Sì viaggiare (però la ggente no)

Nonostante le premesse (vedi post precedente) le vacanze di quest’anno hanno rinvigorito la mia altrimenti malaticcia voglia di viaggiare.

Dopo un inizio travagliato (vedi sempre post precedente), come già ho raccontato nei commenti, ho avuto una serie di momenti positivi che sono andati non solo a pareggiare il karma del viaggiatore, ma addirittura mi hanno riportato in vantaggio nel conto karmico complessivo. A breve rimarrò bloccata su un treno o similaria ma per ora mi godo il temporaneo successo.

Brevemente, cose che mi sono capitate in queste ultime 3 settimane:

  • Ho aiutato a portare il bagaglio a una signora Ungherese alla stazione dei bus di Vienna. Le nostre capacità di comunicazione erano minime ma nonostante tutto l’ho accompagnata all’entrata della sua metro prima di andare a prendere il mio treno. Il bagaglio consisteva in una borsa del supermercato, di quelle robuste che puoi utilizzare mille volte, chiusa con delle pezzuole per far sì che i manici rimanessero vicini. Visto il peso specifico del bagaglio non c’è dubbio che stesse trasportando pietre. O uranio.
  • Mentre guardavo la cartina sul treno una ragazza mi dice che la cartina mi indica sì la strada giusta ma anche la strada più lunga. Una volta fuori dal treno mi accompagna e mi mostra la strategica scorciatoia.
  • Ho preso al volo tutte le coincidenze delle navette aeroporto città. L’ultima, quella dall’aeroporto di Stansted, ha avuto bisogno di una corsa sul binario lunghissimo verso il treno. Alcuni testimoni del fatto giurerebbero che sugli ultimi cinquanta metri della corsa mi stavo muovendo in slow motion e riecheggiasse nella stazione la canzone “We are the champions” visto il notevole sforzo atletico.

Per quanto riguarda la filosofia vacanziera di quest’anno, ho seguito, o almeno ambito a seguire, la ormai diffusa moda del turismo senza gente, lanciata da http://magaritraduesettimanetorno.WordPress. com/

Io voglio andare in vacanza e non avere lo stress di altri esseri umani che fanno cose attorno a me e quindi preferisco luoghi ameni sconosciuti al mondo intero. Il chè è (relativamente) facile da ottenere se ti trovi in provincia di Piacenza. Meno se vai in Sardegna. Ad Agosto.

Comunque, l’impegno e la totale abnegazione alla filosofia del turismo senza gente sono state premiate almeno in tre occasioni (le foto che seguono sono allegate a puro scopo dimostrativo e non cercano di far vedere quanto fighe sono state le mie vacanze, se no le avrei almeno messe a posto un po’ con photoshop):

  1. Quando abbiamo visitato un altrimenti turistico sedicente borgo medievale (cheinrealtàèstatotuttoricostruitoequindimedievalestacippa) nel giorno in cui le visite al castello e i negozietti di chincaglieria finto Game of Thrones sono chiusi. Totale astanti: 2 noi, 2 altre persone 3 cani.
  2. Quando siamo andati al fiume a fare il bagno, perchè il mare è a 2 ore di macchina e quindi il fiume nella sua anni sessanticità dona refrigerio e evita il contatto con le folle.

    Il fiume. A destra un'indigena rovina la foto in cui voglio dimostrare che non c'era nessuno

    Il fiume. A destra un’indigena rovina la foto in cui voglio dimostrare che non c’era nessuno

  3. Quando siamo andati in uno scoglio sotto a una stradina litoranea, il cui accesso a turisti poco motivati a evitare la ggente è ulteriormente scoraggiato dall’assenza di un sentiero visibile e dal fatto che probabilmente quella discesa verrà pagata col sangue. Tipo se cadi e ti sbucci un ginocchio. Tipo.
    Gli scogli introducono anche un secondo tipo di turismo a cui mi sento particolarmente vicina che è il turismo senza sabbia. Quella polvere sopravvalutata che si insinua in ogni fessura e ti perseguita fino all’estate successiva. Scogli, sassi, ghiaia, muschi vincono mille a zero sulla infida sabbia. Ma questo è un altro discorso.
    L’unico essere vivente particolarmente infastidito della nostra presenza agli scogli sono stati dei paguri, però mica possiamo accontentare tutti. Probabilmente anche i paguri supportano il turismo senza gente.

