Una lista di cose divertenti che mi sono capitate nelle ultime 20 settimane

20 settimane fa, giorno più giorno meno, stavo tornando da una lunga settimana di lavoro a Roma. Era stata una bella settimana, intensa, ma finita con un mojito a tarda notte a Trastevere e abbracci con altri scienziati ormai amici, quindi le cose positive erano sicuramente di più di quelle brutte.

Al mio ritorno ad Albione sapevo che avrei avuto una ventina di giorni intensi: una settimana a lavoro, un’altra conferenza, ancora qualche giorno a lavoro per finire le cose più urgenti e poi, finalmente, una settimana di vacanza in Sardegna.

La seconda conferenza, più vicina, a Windsor è arrivata quasi senza che me ne accorgessi: per tre giorni e tre notti le conversazioni di lavoro e quelle scientifiche sono state lubrificate da ottimo cibo e un bel po’ di birra, sotto gli occhi vigili delle foto della famiglia reale, che erano su ogni muro dell’albergo. Poi, giusto il tempo di tornare a casa e stressarmi per un’altra settimana scarsa, che stavo per imbarcarmi su un volo per la Sardegna.

Quando arriviamo in Sardegna ci sono alcune certezze che puntuali si manifestano:

  • MaritoSardo conosce di sicuro qualcuno che lavora all’aeroporto e che lo saluterà appena sceso dall’aereo con abbracci e cinque alti.
  • I nipoti si manifesteranno a casa in tre, due, uno… PUF!
  • Non moriremo di fame o di sete

E infatti, dopo i saluti di rigore con gli steward di terra e i nipoti, siamo passati al terzo punto.

Vuoi non mangiare una pasta ai frutti di mare?
E un mojito seduti sulle mura di Alghero al tramonto? Ecco, invece di uno fai due.
Lo Spritz alla terrazza panoramica?
La Dinamo gioca la finale scudetto: fainè e Ichnusa?

Un’altra costante delle nostre vacanze Sarde è che per evitare il traffico ci muoveremo solo ed unicamente in Vespa. E quindi su e giù verso la spiaggia e il centro, evitando le buche più dure, sulla strada sterrata in attesa del nuovo manto d’asfalto e sui sampietrini del centro.

Una settimana in Sardegna passa in fretta e sull’aereo del ritorno mi viene un dubbio, che trova conferma una volta arrivata nel bagno di casa: sono incinta.

Prima che mi arrivi la troupe di RealTime a casa, vorrei specificare che a causa della mia fida compagna amenorrea non è sempre facile capire se si è verificato il miracolo della vita o il disastro del ciclo irregolare. Ero tra la quinta e la sesta settimana, che significava che il fattaccio si era consumato al mio ritorno da Roma e che mi qualificavo già come una terribile puerpera: ebbra e senza paura di prendere una buca in moto. Molto bene.

Per dare un contesto, il fatto che fossi rimasta incinta non era una scoperta sorprendente Annunciazione-style, avevo smesso di usare anticoncezionali a Ottobre dell’anno prima ma, come anticipato qualche riga fa, il ritorno di una prepotente amenorrea che pensavo di aver salutato per sempre alla fine della scuola superiore ha fatto sì che avessi sì e no quattro cicli in nove mesi. In più negli ultimi sei mesi, oltre a un buon numero di amiche che raccontavano di gravidanze in corso, ne avevo altre che mi dicevano di quelle finite prima del tempo. Un fatto molto più comune di quanti si pensi ma che spesso non viene raccontato. Per questo, nonostante fossimo contenti di allargare la famiglia, abbiamo preso le settimane successive come venivano, consci che sarebbe potuta andare male.

Però questo non vuol dire che non ci si possa fare una risata, infatti ho iniziato a prendere appunti di tutte le cose divertenti che mi succedevano.

La prima cosa esilarante è che, essendo ad Albione, mi trovo ad affrontare un sistema sanitario che conosco (fortunatamente!) poco. Dopo il test di gravidanza telefono all’ambulatorio del paese e mi chiedono di passare quanto prima. Io arrivo bella come il sole, ancora un po’ scombussolata dalla notizia, credendo che mi facciano delle analisi per confermare la gravidanza. Invece la signora alla reception mi passa un foglio da compilare e una busta di plastica piena di libretti e brochure. Compilo il modulo e riconsegnandolo e le chiedo, ma quindi quando devo tornare? Dice che arriverà una lettera a casa con un appuntamento con l’ostetrica. Quindi non fate altri esami? Vi fidate che io sappia fare la pipì su un bastoncino? Io non so se mi fido di me in questo momento. Sì, ci fidiamo di te, torna tra tre settimane più o meno.
Nel dubbio, io un’altra pipì l’ho fatta, questa volta su uno di quei test digitali, chè quelli col più e col meno non mi sembravano particolarmente attendibili, e in effetti anche la tecnologia ha decretato che sì, ero proprio incinta.

Dopo qualche giorno l’ostetrica mi chiama al telefono per fissare l’appuntamento. Mentre discutevamo su un orario che potesse andare bene, io che cercavo di contrattare per un appuntamento alla mattina presto perchè mi risultava più conveniente col lavoro, ecco che mi trovo questa signora all’altro capo del telefono con la voce ferma ma gentile che mi istiga a mentire: “Inventati una scusa! Digli che devi andare dal dentista!”.

In realtà io non mi potevo inventare scuse. Lo avevo praticamente detto a parecchi dei miei colleghi da subito perché lavorando in un laboratorio chimico è rigorosamente proibito andare in laboratorio, soprattutto nel primo trimestre. Questo comunque non ha evitato che ci siano stati momenti divertenti. Come quella volta che il dottorando, tenuto all’oscuro di tutto, voleva a tutti i costi che andassi con lui in laboratorio a vedere dove aveva lasciato i suoi campioni. Quando una mia collega, provvidenzialmente, si mette in mezzo e dice che andrà lei a vedere i campioni, lo studente ribatte “Ma io volevo Frou!”. Al ché la mia collega praticamente lo prende di peso e lo porta in laboratorio.

Un altro luogo in cui non ho potuto mantenere il riserbo è stato dal dentista, visto che avevo un appuntamento per fare delle lastre di controllo. Visto il mio stato, le lastre non si potevano fare, quindi è stato optato per una controllo solo visuale. Alla reception quando stavo per pagare la notizia che fossi incinta si era già sparsa per tutto lo studio e un dentista (mai visto nè sentito prima!) mi ha rifilato un campione di dentifricio specificando: lo usi che è buono ma non adesso, contiene parecchio fluoro e non va bene per chi è in gravidanza.
Grazie del pensiero e grazie per non sapersi fare i fatti propri!

