili di Nørreport manca mezzo minuto all’arrivo del mio treno. Qualche parola di circostanza e quando si sente il rombo avvicinarsi ci abbracciamo, con lo spolvera-spalla alla Svedese, senza convinzione. Salto sul treno e non mi giro.
Tutto quello che riesco a pensare sulla metropolitana è che questo non è il modo di salutarsi.
Però quel matto mi conosce perchè ha detto una cosa vera
La primavera è da sempre tempo di amorazzi ma quest’anno no. Quest’anno è arrivata La Persecuzione.
Penso di essermi lamentata a sufficienza di quanto sia piccolo un posto in cui ci sono sì e no centomila abitanti. Il problema è che di questi centomila ho come l’impressione di imbattermi sempre nella solita ventina di persone. Chè poi alla fine non è vero, perchè quelle due volte, due di numero, in cui mi è capitato di incontrare qualcuno di interessante questi sono spariti per sempre nella troposfera e tanti saluti.
Comunque, posso lamentarmi (inutilmente) finchè voglio ma se adesso c’ho La Persecuzione è per un buon 80% colpa mia. La mia attitudine alla vita è un po’ quella di Candy, che non capisce che in orfanotrofio la trattavano una pezza, che Anthony muore ma lei corre per le colline ad ogni santissima sigla. E sono abbastanza convinta che essere Candy nella vita sarebbe perfetto se solo gli alberi fossero di zucchero filato, i fiumi di succo di mirtillo e la terra fosse cioccolato. Ma la terra è fatta di terra, gli alberi di foglie e i fiumi di acqua fetente, quindi Candy alla fine va a casa irrimediabilmente con le pive nel sacco.
Appurato che per l’80% è colpa mia, bisogna pur spiegare di chi è il restante 20% di colpa.
Una settimana fa ero al pub con amici e ho malauguratamente abbandonato la giacca su un attaccapanni. Il caso vuole che davanti all’attaccapanni si va a sedere un tizio alto, niente male, con un accento esotico: la suddetta Persecuzione. Quando vado a riprendermi la giacca ne approfitta per iniziare una conversazione. Se al primo momento il buon senso di non dargli corda stava prevalendo, ho perso ogni controllo della mia volontà quando mi ha detto che era Irlandese. Ci sono quelle nazioni per cui abbiamo dei preconcetti tali per cui siamo convinti che adoreremo qualsiasi suo abitante e per me uno di quei pochi angoli del mondo è l’Irlanda. Dopo qualche minuto mi accorgo che il suo amico che sedeva affianco non sembrava proprio l’anima della festa e quindi mi dico “dai, povero Irlandese che si è appena trasferito qui, non lo posso far morire di noia ma devo assolutamente parlargli per infondergli gioia e ottimismo in questa terra inospitale”. Perchè farsi i fatti propri certe volte per me non è un’opzione.
Oltre ad avere problemi con il concetto di “fregatura” e “generosità” sembra che abbia qualche problema con il concetto di “ironia”. Perchè io avrei potuto accorgermi di quale cul de sac stavo imboccando se avessi dato peso ad elementi della conversazione che emergevano fin dall’inizio.
Come quando io ho fatto una battuta sui complottismo dilagante e lui ribatte che Google e Facebook ci spiano e che ne dobbiamo parlare piano perchè lui ha dei segreti da rivelare. Era una battuta? No.
Come quando mi dice che lui ha brevettato dei programmi per proteggere la privacy di tutti i computer privati ma l’NSA li sta osteggiando. Era una battuta? No.
Come quando dice che l’anno prima lo ha passato a lavorare per un’impresa caritatevole. E io me lo immaginavo in una landa sperduta a scavare pozzi in mezzo a bambini festanti e invece dopo si scoprirà che era a fare il tuttofare per una santona in India che ha millemila proseliti. Era una battuta? No.
Però quando i miei amici sono usciti e io aspettavo che finisse la birra per andarli a raggiungere assieme a lui in un altro locale, non avevo messo insieme ancora i pezzi del puzzle. Tutto è diventato molto più chiaro all’entrata dell’altro locale, quando il buttafuori gli chiede la carta d’identità e lui si rifiuta di mostrargliela. Perchè è chiaramente più vecchio di 24 anni e perchè, cito, “sono le persone come voi che seguono le leggi senza pensare al loro significato che danno origine alle dittature”. Di tutti i posti per fare una filippica sulla politica e il lavaggio del cervello del mondo moderno bisogna proprio scegliere l’ingresso di un locale e dei buttafuori che non vedono l’ora di tirarti un cartone in faccia visto che sono sotto la pioggia battente da tre ore? Sì, di tutti i posti bisogna proprio scegliere quello, a quanto pare.