    Scogli senza gente

    Scogli senza gente

    Il paguro che chiaramente non è estasiato di vederci

    Il paguro che chiaramente non è estasiato di vederci

No viaggiare

Sveglia all’alba.
Taxista che si lamenta del costo della bolletta dell’acqua per tutto il viaggio.
Un’ora di coda per depositare un bagaglio, roba che prometti a te stessa che il bagaglio imbarcato mai più (però se devi stare in giro 3 settimane in 3 contesti sociali e climatici diversi come potevo fare altrimenti?).
Corsa al gate.
Ora giacio seduta a gambe conserte sulla moquette dell’aeroporto di Stansted in fila per un aereo probabilmente in ritardo e penso che cosa ne è stato di quella che era sempre con la valigia pronta.

Alla ricerca dell’albero azzurro

Le madeleine, sia quelle di biscotto che quelle figurate, sono difficile da mandare giù. Ingozzano. Sono uno di quei biscotti che, se non le accompagni con un bel tè caldo e un pacco di saliva, si attaccano alla gola e nella bocca e ti lasciano una sensazione spiacevole. Chissà se anche Proust ci aveva pensato.

L’ultima delle madeleine che ho mandato giù riguarda Dodò dell’Albero Azzurro. Il caso vuole, che mia mamma si è trovata a lavorare con la signora che ha inventato Dodò e un giorno lo ha portato a scuola per farlo conoscere ai bambini. Probabilmente, tutti bambini che in quel pupazzo non vedono niente di più che un uccello con il morbillo alieno, mentre per me Dodò è stato un fedele compagno di tante giornate. Quando ancora andavo all’asilo lo vedevo mentre aspettavo che il pulmino (termine probabilmente non universale per scuolabus) mi venisse a prendere. Invece, durante il tempo delle elementari uscivo di casa troppo presto per poterlo vedere all’ora a cui era trasmesso, per cui grazie agli ultimi ritrovati tecnologici lo registravamo su VHS. Una volta tornata da scuola, dopo aver fatto i compiti, vssssssssssssssss riavvolgi il nastro e fai partire Dodò, Claudio, Francesca, il signor Cavalli. A distanza di anni, automaticamente, al solo pensiero di Dodò, ho iniziato a canticchiare la sigla: albero azzurro, posto felice, albero azzurro posto di amici.

Una concatenazione di pensieri, visioni nitide di giorni passati, luci e sensazioni che mi ha attraversato in un secondo. Mi sono commossa, anche se ultimamente più o meno qualsiasi cosa mi commuove.

Poi i giorni sono passati e non riuscivo a togliermi dalla mente Dodò. Pensavo alla serenità dei giorni andati e a quanto sono lontani. A quanto, mai come ora, i problemi della vita adulta stiano venendo fuori uno dopo l’altro. Casa, affitto, lavoro, famiglia. Il tutto in un paese che non è il mio. Un paese che per quanto non mi dispiaccia, non riesco a sentire mio. Ho lasciato un po’ di cuore in Svezia (poco ma un po’ l’ho lasciato, quando vedo le foto delle strade di Malmö la sera o il ponte sull’Öresund come faccio a rimanere indifferente?). Un altro pezzetto di me è rimasto incastrato in quelle case supermoderne in Olanda, nonostante la popolazione facesse di tutto per scoraggiarmi. Barcellona ha preso un altro pezzo, è stato breve ma, come si suol dire, intenso. Una passeggiata sul lungomare, risalire per via Laietana scansando i turisti per andare a mangiare un gelato sui gradini della Cattedrale, cosa chidere di più? Poi, ovviamente c’è casa casa, quella sulle colline che rimane sempre lì, che cambia ma non ai miei occhi, dove la gente fa cose e io non lo vengo a sapere, che per me rimarrà la stessa che ho lasciato a gennaio 2010, fatta eccezione per poche cose, cioè persone.

E ora? Cosa ci faccio qui?

Ah, ci lavoro.

Perchè?