MaritoSardo è per definizione una fonte inesauribile di ilarità ma in questo periodo ci ha regalato grandi perle. Per esempio, un giorno ci stavamo facendo i fatti nostri e lui dal nulla mi guarda e esclama: “Ma quindi tu adesso sei come un mega esperimento in corso per mesi!”. Ok, questo è sicuramente un modo di vederla, se sei uno scienziato senza remore morali, se sei mio marito mi aspetterei un po’ più di calore umano, ma va bene anche così.
Un’altro momento altissimo di MaritoSardo è stato un paio di settimane fa, quando gli ho detto che l’udito del bambino si dovrebbe essere ormai sviluppato e che quindi avrebbe potuto iniziare a fargli sentire qualcosa. In meno di due secondi aveva già acceso Netflix e fatto partire Ritorno al futuro.

Un altro aspetto interessante che ha generato qualche risata è stato l’abbigliamento pre-maman. Intanto, mettiamo in chiaro che chiunque disegni abiti pre-maman deve o odiare le donne, soprattutto quelle in gravidanza, o ambire a un posto di prestigio all’inferno. La gran parte delle cose pre-maman che si vedono nei negozi (pochissimi!) o in internet si differenziano in tre macro categorie: (1) sacchi di iuta per espiare i peccati del mondo, (2) uovo di Pasqua con fiocchi e (3) cose inutilizzabili dalla dubbia praticità. La fortuna ha voluto che fossi dotata, almeno fino ad ora di una pancia molto gestibile: praticamente fino alla fine del quarto mese sembrava che avessi esagerato un po’ troppo coi dolci, nell’ultimo paio di settimane invece si capisce che no, le torte non c’entrano. Ma questo non vuol dire che i tuoi vestiti ti entrino lo stesso e nemmeno che tu possa comprare già abiti pre-maman. Vivi in un limbo in cui ogni cosa è o troppo stretta o esageratamente larga. Il mio cruccio principale erano i jeans, dall’inizio di Settembre non riuscivo più a chiudere la zip e il bottone e i pantaloni pre-maman hanno tutti una mega fascia in vita che in teoria dovrebbe coprire la pancia ma io potevo usarla come marsupio porta biscotti, visto che di pancia non ne avevo. Dopo lunghe ricerche sono venuta a conoscenza di una specie di prolunga elastica che estende i pantaloni (https://www.amazon.co.uk/gp/product/B01N1U1NCY/ref=ppx_yo_dt_b_asin_title_o00_s00?ie=UTF8&psc=1) e andatevene a quel paese stilisti pre-maman dei miei ciuffoli.

La dimensione della pancia è stato un argomento di conversazione che ha suscitato parecchie domande da parte di una categoria di persone che vanno da parenti stretti a lontani conoscenti e che riassumeremo sotto l’epiteto di “la ggente”.
La ggente mi ha fatto notare con apprensione che avevo una pancia troppo piccola. Vi assicuro che sono incinta, state sereni.
La ggente si preoccupa della capacità linguistiche della mia progenie. Parlerà Inglese e Italiano, sarà un inizio confuso ma in qualche modo ce la farà.
La ggente è confusa circa il fatto che voglio partorire in Inghilterra. Loro credevano lo avrei fatto in Italia, come se quando mi si rompono le acque potessi comodamente imbarcarmi su un volo Ryanair e portare le mie terga su suolo italico affinchè il primo respiro di mio figlio sia di aria bianca rossa e verde.

A proposito dell’ultimo punto, come accennavo all’inizio, e come mi faceva giustamente notare la ggente, ho affrontato e affronterò la gravidanza in Inghilterra seguendo, come ha esclamato estasiata la mia zia ginecologa “il protocollo Inglese!”. A sentire questa mia zia, in Inghilterra, vuoi perchè manchino i soldi al sempre più malmesso NHS, vuoi perchè i geni vichinghi sono ancora presenti sotto agli strati di birra, l’esperienza della gravidanza è stata de-clinicizzata. Non vogliono farti sentire come un malato e per questo, a meno che tu non abbia complicazioni, non vedrai per tutti i nove mesi nemmeno un ginecologo o un dottore ma sarai seguita da un’ostetrica.
La mia ostetrica è una donna sulla sessantina che ti accoglie sempre con un sorriso rassicurante alle visite (in 20 settimane 2 visite, quindi non ho una casistica estesissima). Con calma ti spiega gli esami che ti fa o quelli che ti raccomanda di fare e quando avevo domande o ho notato piccole anomalie, lei mi ha risposto sempre con “Doooon’t worry. It’s normal.”. Io credo che dentro di lei viva un rastafariano che canta incessantemente “Don’t you worry ‘about a thing ‘cause every little thing gonna be all right” però fino ad ora la tecnica Bob Marley con me ha funzionato.
L’ostetrica annota i progressi e i risultati degli esami su un quaderno verde che al momento è un ibrido tra una smemoranda delle superiori e un album delle figurine Panini, che nell’era della tecnologia e degli smartphone è molto vintage. Mi mancano Maldini, Baresi e Baggio poi ho finito.

Le altre figure mediche che abbiamo visto (anche qui due volte fino ad ora) sono quelle che fanno le ecografie.
La prima volta a 11 settimane per vedere che effettivamente ci fosse qualcosa e che non ci fossimo sbagliati a fare la pipì. L’ecografa non ne aveva chiaramente voglia. Ci ha liquidato in dieci minuti dandoci una stampa dell’ecografia che un ottimista definirebbe “d’ispirazione futurista” visto che era mossa, dopo averci assicurato che avevo in grembo un essere con quattro arti e una testa.
La seconda volta, giusto una settimana fa, ci è invece toccata in sorte un’ecografa che ha contato tutto quello che era umanamente contabile. Oltre a passare in rassegna le parti del corpo che sono soliti a misurare durante questa ecografia, ha anche contato le vertebre, le dita dei due piedi e le dita di una mano (l’altra era un po’ nascosta) perchè a dir suo, era un piacere farmi l’ecografia e si vedeva tutto molto bene.
L’ultima cosa che ha contato è stato un gigantesco scroto in mezzo alle gambine, inquadrato in un fotogramma degno di un film a luci rosse, dove sembrava che il bambino si fosse seduto su un tavolo di vetro e noi sotto a guardargli le vergogne. “It’s a stinky boy!“, come ha commentato la mia collega ma né io né MaritoSardo avevamo preferenze quindi prendiamo la notizia del mega scroto con gioia, come avremmo preso la sua assenza.

Sono state 20 settimane lunghe e in cui abbiamo riso tanto, ballato e cantato parecchio e in cui abbiamo cercato di concentrarci sulle cose positive. Siamo molto felici.

(Andate e) ritorni #1

Nella vita bisogna darsi delle semplici regole per facilitarsi le cose.

Coltivare le mie passioni per quanto peregrine siano e dedicargli un po’ di tempo in modo costante (compatibilmente agli altri miei impegni), essere gentile con gli altri sperando che a loro volta siano gentili con te, non rimuginare troppo a lungo e non restare arrabbiata per cose per cui non ne vale la pena.*

E non tornare nei posti in cui sono già stata.