Se il buon senso di cui sopra avesse avuto il sopravvento almeno a questo punto, lo avrei salutato e sarei entrata nel locale. Però. Però in quel momento di indecisione ho pensato che non la potevo dare vinta ai buttafuori rissosi, anche se il mio destino era di rimanere sotto la pioggia con uno che iniziava a dare i primi segni di squilibrio, non potevo schierarmi con gli uomini in divisa. E all’urlo mentale di Hasta la revolucion siempre siamo andati a ripararci dalla pioggia in un bar vicino.
Lì, con i capelli e i cappotti zuppi, in un piccolo remake dell’ultima scena del Titanic, deve essergli partito l’embolo di fare lo psicologo perchè ha iniziato a dirmi una serie di cose che sì ce lo avevano un capo e una coda, ovviamente mischiate a boiate pseudo-spirituali, giusto per confondermi e vedere se ero attenta (tipo che mi chiede se ero nata nell’87 perchè il suo astrologo dice che quelli dell’87 hanno un’alta affinità per lui. Tuttavia è possibile che i miei ascendenti/congiunzioni astrali/Saturni in case sfitte possano essere un’eccezione alla regola).
Di vero, mi ha detto che sono una che è molto “choosy“, e non penso si riferisse alla Fornero e al mercato del lavoro. Dice che deve aver detto o fatto qualcosa di sbagliato (vuoi una lista? c’è sopra) e che mi sono persa in mezzo ai miei dubbi e a chissà quali pensieri.
Di vero, mi ha detto che secondo lui per un micro-istante mi ha visto che ero interessata.
Divero, mi ha chiesto qual era la mia storia, cosa mi era successo per farmi diventare così esigente. Io non ho voluto rispondere per non riversare sulle spalle del primo sconosciuto con le rotelle un po’ mischiate le mie storie para-adolescenziali, uguali a tante altre. Dice che secondo lui non sono stata lasciata all’altare e non sono un damaged good ma che c’è qualcosa che mi blocca. E allora una risposta un po’ più seria gliela do, per lo sforzo che ci sta mettendo o perchè è solo fortunato e sta andando a toccare tutti i tasti dolenti che ci sono: gli dico che mi affeziono alle persone tanto e troppo in fretta e poi faccio fatica a metterle via quando le strade si separano. Che è un po’ la verità e un po’ un modo per dirgli che non ce n’è.
Mi ha lasciato il numero che non ho mai usato e la serata è finita lì.
Non fosse che vivo in un buco di culo. Il fine settimana dopo lo ritrovo allo stesso pub (ci sono due pub in questo posto dimenticato da dio), allo stesso identico posto di dove l’ho incontrato e quando faccio per raggiungere i miei amici dopo averlo salutato alla svelta mi manda a quel paese, va a parlare con la mia amica in coda per il bagno e le chiede chi sono quelli seduti con noi, e, per un revival degli escamotage da scuola media, mi urta mentre sono al bancone per una birra.
Prendersi un fuck you gratuito e una mezza spallata da uno che se pure c’ha visto bene si staglia come un personaggio da neurodeliri non mi avrebbe disturbato, fino a quando non l’ho visto in palestra. Cielo. Si dirigeva verso il corridoio da cui io stavo uscendo non lasciandomi scampo ma la mia volontà di non incrociarlo è stata talmente forte che ho fatto uno di quei numeri da Pantera Rosa, di quando ti appiattisci dietro uno stipite, lasci entrare la persona e poi ti svicoli alle sue spalle. Tutto con molta nonchalance, come se lo facessi ogni giorno.
Le possibilità di incontrare La Persecuzione in ogni angolo possibile di questa cittadina sono ancora alte ma io ho visto un sacco di episodi della Pantera Rosa e sono determinata a usare tutti i trucchi che conosco per non dovermi sentir dire cose che già so di me. Anche se il giorno dopo quell’incontro ero un po’ provata nel bene e nel male, chè la verità brucia sempre un po’ sulle ferite scoperte.