Perchè ho trovato questo lavoro. Questo e non un altro, un altro dei milioni di lavori che ci sono al mondo. Un lavoro che mi permette di  lavorare con quello che mi piace ma che, in certi giorni non mi sembra una ragione sufficiente per rimanere qui. Un lavoro che mi dà un salario sufficiente che per la gran parte va in un affitto (esorbitante) e che basta per togliermi qualche piccolo sfizio. Un lavoro che mi elargisce 25 giorni di ferie all’anno che, divisi per il numero di persone e posti che vorrei visitare, non mi permette di essere dove vorrei essere quando non deoe essere qua. Senza nemmeno parlare dei posti in cui non sono ancora stata e in cui vorrei stare. Senza nemmeno parlare del fatto che per andare dove non sono stata devo lavorare per avere la sussistenza per andare. Senza nemmeno parlare del fatto che devo trovare dei giorni di ferie in mezzo a tutto il lavorare per andare. Senza nemmeno. Nemmeno.

E allora quando mi aggroviglio in questi pensieri che sono una spirale di cani, gatti e topi che al mercato mio padre comprò mi fermo e penso a Dodò.

Penso alle cose facili. Penso all’albero azzurro. Penso che magari, prima o poi, lo trovo.

A 28 anni saprò cosa fare della mia vita (cit.)

Questa frase è stata pronunciata dalla sottoscritta più o meno cinque anni fa, poco dopo aver accettato una posizione da Dottoranda in Svezia. Estrapolata dal contesto può sembrare una frase stupida, ma anche se la rimetto nel contesto rimane comunque una solenne stronzata.

Mia madre, santa donna, mi stava cercando di far ragionare sulle ripercussioni che la mia decisione di vivere in Svezia per quattro anni avrebbe avuto. Io le dissi che avevo 24 anni, quando avrei finito il dottorato ne avrei avuti 28. Erano solo 4 anni in cui avrei avuto la possibilità di fare un’esperienza unica, in cui avrei visto posti nuovi e conosciuto tante persone diverse (e fin qui tutto bene). Però sostenevo che dopo quei quattro anni di estero e di nuovi orizzonti, a 28 anni, avrei saputo che cosa fare della mia vita.

Eeeeehhhh. Risposta sbagliata.

Al compimento dei miei 28 anni (un anno fa), ero a casa con il raffreddore, reduce da un trasloco e con una tesi da scrivere. Senza grandi orizzonti per quella serata mi ero messa a scrivere un post che aveva lo stesso titolo di questo. Il post non ha mai visto la luce: era un accozzaglia di riflessioni in salsa depressiva e magari qualche promessa. Quella sera non ho pubblicato il post ma invece ho iniziato ad avere 28 anni, che è stato molto meglio.

Quest’anno mi ha visto vivere in tre nazioni diverse. Pochi giorni dopo il mio compleanno ho incontrato la persona con cui ora condivido i miei giorni nel bene e nel male. Ho scritto una tesi e difeso un dottorato. Sono stata disoccupata e ho trovato un lavoro. Ho conosciuto nuove persone, ne ho salutate tante altre. Ho una casa e un giardino (ok, in affito, peròè già qualcosa!). Ho dei dubbi, dei grattacapi quotidiani ma per la maggior parte del tempo sono felice.

Continuo a non sapere cosa fare della mia vita, ma chi lo sa? Nemmeno a 38, 48 o 98 anni si sa cosa fare della propria vita.

Tanti auguri a me.

C’era una volta un re seduto sul sofà, alcuni anni dopo…

…che chiese alla sua serva, raccontami una storia! La storia inominciò…

Avevo già scritto questa storia tempo fa. Però, come tutti i migliori film, a volte arriva un sequel. Se il sequel sia meglio dell’inizio, peggio o semplicemente tutta un’altra cosa non sta a me deciderlo. Io sono solo il narratore.

C’era una volta una mia coinquilina che aveva sposato l’edicolante dei suoi sogni, qualche anno fa. Questa era la prima parte della storia, quella che già finiva con il e vissero tutti felici e contenti.

Ma come nelle migliori delle storie, o almeno come in buona parte delle storie, la quantità di persone che vivono felici e contenti negli anni tende ad aumentare. Quest’estate ci aveva annunciato l’arrivo del primogenito e per Natale, sotto una nevicata inaspettata, eravamo andate a vedere con i nostri occhi se il primogenito fosse veramente in arrivo. Era grande lei, con una pancia grossa, anche se era appena a sei mesi. Ci ha raccontato degli ultimi mesi, di tutte le cose nuove a cui andava incontro. Nonostante la pancia grossa non poteva essere felice. Infatti, la madre dell’edicolante aveva scoperto di essere gravemente malata, proprio una settimana dopo che il nuovo arrivo si era formato, quando ancora non si sapeva ancora che sarebbe arrivato.