In un travisamento totale delle teorie di Eraclito io decido di non inzupparmi due volte nello stesso fiume (inteso come luogo e non come tempo). I posti in cui sono già stata, catastrofi permettendo, sono sempre lì. Il problema è che tornando in un futuro prossimo le persone che c’erano non ci potrebbero essere più e se pure ci fossero le intenzioni e le sensazioni non sarebbero le stesse. Il ritorno a lidi già visti è un invito irrinunciabile a rimuginare, male!, fare paragoni sul passato e sul presente, male!, con il rischio di entrare in una spirale discendente che non giova a nessuno, malissimo!.

Per quest’anno non cambiare, stessa spiaggia stesso mare con me non attacca.

Poi succede che in certi posti ci devi tornare perchè le situazioni lo richiedono. Proprio a me lo chiedono, mannaggia! E me lo richiedono nel giro di qualche mese in due posti diversi. Questo è il primo post di due (forse) sui ritorni a luoghi che mi sono stati cari.

Il primo luogo in cui sono tornata è la Svezia. Visto che il blog si chiama(va) appartamento Svedese non è difficile credere che la Svezia sia stata lo sfondo di un bel pezzo degli anni passati. 5 per l’esattezza, seppur con alcuni intervalli.

La settimana scorsa sono tornata in quei luoghi perchè la mia coinquilina di allora finiva il suo percorso di dottorato e avendone condiviso io metà con lei, di cui sei mesi sotto lo stesso tetto, ero precettata. Nulla contro la mia volontà, sia chiaro, ma di sicuro era qualcosa che avevo cercato di evitare durante gli ultimi due anni.

La permanenza è stata di quattro giorni: uno per chiudere i conti (bancari) con il passato, il secondo per presenziare alla cerimonia di passaggio della mia coinquilina, il terzo per ballare e il quarto per portare tutto a casa davanti a un tè nell’aeroporto più bello che esiste (secondo me).

Il primo giorno ho fatto tutto quello che secondo le mie regole non avrei dovuto fare. Sono andata con la mia valigia (reale e non) in giro per la cittadina. Avevo qualche commissione da fare ed era già primo pomeriggio. Senza esitazione sono andata a colpo sicuro nei negozi e negli uffici in cui dovevo andare, solo dopo mi è sovvenuto che dopo due anni e un po’ ogni cosa era dove l’avevo lasciata. Non mi era sovvenuto che qualcosa potesse essere cambiato e infatti nulla era diverso. L’unica differenza era stato uno scambio tra qualche negozio: Lindex era al posto di Indiska, che era dove prima si trovava Gina Tricot, mentre Ålhens si era trasferito dive prima c’era Lindex (che al mercato mio padre comprò). Di tutto il resto nulla era cambiato.

Avendo sbrigato alla svelta le mie commissioni mi sono trovata con un po’ di tempo libero prima di incontrare i miei amici che uscivano dal lavoro. Ho deciso di fare la cosa più sbagliata da fare: tornare sul luogo del misfatto. Pochi mesi prima di finire il dottorato ero venuta a conoscenza in modo indiretto che la casa in cui abitavamo era stata comprata da una società edile che la voleva abbattere per costruire sul terreno un complesso di appartamenti. La casa era una villetta in pieno stile svedese con i mattoni rossi e le finestre con i telai verdi. Noi abitavamo nella dependance della villa, un appartamento sopra al garage. Nonostante abbia passato solo sei mesi dei cinque anni Svedesi in quella casa, ne sono rimasta molto attaccata emotivamente. Il mio trasloco in quella casa era coinciso con un passaggio emozionale, uscire dalle paranoie del recente passato verso qualcosa di migliore. E infatti qualcosa(uno) di migliore arrivò solo una settimana dopo il trasloco ed è ancora qui con me in una casa nuova, ad Albione. Il fatto che quella casa fosse destinata a essere macerie mi era dispiaciuto e adesso volevo andare a vedere se era diventata un’araba fenice.

La mia sorpresa fu grande quando arrivata all’incrocio della strada la vidi ancora lì, tutta d’un pezzo. La porta di legno, la cassetta delle lettere sgangherata, la finestra di quella che era camera mia con le tende aperte. Ho fatto una foto in fretta e furia, sperando che nessuno mi notasse e me ne sono andata. A fianco alla casa c’era un cantiere, il cartellone pubblicitario annunciava “case a un passo dal centro, pronte per l’autunno 2016”. A Gennaio 2017 i muri non erano stati eretti, una piana di ghiaia bianca al loro posto. A volte i cattivi delle fiabe non vincono alla fine.

Ho preso una fika in un bar di un franchise che fa della sua bandiera l’essere sostenibile ed equo e solidale (ma che non accetta pagamenti in contante!) e davanti a un kanelbulle e un tè ho apprezzato la calma Svedese. Due ragazze chiacchieravano, chi leggeva un libro su una poltrona, un signore con dei fogli di lavoro ma nessuno sembrava di fretta. Io intanto contavo le cose che mi ero ricordata solo oggi della Svezia.

Le mie personalissime osservazioni sono:

Il caldo negli edifici, pubblici e non. Il riscaldamento elettrico Inglese, a imperitura memoria di Oliver Twist e di tutta la letteratura sfigata dell’800, mi aveva fatto dimenticare cosa vuol dire avere una casa calda davvero**. In Svezia nelle case fa caldo. Io sono stata tutto il tempo in maglietta quando in casa.

L’aria nei locali pubblici e non ha un odore che solo in Svezia. A volte mi ricordo di odori a distanza di anni che mi ricordano inequivocabilmente un posto o una situazione. La Svezia odora di Svezia, non saprei come altro dirlo.

I bagni sono unisex e il coperchio del water è di plastica leggerissima.

Il cibo nei locali è semplice e salutare. Carboidrati, proteine, vegetali. Magari un po’ noioso, però non esageratamente e inutilmente elaborato.

Sono tutti magri.

Per il resto del mio soggiorno il centro focale sono state le persone. Dopo aver fatto i conti con il fatto che come me gran parte dei miei amici più stretti se ne sono andati a loro volta, è stata tutta una festa. Saluti, abbracci e risate con chi è rimasto. Qualche novità, chi ha comprato casa, chi ha cambiato lavoro, chi è sempre il solito pirla e imita Cannavacciuolo e Barbieri facendomi quasi piangere. La fatidica domanda “come ti trovi ad Albione?” è stata posta un numero molto alto di volte e la mia risposta, affinata recita dopo recita, smussava gli angoli di questo paese che ancora non mi piace e si concentrava sulle cose positive. Va bene un po’ di onestà ma non sono in miniera ai lavori forzati, smettiamola di lagnarci.

Abbiamo ballato, cantato, ascoltato il fado, fatto brindisi e ho pianto ad ascoltare un orgoglioso padre Portoghese.

Il giorno dopo sono ritornata sui miei passi, non triste perchè la mia permanenza era finita, non contenta di andarmene. Lagom, insomma.

Ciao, Svezia. Forse dopo un po’ di lontananza sono riuscita a ritrovare in questa tua flemma quello che mi aveva attratto, all’inizio, e stancato, alla fine. La tua monolitica immutabilità, un tempo fonte di frustrazione, dà un senso di sicurezza quando si vede con gli occhi del turista. Se mai ci rivedremo, sappi che nonostante tutto un po’ mi manchi.