Canzoni da un altro amore
(Il titolo ha una precisa ragione di essere e non sono semplicemente in una fase iper-melodrammatica: se la precedente recensione del concerto era la traduzione italiana del titolo dell’album di Moonface anche qui seguo lo stesso schema. Oh, che gioia che mi dà fare le cose con uno schema! Anche se a dire il vero questa è la traduzione del primo EP di Tom Odell, la traduzione dell’album è Lunga via giù ma mi piaceva più Canzoni da un altro amore, un po’ perchè si traduce meglio e un po’ perchè calza di più con la storia che vado a raccontare. A voler ben vedere, anche Lunga via giù ha un suo senso visto che il concetto che vuole rappresentare è che ci sono miliardi di modi di incasinarsi l’esistenza e che al peggio non c’è mai fine. Comunque il post è mio, il titolo pure, quindi poche storie e chiudiamo questa parentesi infinita)
La stagione concerti di un certo spessore è continuata questa settimana con Tom Odell. Tom chi? No, dai, questo almeno è semi-famoso. Ha vinto i Brit Awards l’anno scorso e quest’anno è stato almeno nominato. Io come al solito non so se lo radio in Italia lo hanno nemmeno mai passato, ma mi affido alla clemenza dei critici musicali nostrani e spero che il mondo sappia almeno la sua canzone più famosa.
Io, per conto mio, che vivo attaccata a Spotify ma che ascolto poco o niente la radio, lo avevo già sentito in qualche playlist e lì per lì non ne ero rimasta impressionata. Insomma bravo, ma non mi faceva smuovere al punto da mettermi in moto un Giovedì sera per andare a sentirlo suonare fino in Danimarca (va detto che dalla porta di casa a mia a Copenhagen centro ci vuole un’ora giusta, quindi poi tutto questo viaggio non è!). Poi è successo il miracolo: ho intercettato quasi per sbaglio la ripresa di un suo live su youtube, lo stesso che ho messo in cima e, spoiler!, anche in fondo al post. Ed è stato proprio amore a primo ascolto, perchè se anche era un video a me veniva voglia di ballare, cantare le canzoni o addirittura fare solo il labiale credendoci tantissimo, che forse è ancora peggio. E quindi ho comprato il biglietto. Uno solo, come al solito di fretta e senza pensarci troppo, presa dall’ansia che finissero.
Solo il giorno dopo ho scritto alla mia coperta di Linus che abita a Copenhagen e gli ho chiesto se voleva accompagnarmi e questo a scatola chiusa ha comprato il biglietto. Tempo due giorni è successo quello che ho già spiegato, e cioè che lui si trasferirà presto a fucking Cardiff per lavoro, quindi l’innocente concerto diventa d’improvviso una delle nostre ultime uscite, se non proprio l’ultima.
La serata inizia tranquilla, con un panino in stazione e il racconto dell’impresa di trovare un lavoro in 48 ore d’orologio e le mie mille congratulazioni. Arriviamo al concerto e il leit motif della conversazione per tutta la serata è la possibilità di ricominciare dall’inizio, perchè tutti facciamo cazzate e ci lasciamo alle spalle persone che non vorremmo più vedere, quindi avere la possibilità di andare in un posto totalmente nuovo è un indulto per il tuo karma. Ma, come scopriremo presto, il karma è una troia, con o senza indulto.
La ridente città di Copenhagen conta all’incirca un milione di abitanti. A spanne, non ci saranno state più di mille persone al concerto, quindi la possibilità che la ex ragazza del mio amico fosse presente al concerto è una su mille. E come Gianni Morandi profetizza, una su mille ce la fa. Io, grazie al cielo non l’ho incontrata, l’ha vista lui sulla via del bagno. Lui è tornato impietrito e mi ha raccontato l’accaduto: con lei che gli chiede insistentemente con chi è venuto e lui che non le risponde, perchè se non facciamo delle scene che nemmeno a Un posto al sole non stiamo bene. Da quanto ne so, lui a un certo punto, ormai un po’ di tempo fa, si era costituito dicendole della mia esistenza, anche se tecnicamente quando io c’ero loro non erano insieme, e lei ha addossato ogni responsabilità dell’accaduto su di me. Non sul suo ragazzo, che se non ricordo male c’era anche lui!, ma solo su quel serpente concupitore che sarei io. Immaginiamo quindi lo spirito con cui abbiamo affrontato il concerto, lui che si stramaledice per essere andato al bagno proprio in quel momento e io che mi guardo le spalle da una tizia che nemmeno so che faccia abbia. Tom, salvaci tu!