E quindi la mia amica ha aspettato che lui arrivasse e anche la suocera ha aspettato che arrivasse. Hanno aspettato entrambe, con pazienza, hanno aspettato fino ad una settimana dopo la fine del termine. Hanno aspettato tre giorni di travaglio e di dilatazioni millimetriche. Che sono cose che nessuno ti racconta e che invece lei ci racconta, senza risparmiare dettagli. E ci dice di contrazioni andate avanti per tre giorni, di corse all’ospedale e relativi ritorni a casa, di ore passate du una palla dicendo “sta arrivando!”, di altre mille cose atroci e ride di gusto, con gli occhi lucidi, parlando di quello stillicidio di dolore. E alla fine è arrivato, dopo tre giorni più nove mesi che tutti lo aspettavano. Nonostante la pancia fosse grande, lui era piccolino, almeno è piccolino a detta nostra.

Quando l’attesa è finita, le paure passate, allora non c’era più niente da aspettare. Così la madre se ne è andata, chiudendo il bilancio in pari, avendo visto il nipotino e non avendo più altri conti in sospeso. Che non sai più se piangere o se ridere. Si ride e si piange insieme, non fosse altro che per l’ironia di questa situazione.

Intanto i giorni passano, le persone si adattano al nuovo stato delle cose e il marito della suocera, sopraffatto dai troppi avvenimenti, si è allontanato per qualche giorno. È andato nell’orto a smanettare con qualcosa e nel giro di una settimana ha costruito un capanno, un posto in cui sostiene di voler andare a vivere, in cui si vuole trasferire con i suoi ricordi prima che un morbo di Alzheimer qualsiasi glieli porti via.

Ma alla fine? Vissero tutti felici e contenti?

Non lo so. Questa non credo che sia la fine.

Albione, un mese dopo

Chissà perchè quando mi trasferisco ad Albione sento il bisogno atavico di mettere canzoni Inglesi fino al midollo. Forse perchè quando si è a Roma si fa come i Romani. E quando si è ad Albione si fa come gli Albionici. Look right prima di attraversare e aspetta con ansia il nuovo Royal Baby. Per dare da mangiare ai piccioni ci stiamo attrezzando. Anche ai corvi, a volte.

Cosa dire di questo primo mese e rotti in queste lande? Poco. Molto. Una mezza via.
Di cose da dire ne avrei ma mi chiedo se interesserebbero. Trasferirsi in un altro paese in modo stabile e responsabile (cioè NON prendo tutte le mie cose e mi accampo a casa tua vivendo nella illegalità agli occhi della burocrazia Spagnola, come avevo fatto precedentemente) è un bel piede nel culo. Ci sono un ammasso di enti, uffici e fogli da compilare che aspettano solo te. O che non aspettano te e che fanno di tutto per far sì che accedervi sia impossibile.

Come fare un conto in banca. Consiglio spassionato: fate un mese di yoga e meditazione prima di aprire ogni banca Inglese. Per esempio perchè bisogna prendere un appuntamento con il bacario del vostro cuore per avviare le pratiche ma sarà impossibile prenotarlo. Per esempio, ancora, perchè il programma che tiene in memoria le password dell’online banking ha una forma avanzata di Alzheimer e se le dimentica.

Comunque dopo frillioni di e-mail alla agenzia immobiliare, una minaccia di tagliarmi l’elettricità e finalmente una connessione a internet sono ancora qui. Up and running, più o meno.

In questo mese di wordpress ho letto poco, stellinato meno e commentato niente. Sono in un limbo in cui non ho ancora rivelato alla metà dell’esistenza di questo blog (Voglio farlo, devo farlo. Devo proprio?!) e quindi leggo nei ritagli di tempo e scrivo mai, e comunque non è che avrei avuto tutto questo gran chè da scrivere. La nuova situazione, calma e suburbana, non mi da grandi spunti. E non è che non sono felice o non mi piace qui. Semmai sono più felice adesso, rispetto a quando stavo a Barcellona. Che sì puoi anche abitare a Barcellona, però se sei preso da questa frenesia mentale per il futuro e a star lì seduta davanti al computer, mandando curriculum, ti senti più inutile di un culo senza buco, allora non te la vivi bene. Che tu sia a Barcellona o a Pieve Porto Morone.