 

*Sono una donna non sono una santa. Transigo a queste regole a volte, come si potrà notare anche nelle righe di questo post.

**Ho vissuto per due anni in una casa con il riscaldamento elettrico, umida come la cambusa di una nave. Adesso vivo nella civiltà come tutti voi e vivo in una casa con il riscaldamento a gas, si sta bene. Mamma, va tutto bene, non preoccuparti.

E non sarebbe bello se capitasse a noi?

Sulla cima dell’Olimpo c’è una magica città.
Gli abitanti dell’Olimpo sono le divinità.

Nel mio personalissimo Olimpo della musica ci sono tre persone per cui ho una particolare ammirazione che, a tratti, potrebbe sembrare una leggera paranoia mista a compulsività. Essi sono, non in uno specifico ordine di importanza, Matt Berninger, Spencer Krug e Manuel Agnelli.

Ci sono poi altri personaggi dell’Olimpo che siedono su nuvole più alte in modo metaforico, Bruce Springsteen, o recentemente dipartiti per i più alti cieli come Leonard Cohen. Quest’ultimi seppure siano entità visibili, sono più eterei e meno umani rispetto ai primi tre, che invece sono tangibili pure dagli ultimi dei comuni mortali come la sottoscritta. Per esempio, Spencer Krug dopo un concerto alla Jazzhouse di Copenhagen in cui esagerando ci saranno stati 30 persone a sentirlo, si è andato a fumare una sigaretta all’uscita del backstage (e la mia amica voleva andargliene a scroccare una  ma io mi sono vergognata, è pur sempre sulla cima dell’Olimpo!). Oppure Manuel Agnelli l’ho visto trafelato all’aeroporto d’Alghero questa estate che correva a prendere un aereo Easyjet per Milano dopo che lo avevano chiamato al megafono. La sottoscritta, riconoscendolo all’istante manco fosse un mio parente stretto, con il coraggio che mi contraddistingue (vedi sopra) gli ho fatto un grande sorriso di incoraggiamento per dargli la forza morale e fisica per raggiungere l’aereo (forza tra l’altro non necessaria perchè l’aeroporto d’Alghero è grande più o meno come il mio soggiorno).

La sovraesposizione a Manuel Agnelli dell’ultimo paio di mesi in cui durante X Factor mi appare per due ore a settimana ha generato questo post. Abbiate pazienza.

Seppure gli Afterhours avessero cercato di entrare nella mia (non troppo) giovane esistenza già più di dieci anni fa con ripetute incursioni radiofoniche e su televisioni musicali ormai defunte, in quel periodo riuscirono a catturare la mia attenzione con quelle melodie a copertina, in cui ci si può accoccolare dentro e iniziare a commiserarsi pensando ai propri fatti (era l’epoca di Quello che non c’è e Ballate per la mia piccola iena). Però non c’era Shazam o Spotify e neppure internet veloce, per cui se ascoltavi una bella canzone te ne compiacevi per il momento in cui durava e poi tornavi alla tua esistenza.

Non contenti di questi fallimentari risultati gli Afterhours cercarono nuovamente di darmi un segno della loro esistenza registrando una delle loro canzoni su un cd che un’amica della mia amica aveva masterizzato per lei. La canzone in questione era Lasciami leccare l’adrenalina. A me e alla mia amica piaceva un sacco e visto che la canzone dura si e no due minuti ce l’eravamo imparata a memoria e la cantavamo a squarciagola sulla strada del sabato sera. Tutto molto bene fino a quando non arrivavamo al ritornello: “Lasciami leccare la … Non capisco mai cos’è che dice?”. “La Veronica?” “Ahhhh… Lasciami leccare la Veronica! Lasciami leccare la Veronica!”. Manuel, se vuoi dargli un tocco fetish, sai cosa devi fare ora.

Però nonostante le interpretazioni di dubbio gusto non sapevo ancora che questi Afterhours esistevano perchè, ripeto, non c’era Shazam e l’amica della mia amica non aveva fatto una lista delle canzoni perchè quello era il meglio del meglio e non andava nemmeno esplicitato (e noi non ci siamo mai disturbate di chiedere forse). Ma finalmente nel 2008 (più o meno) la svolta.

Inizio ad uscire con il bassista (informazione fondamentale perchè i bassisti sono notoriamente i più fighi della band!) di un gruppo che faceva, oltre a qualche pezzo originale, cover di Afterhours e Verdena, ma anche Marlene Kuntz e Timoria se proprio la dovevano tirare in lungo. Quell’estate soprattutto avevano avuto un discreto giro di serate in pub vari e feste della birra per cui, compita nel mio ruolo di groupie, mi ero sorbita praticamente quasi l’intero lotto dei concerti e mi perdevo ad ascoltare Dentro Marylin, per poi scoprire che Manuel la facevo meglio, ma tant’è. Dopo qualche mese da groupie il bassista ebbe una mezza crisi esistenziale in cui decise che era il momento di dare un nuovo senso alla sua vita tagliando i ponti con tutto ciò che rappresentava il suo (tumultuoso?) passato, mollando la band all’apice del successo per diventare un bravo ragazzo. In questo turbinio di buoni propositi mi lasciò in tronco ringraziandomi di avergli fatto capire che doveva cambiare (ma perchè?!) ma non smise di dedicarmi canzoni su Myspace (Myspace ladies and gentleman!) e mandare messaggi sibillini in cui affermava che fossi la cosa migliore mai capitata ma che adesso non potevamo stare insieme. Col senno di poi e un po’ di esperienza in più, me ne sarei scappata a gambe levate da un tale psicopatico, ma all’epoca no, avevo ricevuto una missione: aspettarlo alla fine di stocazzo di tunnel del cambiamento per ritrovarci. Era la OVVIA soluzione. La concomitanza del bipolarismo del bassista coincideva con l’uscita de I Milanesi ammazzano il sabato e con un concerto degli Afterhours alla festa della birra di un paese poco lontano dal mio a cui andai piena di sentimenti da espiare e fu bellissimo. Mi ricordo che stava per arrivare un temporale e dietro al palco si vedevano lampi di luce nelle nelle nuvole, ma non si sentivano i tuoni. Manuel Agnelli ha detto solo “Grazie” e “Ciao Grazie” per tutto il concerto ma a me non importava. Era stata un’esperienza totalizzante che se fosse successa solo un mese prima o dopo non avrebbe avuto lo stesso sapore anche grazie alle tragicomiche vicende del bassista, quindi grazie bassista.

Negli anni ho seguito gli Afterhours sostenendoli anche monetariamente ordinando copie fisiche dei loro cd seppure mi trovassi in Svezia al tempo e nonostante Padania non fosse una delle raccolte più riuscite della loro carriera. E ho pure ordinato la Deluxe Edition di Hai paura del buio? (Feat Lasciami leccare la Veronica) che quello me lo tengo lì anche se non ho più un lettore CD adesso. Quando è uscito Folfiri o folfox ho versato le mie lacrime su Se io fossi il giudice ma ultimamente piango per niente, per cui non me ne vanterei Manuel, neh.