Tom, infatti sembra un po’ un angelo, arriva sul palco con una camicia bianca presa direttamente dalla pubblicità della Dash di un paio di taglie più larghe della sua, portata a mo’ di giacca con sotto una canottiera nera e con un capello biondissimo con un taglio che se io fossi il suo parrucchiere non mi vanterei e che nell’insieme lo fa sembrare ben diverso dai cantanti per cui le ragazzine impazziscono al giorno d’oggi. Perchè Tom Odell ha 23 anni e non è brutto, canta canzoni d’amore e sfido io una teenager qualsiasi a non avere un debole per lui (come si vede nel video sopra, con quindicenni in delirio che gli urlano I love you a ogni pie’ sospinto). Infatti io mi ero preparata a farmi largo tra una fitta coltre di ormoni e di fare la parte della tardona in mezzo a tutta questa gioventù: viene fuori che Tom piace a tutte e tutti, senza differenza d’età o sesso, anche se sospetto che le giovanissime siano state scoraggiate a venirlo a vedere dal prezzo del biglietto che non era proprio gratis.
E già che ci siamo vorrei fare un appello al pubblico Danese che va ai concerti: la volete chiudere quella cazzo di bocca e tacere per tutta la durata dello spettacolo? Già è da maleducati parlare quando il gruppo spalla apre il concerto ma che cosa avrete da dirvi di così importante per non riuscire a tenervelo per voi nemmeno quando è il turno dell’artista principale? Pubblico Danese, sei un po’ ingodibile, sappilo.
Tom Odell suona il piano, ma non è Raphael Gualazzi o Renzo Rubino, anche se pure lui quando suona non sa stare fermo, ma a noi ci piacciono quelli con un po’ di ADHD. Poi ha alle spalle una band con un batterista, un chitarrista e un bassista/contrabbassista che ci conferma senza ombra di dubbio la nota teoria che il bassista di ogni band è sempre il più figo. Tom Odell è di scuola Sprigsteeniana, perchè inizia le canzoni contando One Two Three Four, da non confondere con la scuola dell’istruttore di spinning con le chiappe di marmo che invece conta a decrescere.
Se durante il concerto di Moonface avevo avuto un momento catartico in cui tutte le cose del mondo avevano senso e io ero in pace, così non è successo questa volta, ma non si può avere tutto! In compenso penso che lo spettacolo nel complesso sia stato davvero memorabile. Lui ha cantato e ha tenuto alta il livello dell’esibizione per tutto il concerto dall’inizio alla fine: le canzoni sono abbastanza varie e per questo si sono alternati momenti di piano e voce a pezzi quasi gridati. Seguono una serie di paragoni che mi sono venuti in mente durante il concerto e che per i palati più fini suoneranno come delle bestemmie in chiesa: Leonard Cohen ventenne preso bene, Glen Hansard senza chitarra, Jeff Buckley in un giorno felice, Elton John etero, Joe Cocker con la voce di un ragazzo. Spero di non aver fatto svenire nessuno.
Specialmente le ultime tre canzoni che ha fatto, See if I care, I just want to make love to you (ovviamente non sua!) e Cruel (che è quella qua sotto), hanno alzato la temperatura della sala del concerto, come se già non ci fosse già caldo abbastanza, e il concerto ha preso una piega inaspettata verso un blues da ascoltare con le tapparelle abbassate, intenti in ben più dilettevoli attività, che è stata una nota assolutamente gradita dalla sottoscritta.
A fine concerto, ho notato con piacere che il mio accompagnatore si era ripreso (un po’) dall’incontro e il concerto gli era piaciuto davvero. Per evitare le code al guardaroba e altre piazzate ci siamo fiondati al guardaroba quasi subito e poi fuori sotto la pioggia, con ancora un po’ di blues addosso, ma se questa deve essere la fine almeno l’abbiamo chiusa in grande stile.