Sto mettendo assieme una serie di foto con cose Albioniche che mi fanno scompisciare, chissà se questo progetto mai vedrà la luce.

Ho fatto uno stufato ma temo che sia venuto una schifezza. Se trovo Marco Pierre Whites gli chiedo dove ha trovato il succo di prugne. Al Tesco non c’era e ho ripiegato su uno smoothie prugne e mele. Cuocere la carne con lo smoothie: posso dire di aver fatto anche questa nella vita.

Ho deciso che da adesso è primavera e d’ora in poi solo giacca mezzo peso e basta stivali.

Più tardi faccio una lavatrice, forse.

Mumblecore

Recentemente sono venuta a conoscenza della parola mumblecore e, non contenta, sono anche stata definita tale.

Dicesi mumblecore un movimento cinematografico Americano che si caratterizza per la produzione di film a basso budget con attori spesso non professionisti e dialoghi quasi improvvisati. Una scena di un film mumblecore potrebbe essere girata in un momento qualsiasi della quotidianità di ognuno e ancora sembrerebbe perfettamente rilevante nel contesto di questa corrente cinematografica. Un esempio su tutti, Frances Ha.

Comunque, non volevo fare una lezione di cinema, proprio io che mi sono annoiata a morte guardando ipotetiche pietre miliari della cinematografia degli ultimi decenni. Volevo solo dire che in questa visione mumblecore della vita io mi ci ritrovo (e https://bastaxdue.wordpress.com/ aveva ragione). Perchè di film in cui c’è un’introduzione-svolgimento-avversità-colpodiscena-soluzione, in cui ogni dettaglio importante è sottolineato dal regista con mosse argute della telecamera e in cui gli attori dicono le parole giuste al momento giusto hanno stufato.

Questa fumosa, anche per me!, riflessione nasce da un post letto altrove (http://www.volevofarelarockstar.com/2015/02/i-colpi-di-scena.html), dal fatto che senza internet, quindi senza TV (e non posso nemmeno guardare l’unica kermesse televisiva che mi porta indietro ai tempi del divano a righe con la nonna), senza distrazioni, solo con qualche film a farmi compagnia, in queste condizioni ho tempo di pensare.

Ecco. GIF tratta da serie vagamente mumblecore, comunque.

In questi giorni pensavo a come ho fatto ad arrivare fino a qui. A quali sono i momenti in cui qualcosa succede. A come fare a riconoscerli, a ricordarseli. Come mi ricordo quando nel famoso Caffè Buenaventura mi dissera che avevo avuto il lavoro. Oppure quando alle sei e qualcosa di pomeriggio ho ricevuto la mail per fare il colloquio. E tornando più indietro penso a quando mi è stato offerto il dottorato, che ero in laboratorio e leggendo la mail ho perso il fiato e tutto quello che sono riuscita a fare è stato battere le mani.

Anche la tizia della banca me lo ha detto quando ho aperto il conto qui, qualche giorno fa, dopo essere stata messa al corrente dei miei ultimi spostamenti e di quanto sia difficile trovare un indirizzo precedente. “Hai avuto una vita interessante” mi dice, e aggiunge “però anch’io sono arrivata fino a qui dalla Cina.”. Che mica volevo fare una gara a chi si è spostata di più dal luogo di nascita ma si vede che la mia amica della banca l’ha presa sul personale.

Il problema dello spostarsi, in sè, non persisterebbe, ad esclusione di tutte quelle palle burocratiche che ti richiedono un indirizzo di residenza. Non è nemmeno un problema per il mio guardaroba e gli oggetti di mia proprietà. Mi muovo con due valigie e uno zaino e ho dentro tutto quel che serve. Il fatto è che quando ci si sposta, come faccio io, con la stessa grazia di un orso grasso in un negozio di cristalli, va a finire che tutto quello che c’è intorno si adatta al mio movimento. Si sposta, si rompe, resta intoccato dov’è.