Ho pianto un po’ anche quando questa estate in Sicilia eravamo arrivate nell’appartamento in cima a un palazzone di Agrigento che se vai sul balcone si vede tutta quella confusione delle costruzioni mai finite o distrutte che ci sono vicino alla stazione degli autobus di Agrigento. Era notte ormai e la confusione non si vedeva, si sentiva solo qualche macchina passare in strada. Il giorno dopo una mia amica si sarebbe sposata, eravamo le uniche invitate tra le amiche incontrate lontano, mi sentivo fuori luogo e faticavo a sentire empatia per tutte quelle persone mai conosciute prima con cui andavamo a festeggiare una cosa così grande in un modo così grande. Poi la mia amica accende Spotify e questa canzone si appoggia e si mischia ai rumori delle macchine, ci sediamo in balcone e la ascoltiamo tutta.

Just press flush

Manco solo da cinque mesi e le cose da raccontare si sono accumulate. Sbrogliare la matassa di tutte le cose che sono successe non è facile. Inizio dall’ultima e se mai si sentirà di riavvolgere il nastro per raccontare ciò che fu verrà fatto.

Sono tornata dalle vacanze una decina di giorni fa, una di quelle vacanze intelligenti fatte a Settembre che ogni volta che ci pensi che ti sei scansato le orde di turisti ti batti il cinque da sola. Una vacanza di disconnessione totale dal mondo albionese che ne avevamo di ben donde delle siffatte. Ma. Perchè dopo tutta questa introduzione c’è un ma. Al nostro ritorno in serata di Domenica, con la mia mente che lentamente iniziava a ingranare i meccanismi lasciati dormienti della spesa da fare, il treno da prendere, il progetto da presentare, ho messo la chiave nella toppa e come ho messo piede in casa ho fatto SCIAFF!

SCIAFF. SCIA-CIAFF! SCIA-SCIA-SCIA-SCIAFF!

E niente, la casa era completamente allagata. Due dita d’acqua ovunque. Ovviamente avevo già acceso la luce dopo il primo SCIAFF, venendo graziata dalla dea dei cortocircuiti, ma almeno si è potuto individuare alla svelta la causa di tale piaga d’Egitto: la cassetta dello sciacquone in ceramica si era aperta come un Mar Rosso in due eque metà, facendo fuoriuscire ettolitri di acqua sulla moquette. La dinamica del fatto, tutt’ora è inspiegabile.*

Ora, la quantità di sfiga e frustrazione sono pressochè incalcolabili (chè io mi rendo conto che ci sono cose peggiori nella vita ma non ve lo auguro che vi si allaghi casa). Però l’esperienza è stata a suo modo catartica, tanto che adesso sono qui a ciaccolarne.

Il giorno seguente ho dovuto prolungare le mie vacanze di un giorno in più per far fronte all’esondazione poichè ero l’unica ad avere a disposizione un giorno di ferie che avanzava. Mi sono messa lì, armata di mocio Vileda nuovo di pacca e ho, un pezzo dopo l’altro, messo a posto le cose. Ho buttato le scarpe (vecchie) che erano rimaste nella stanzina per terra e si erano bagnate e coperte di muffa (lo scenario post allagamento era un po’ pulp, abbiate pazienza), ho tirato fuori le cose che si erano salvate, ho buttato gli scatoloni del trasloco che si erano bagnati e spostato il contenuto in altri scatoloni (di plastica!), ho messo i vestiti che puzzavano di cane bagnato in sacchi dell’immondizia in attesa di una lavatrice. In una giornata ho preso le cose una per volta e le ho messe al sicuro, una dopo l’altra.

Il giorno dopo la moquette ancora abbastanza sciaff sciaff è stata rimossa e da allora viviamo al campetto dell’oratorio, visto che il pavimento della casa è fatto di di quel cemento che ti spella le ginocchia e che quando era ancora bagnato odorava di polvere come dopo una pioggia d’estate. (La puzza di cane bagnato è insita nella moquette. Meditate, gente, meditate prima di mettervela in casa). Tra qualche giorno ci rimettono la moquette nuova (N’altra volta?! Non imparate mai, vero?) e poi tutto come prima.

La lezione di questi giorni di merda è che gli ultimi mesi sono stati un po’ così per tante ragioni (alle quali magari un giorno ritornerò o magari facciamo che si salta tutto a piè pari) ma in questa situazione di merda ho ritrovato lo spirito di quella che sa rimettersi in piedi, in modo assertivo e con determinazione. I mesi passati ero in balia degli eventi, adesso basta, è il momento di essere più propositiva e di cercare di far funzionare le cose anche quando vanno di merda non come vorrei.

Per esempio, analizziamo la stessa situazione del diluvio sciacquonifero. Nello schema delle grandi cose del mondo poteva andare peggio (poteva piovere!). Segue una lista della cose positive, o almeno positivamente negative, che ho identificato nel corso dei giorni:

  • Tra il martedì e il giovedì successivi all’allagamento l’Inghilterra è stata interessata da un’inaudita ondata di calore Settembrina con temperature che hanno raggiunto i 34 gradi. Il campetto dell’oratorio s’è asciugato a tempo record
  • L’appartamento in cui viviamo è al piano terra. Siamo stati una sciagura solo per noi stessi e nessun’altra abitazione ne ha risentito
  • Nonostante l’agente immobiliare non fosse esattamente entusiasta dell’avvenuto, la padrona di casa, una vecchina di 82 fucking anni, non si è scomposta e si è assicurata che il lavoro venisse fatto quanto prima e con il minimo disturbo per noi (qua è tutta una cosa di assicurazioni quindi nessuno sborsa nulla, anche se temo che il deposito dell’appartamento ciao)
  • Gli unici mobili dell’appartamento danneggiati sono due scaffalature IKEA (forza Billy!) da cui si è scollato il microstrato di legno che ricopre l’animo di truciolo e colla. Gli unici mobili che erano nostri tra l’altro. Il resto non ha fatto una piega
  • Delle nostre cose che erano nella casa sono dipartite solo alcuna scarpe (vecchie) e le mie scarpe di danza classica ancora in uso. Danno totale 9 pound
  • Nessun altro danno a cose, persone, animali, fiori e città è stato riportato
  • Ci rimettono la moquette (ah, no quella non è la buona notizia)
  • Ho imparato cinquanta sfumature di parole che indicano il grado di bagnato in inglese (soaked, moist, damp, wet, drenched, soggy) e come si dice cassetta dello sciacquone in inglese, che sarebbe cistern, anche se io all’inizio avevo capito system e mi piaceva un sacco perchè aveva un’aria complottistica, specialmente alla luce dell’incertezza dello svolgersi dello spaccamento del suddetto system/cister

Se questo era l’inizio non può fare altro che migliorare, giusto?

Giusto?!

Tout va bien, je suis en Bretagne

J’espère que tout le monde va bien.

Era Novembre al tempo degli attentati a Parigi. Quella sera un po’ spaesata guardai facebook e trovai una frase di una ragazza che incontrai in Erasmus e che vive a Parigi: “Va tutto bene, sono in Bretagna”. Pochi minuti dopo, in un commento, aggiunse lei stessa “Spero che tout le monde stia bene”. La cosa mi colpì parecchio. Meditai di scriverci un post ma poi il tempo passò, le acque apparentemente si calmarono e io lasciai quelle frasi nel cassetto.

Poi gli eventi in Belgio hanno riaperto quel cassetto, nonostante sia in un cospicuo ritardo su tutti i talk show e che le opinioni di chiunque sono già state ampiamente espresse.

Non sono qui per discutere chi sono e chi li manda, ma chi siamo noi. Quella mattina, come ogni mattina, ascoltavo la radio italiana prima di andare a lavoro. Diedero la notizia in diretta e subito dopo gli ascoltatori iniziarono a scrivere e chiamare la radio per esprimere le loro impressioni sulla vicenda. Ogni intervento era un misto di rabbia e paura, minacce e frasi di circostanza.

Io invece facevo il conto di chi conosco che vive a Bruxelles. La mia condizione di “moderno nomade” fa sì che abbia tra le mie conoscenze altre persone simili a me, gente che vive in giro per il mondo e si sposta di continuo. Avevo contato due Belgi autoctoni e due Italiani che vivono a Bruxelles. Ci ho pensato tutta la mattina a come stavano loro e se i loro cari e amici stavano bene. Non c’era rabbia, non paura, solo pena per non sapere se chi conosco stava bene. E di quel commento un po’ egoistico che lessi dopo la notte di Parigi, Tutto bene, sono in Normandia, mi torno in mente la seconda parte, Spero che tutti stiano bene.

Ho passato gli ultimi sei anni della mia vita in giro. Mamma Europa mi ha permesso di farlo, prima un Erasmus, poi un dottorato sotto l’egida di Marie Curie, che tanto generosamente mi ha foraggiato durante il PhD, permettendomi di risiedere per brevi periodi in altri paesi dell’Europa e di conoscere centinaia di persone, dandomi la spinta per continuare a vivere all’estero, che poi un estero non è se siamo in Europa. L’Europa con le frontiere aperte e l’utopia in testa.

Io pensavo ai miei amici e la casalinga di Voghera pensava a difendere la sua incolumità, lei che il luogo più esotico che ha visitato negli ultimi mesi è il Bennet di San Martino Siccomario.

29 Febbraio, giornata di sensibilizzazione per l’atrofia neuronale maschile

Con un titolo che tiene cinque righe e con una vena di lamento alla “sono piccolo e nero e mi chiamo Calimero” vorrei rendere partecipe il mondo di quello che mi è successo oggi, 29 Febbraio 2016, porcaccia la miseria. Un post pro 8 Marzo, nove giorni prima e per ricordare che gli idioti sono ovunque.

Dopo un lungo scambio di mail, finalmente oggi  a lavoro avrei dovuto ricevere un venditore per discutere l’acquisto di alcune attrezzature per il laboratorio, in cui lapalissianamente lavoro. Il mio capo avrebbe normalmente gestito la cosa, ma oggi non era disponibile e quindi ha incaricato me e la mia collega per sostituirla. Ha avvisato il venditore che avrebbe trovato noi e non lei e tutti eravamo felici e contenti. Ora, bisogna precisare che la mia collega ha un nome da maschio che non starò a specificare usandone uno di fantasia che è Collego. L’ora dell’incontro con il venditore si avvicina e Collego è impegnata altrove, quindi rimango io in trepidante attesa dell’avvento di costui.

Ecco che suona il citofono, rispondo “Chi è?”, “Sto cercando Collego”, “Collego non c’è ma ci sono io, lei è il Venditore?”, “Sì”, “Le vengo ad aprire”. Scendo le scale per andare alla porta nemmeno fossi a Sanremo e gli stringo la mano. “Sono Frou, Collego non c’è, il mio capo non c’è (un’ecatombe!) ma sono più che al corrente di ciò che dobbiamo discutere (infatti ero tra i contatti della mail) quindi possiamo andare nella sala riunioni e iniziare anche senza Collego”. Nonostante la mia introduzione e la rassicurazione che anch’io sono capace di parlare, scrivere e far di conto lo vedo che continua ad avere dei dubbi: sta sciacquetta che si ritrova davanti, giovane, inesperta e soprattutto donna, potrà mai essere all’altezza per un meeting con me? Alla fine mi chiede “Ma tu da quanto lavori qui?”. Da abbastanza tempo per sapere che sei un prevenuto e un sessista ma vieni che ti preparo un caffè, visto che la cucina è il luogo più adatto per me.

Dopo aver pattuito la preparazione di alcuni preventivi con il venditore, nonostante i miei quotidiani squilibri ormonali e trattenendo a stento le lacrime quando mi ha detto che il modello vecchio di uno strumento non è più disponibile ma è stato sostituito da un prodotto equivalente, mi accingo a confrontarmi con un altro pirla uomo che non deve chiedere mai. Anzi, deve chiedere sempre ma non a me. E nemmeno a Collego. Bensì deve chiedere all’unico uomo che siede nel mio ufficio.

Facciamo un passo indietro. Stiamo portando avanti un progetto io, Collego e l’uomo-che-non-deve-chiedere-mai (che abbrevieremo per semplicità UCNDCM). Abbiamo fatto un meeting con i capi Venerdì scorso (26 Febbraio, circa 80 ore or sono), abbiamo analizzato quello che è stato fatto fino ad ora e discusso di quello che ci rimane da fare. Un piano semplice, prima A poi B e se non funziona C. Facile e lineare. Stamattina mi ritrovo una mail in cui UCNDCM chiedeva a me, Collego e l’unico uomo del mio ufficio (che è uno esattamente come me, capo di nessuno con le stesse conoscenze mie e di Collego) di fare un meeting per discutere di ciò che era già stato discusso Venerdì.

Non è la prima volta che capita: UCNDCM mi chiede “Cosa devo fare?”, io gli rispondo “A!” ma non si fida. Chiede a Collego che gli risponde “A!” ma non è abbastanza. Chiede all’unico uomo nel mio ufficio che gli risponde “A!” e allora dice a me e a Collego “Dobbiamo fare A!”. Ma va?! A.

Blog buster!

Doveva succedere prima o poi. Una settimana fa sono stata scoperta.

Il mio moroso, sornione o forse no, mi chiede “Ma tu ce l’hai un account Twitter?”. Io, nonostante la domanda non fosse esattamente pertinente, mi sono costituita. “Sì, ce l’ho un account Twitter, ma è connesso al mio blog di WordPress, e anche al Tumblr a volte, che al mercato mio padre comprò”.

Nonostante un anno abbondante di convivenza e la condivisione di un telefono mi sento rispondere, “Immaginavo avessi un account wordpress, perché ti arrivano delle notifiche ogni tanto ma non credevo che ci scrivessi TU”. IO! Sì, proprio IO. Anche se ultimamente qui ci faccio le comparsate, altro che.

Nonostante le notifiche, la possibilità di accedere al blog pur non conoscendone l’indirizzo e la curiosità che tutte le scimmiette hanno, ho fatto promettere di non leggere mai e poi mai il blog. Un po’ perché mi vergogno (che se legge dio sa chi va bene, ma il moroso no) e un po’ perché mi ri-vergogno e stra-vergogno di quello che ho scritto prima che arrivasse lui.

Quindi, o moroso, se capiti qui contravvenendo ad ogni promessa non mi arrabbierò con te. Ma NON leggere, ripeto NON leggere, tutto ciò che è stato scritto prima del Maggio 2014. Grazie. Che va bene che tutti abbiamo avuto una vita prima di incontrarci. E va bene che praticamente sai di tutte le persone rilevanti (anche di quelle si sono distinte per i livelli di stronzaggine). Però le cose che ho scritto in tempi lontani potrebbero sembrare più drammatiche di quanto in realtà non lo siano ora, in prospettiva, con qualche anno di stagionatura e con uno spoiler sul finale della maggior parte di quelle vicende.

Grazie.

Di tutte le persone che mi potevano sgamare, poi, dovevi essere proprio tu? Per certo non posso saperlo, però non credo che qualcuno che conosco davvero abbia mai trovato questo blog. Nonostante per un bel po’ di tempo (forse anche ora?) in qualche modo si poteva risalire a una mail in cui comparivano parte dei miei dati anagrafici. Non sono sicura sia possibile fare il contrario, ovvero arrivare al blog conoscendo la mail. Se invece, cari amici amici, mi avete turlupinato e perseverate nel leggere i miei sproloqui per favore fate ciao con la manina. Che se siete qui a leggere ci vuole proprio la vostra pazienza. Solo una volta ho letto il blog della ragazza di un mio amico (che sono anni che noi amici aspettiamo che lui la lasci), che però pubblicava il link su facebook e quindi non c’è stalking formalmente. La mia carriera di lettrice turlupinatrice finì presto poichè oltre a un generale disinteresse per le collanine fatte da lei e per le sue vicende in generale non potevo più sopportare la vista della punteggiatura messa casaccio: non si scrive parola .spazio .punto ma si. fa. COSÌ! Per non parlare degli abusi dei puntini di sospensione, usati come ………………… fossimo ai tempi delle elementari, che se ne metti più di quattro io penso che ci devo inserire una parola io su quei puntini.

Comunque, conoscenti che (molto probabilmente) non mi leggete, Grazie anche a voi per la collaborazione. E grazie anche a quelli che non sprecano i puntini di sospensione. Soprattutto a loro.

 

From Diego with <3

Non sono brava a fare gli auguri di Natale, mai stata brava e mai lo sarò.

Più in generale non sento di dover fare gli auguri per Natale, mica è un esame. Preferisco quelli per il nuovo anno o per il compleanno che sono ricorrenze più tonde, con una svolta. Si gira un anno, si tirano somme (anche se quest’anno forse le somme le tiro con anno economico Inglese, che sai mai che in contumacia i conti migliorino). Natale è un giorno, nonostante c’è chi sostenga che Natale può essere molto Shrödinger, che o è Natale tutto l’anno o non è Natale mai.

Però Diego con puntualità Svizzera, che poi Svizzero non è, dal 2001 o dal 2002 (l’inizio di questa tradizione si è persa nella notte dei tempi) mi manda un messaggio di auguri. O Diego, che non ti vedo dalla maturità, svoltasi nell’anno domini 2005, non ti ho amico su Facebook ma ciò nonostante ogni anno puntualmente verso le quattro di pomeriggio della Vigilia mi mandi gli auguri via SMS, io ti ringrazio. Che quest’anno c’avevo altri pensieri e non ero lì ad aspettare, proprio come un bambino a Natale, che anche quest’anno si compisse il miracolo dell’apparizione del messaggio d’auguri di Diego. Però mi ha fatto piacere. Che poi si vede proprio che sei un fantasista e gli auguri li scrivi tu. Io non ho idea di che cosa ti sia capitato negli ultimi dieci anni ma ‘sti auguri li scrivi che vanno sempre bene per tutti, nemmeno fossi Paolo Fox.

Quindi copio-incollo gli auguri di Diego, che possa diventare una tradizione anche questa, per quanto non senta spesso il bisogno di fare auguri, come non si sentiva il bisogno di abusare di puntini di sospensione. Ma comunque:

Eccoci ad un nuovo Natale… segno che anche quest’anno è destinato a finire… per alcuni è stato un anno pieno di sogni avverati, speranze ben riposte, sorprese uniche e nuovi arrivi… Per altri un anno da dimenticare o forse da ricordare con una lacrima agli occhi, ma comunque sia è passato e quello che conta è che il nuovo anno è pronto ad iniziare… E siccome a Natale ogni desiderio può diventare realtà… quello che esprimo per te è che ti possa portare un mondo di felicità amore e speranza perchè diventi un Natale unico e un preambolo per un 2016 ancora più bello…

Un abbraccio e un milione di auguri

Diego

Heart skipped a beat

È successo un po’ di tempo fa, adesso fa un po’ meno male parlarne.

Erano le tre di notte e vedo che la luce in bagno è accesa, quando il mio ragazzo torna in camera gli chiedo “Tutto bene?”, dice “no”. Si sdraia un momento, gli tocco il viso ed è freddissimo. Avendo in condizioni normali la temperatura di una stufa, c’è qualcosa che non va. Lo vedo confuso e mi chiede di chiamare qualcuno subito, sente il cuore che batte forte e il respiro corto. Dopo meno di un’ora siamo al pronto soccorso e gli stanno facendo le analisi del caso. Dopo un po’ di ore in compagnia del bip dell’elettrocardiogramma arriva un dottore e dopo aver fatto una serie di domande conclude che non è stato il cuore, ma la testa. Un attacco di panico.

Le cose qui a Ponte sul Cam al momento sono un po’ in divenire: io sono (relativamente) tranquilla al lavoro 5 giorni a settimana 8 ore al giorno, lui sta per difendere il dottorato, il che implica una serie di viaggia avanti e indietro per mettere le cose a posto in Spagna, e sta cercando un lavoro che al momento non si trova. A questo punto mi piacerebbe dire che non c’è ragione di preoccuparsi e che tutto si sistema, ma, per quanto credo che tutto si sistemerà, sul fatto dell preoccupazione non posso parlare, visto il mestruo perenne che avevo messo su quando ero nella sua situazione.

Di recente avevo letto un articolo sul fatto che la frequenza di episodi di disagio tra i dottorandi sia maggiore rispetto alla norma (qui l’articolo). Che non voglio dire che serve avere un dottorato per avere attacchi di panico ma che di sicuro l’esperienza di un PhD rende alcune parti di noi più vulnerabili.

Avevo iniziato il dottorato da qualche mese e le cose non andavano come volevo. La casa in cui abitavo faceva raccapriccio, la mia vita sociale stentava a decollare, vita amorosa N.P. e la ragione per cui mi trovavo in questa situazione, il mio dottorato, era un fallimento. La mia inesperienza e il menefreghismo generale dei miei supervisori, in chissà quali altre faccende affaccendati, mi facevano sentire come se non fossi in controllo della situazione, in balia di sfortunati e ineluttabili eventi. E fu così che io, Frou Svedese, praticamente perfetta sotto ogni aspetto*, non ero più al comando. Una sera andando a letto ho sentito un peso sul petto e ho iniziato a respirare in affanno. Ho chiamato il numero verde per avere assistenza sanitaria, mi ha risposto una signora che mi ha parlato e capendo la situazione ha cercato di calmarmi. Ero talmente sola che non avevo nessuno da chiamare lì vicino, se non la signora del centralino medico. Poi le cose sono andate meglio con il tempo, ho imparato a farmi valere senza aspettare che qualcuno lo facesse per me, ho cercato di imparare a non prendermela troppo a cuore ma di fregarmene  un po’, ma su questo devo ancora lavorare. Devo ancora lavorare tanto sul far capire a chi mi è vicino che va tutto bene, che andrà tutto bene.

Don’t you worry bout a thing. Cause every little thing is going to be alright.

*citazione da Mary Poppins, non che abbia tutta questa stima di me!

Microcosmo (ma non divaghiamo)

Ne è passato dall’ultima volta. Passo di qui a volte ma mi manca lo slancio di scrivere qualcosa. Mi sembra che tutte le cose che ho attorno siano cose piccole. Belle, però piccole.

Mi spiego: a qualcuno può forse interessare del torneo di Captur/Cactus? Mi rispiego: il gioco consiste nell’urlare Captur! oppure Cactus! al passaggio delle suddette macchine. Al momento sto perdendo perchè invoco Captur! a sproposito quando vedo passare le Clio. E di Cactus ce ne sono troppo poche in giro. Uno si può chiedere da dove è uscito questo ameno gioco ed è presto detto. La Captur era la macchina che abbiamo affittato per andare in Andalusia, era di quelle azzurro puffo e io mi consolavo dicendo “va beh, almeno ce l’abbiamo solo noi”. Poi sono venuta in Italia e ce n’erano a frotte. Invece Cactus, la rara Cactus dalla discutibile estetica l’ha comprata mio padre e quella ce l’ha praticamente solo lui in tutta Italia. Quindi se ne vediamo una bisogna fare a gara a dirlo per primo. Se vedete mio padre, siete autorizzati a urlargli Cactus!, poi glielo spiego io il perchè.

Ci sono tante cose di cui vorrei parlare ma davvero sono piccole. Tipo i corsi della palestra Inglese e gli avventori della palestra. Soprattutto gli avventori della palestra. Oppure dovrei raccontare degli avventori della fermata dell’autobus. Quella è una storia divertente. La mattina quando esco per andare a lavorare passo davanti alla fermata del bus dove dei ragazzini aspettano l’autobus per andare a scuola. A forza di passare ho iniziato a riconoscere i bambini e una l’ho soprannominata Sadness perchè assomiglia a Tristezza del cartone di inside out. È un po’ più bassa dei suoi coetanei, un po’ paffutella con gli occhiali da vista grossi ma non quelli alla moda e con i capelli a caschetto e la frangia dritta a coprirle la fronte. Sadness si avvolge in una giacca bicolore nera e viola di un paio di taglie troppo grandi che proprio non le dona. Sarà la giacca, saranno gli occhiali, sarà il capello (che io avevo uguale a lei alla sua età!) ma mi sembra che Sadness sia tra i bambini del pullman quella più impacciata e timida. Una mattina l’ho vista che punzecchiava uno dei ragazzini alla fermata, uno di quei flirt ingenui e primitivi dove l’attenzione è cercata colpendo fisicamente l’oggetto del tuo interesse per poi fingere di non averlo fatto. Un paio di giorni dopo l’ho vista anche sulla via del ritorno e scesa dall’autobus si è avviata verso casa facendo una mini danza della vittoria, fatta di pugnetti di esultanza e saltelli, salvo poi guardarsi attorno per accertarsi che nessuno dei passanti l’avesse notata. Mi sono chiesta se l’esultanza e il flirt fossero collegati.

Poi potrei raccontare della mia cassiera preferita del Tesco, quella signora sui sessanta che mi chiede sempre se ho bisogno di aiuto a fare i pacchi. E io avrei bisogno davvero di un aiuto, soprattutto a non rompere la confezione dello yogurt ogni singola volta, ma le dico “no sono a posto” oppure faccio “sono una campionessa di impacchettamento!”. Lei paziente aspetta che finisca di giocare a Tetris con il latte, i suddetti yogurt e le mele e poi mi dice “sono 17 pound e 40” e mi fa un sorriso con i pochi denti in bocca che le sono rimasti. Anche i capelli sono dritti e disposti in maniera un po’ disordinata fino a toccarle le spalle, raccolti in una coda bassa. Gli occhi chiari, che chissà cosa hanno visto quegli occhi, che con tutta la gente che hanno visto oggi, ieri una vita fa, ti sorridono mentre ti porgono lo scontrino. E allora le dico di cuore “Buona serata”, “a lei” risponde.

L’ultima cosa che devo raccontare che anche questa fa ridere è che da qualche settimana a questa parte abbiamo degli scoiattoli. Che poi non è che li possediamo ma semplicemente vengono a trovarci tutti i giorni nel giardino e allora ci siamo affezionati. Inizialmente pensavamo fosse uno solo e avevo deciso che si sarebbe chiamato Geronimo. Geronimo, scoiattolo domestico. Poi ci siamo resi conto che a volte la coda era voluminosa, altre volte spelacchiata e da qui il sospetto che ce ne siano due, se non di più! Comunque, tutto è iniziato quando Geronimo (o chi per lui) veniva a nascondere le noci nel nostro giardino mettendole nell’erba ormai alta. Poi un giorno abbiamo tagliato l’erba, non per cattiveria ma perchè andava tagliata. Abbiamo considerato che il nostro gesto avrebbe potuto causare attacchi di panico in Geronimo ma ognuno ha le sue necessità. Geronimo sulle prime non l’ha presa benissimo, poi si è messo a nascondere le noci sotto la siepe. Però, per guadagnarsi lo status di “scoiattolo domestico” avevamo bisogno di un gesto a mo’ de Il Piccolo Principe, quindi abbiamo iniziato a lasciare in giardino delle noccioline. Per quattro giorni è passato imperterrito nel giardino a mettere noci enormi sotto a un cespuglio spelacchiato, poi, alla buon ora, si è reso conto che magicamente erano comparse delle noccioline. Segretamente, speravamo che se ne mettesse in bocca due o tre contemporaneamente. Invece le prende una per volta, e poi scappa chissà dove a nasconderla. A volte, mentre se ne va, sculetta.

Geronimo, scoiattolo cha cha cha.

sswz9

Filmato originale di Geronimo che analizza una nocciolina, sculetta e s’invola.