Mi riferisco alle persone che ho lasciato in Svezia. Decine di persone che erano mie compagne di bagarre dei mille fine settimana e adesso sono ancora là o se ne sono andate anche loro altrove. Avrò un cuore di pietra, però non mi mancano. Non mi manca la Svezia, non mi mancano quei tempi, bei tempi senza dubbio!, però adesso va bene come sono. Senza Svezia, senza nottate a fare le tre in un bar a raccontarci le solite storie. Cinque anni di Svezia devono essere stati troppi anche per me. Quella che quando è arrivata, si guardava attorno e cercava, trovandola, la perfezione in ogni dettaglio della vita Svedese. Come quando avevo deciso che la parola Svedese vita significava acqua. E invece è il plurale di bianco, però a me l’illusione che l’acqua fosse vita era un segnale già di per sè sufficiente a farmi percepire quel posto come un luogo di esseri superiori.

Altri interessati da questi spostamenti sono i miei familiari,che ormai hanno smesso di sperare che metterò la testa a posto e tornerò a casa. Che poi la casa dov’è?

Ultimo interessato è colui che ha la pazienza di sopportarmi e, alla fine, seguirmi a sua volta in questa nuova avventura. Arriverà domani qui con l’intenzione di restare. E anche se io sono sempre stata pronta ad andare per qualcuno trovo che sia una pazzia che qualcuno venga per me. Mi sento carica di responsabilità, nel caso in cui le cose dovrebbero andare male, per aver influenzato il corso delle cose di un’altra persona così radicalmente. So che le responsabilità, se vogliamo chiamarle tali, sono da ripartire equamente e che questa rilocazione segue il corso naturale delle cose: se non ci fosse stata avrebbe avuto senso continuare una relazione? Però non posso fare a meno di pensare che sono stata io ad aver intrapreso quella strada, ad aver mischiato le carte in questa nuova situazione che ha l’odore di posto fisso. Infine, sono io ad aver deciso per il futuro di due persone. Che a volte è più facile seguire che essere seguiti.

In questi giorni, bivaccando in questa casa nuova, nel tentativo di familiarizzare con i nuovi luoghi, mi è venuta in mente una canzone che passava su MTV ma solo alla mattina presto, mentre facevo colazione quando andavo in prima superiore. Si tratta di Balckout dei Mistonocivo e a un certo punto, forse nel ritornello, diceva “perdo lucidità”. Anche a me sembra di perdere lucidità in questi momenti di svolta. Seguo il corso degli eventi, senza una sceneggiatura, non capisco quale sia lo schema generale, non trovo gli indizi che il regista dovrebbe lasciare in ogni scena per far intendere quale sarà il finale. Forse è per questo che mi ritrovo nei film mumblecore.

La finestra sul soggiorno e il meta-tappeto

Questo post andrà in onda in forma ridotta (cioè senza canzone in cima al post) per venire incontro alle mie capacità telematiche.

Qui c’è da avere pazienza. Ma proprio valigie di pazienza. Sono arrivata da poco nella casa nuova e non ho uno straccio di internet. Non ho nemmeno idea di quando potrò riassaporare la navigazione veloce in banda larga (o addirittura fibra ottica). Al momento sono dotata di telefono connesso a internet a velocità bradipo pigro, per cui ringraziamo il cielo se già questo è riuscito a caricarcelo.

Casa nuova, dicevamo. Riassunto rapido: trovo lavoro in Inghilterra e cerco una casa. Dovrei anche cambiare il titolo del blog (ancora!) ma mi metterò a pastrocchiare con le impostazioni di wordpress quando mi connetterò in grazia di dio. Ciò che mi preme ora è di imprimere a futura memoria le impressioni di ben due eventi. Evento 1, la ricerca della suddetta casa Inglese. Evento 2, la presa possesso (e la presa di coscienza) della casa.

Per quanto riguarda la ricerca della casa so di non essere la sola ad avere qualche difficoltà a confrontarsi con l’arduo mercato immobiliare Albionico (tipo http://magaritraduesettimanetorno.wordpress.com, nemmeno i link come si deve riesco a mettere!). Per quanto mi riguarda, grazie a dio non mi sono trasferita a Londra però le insidie da piccola città con grande richiesta di alloggio me le sono trovate lo stesso.

A dirla tutta, io lo sapevo fin dall’inizio che trovare casa sarebbe stato un bel piede nel culo. La mia amica che già abitava qui mi raccontava di bugigattoli affittati in scambio di copiosi dobloni d’oro e che nonostante il salasso si doveva pure dire grazie a fine mese per avere ancora un tetto sulla testa. Così, mi sono rimboccata le maniche e ho iniziato a cercare.

Da quanto ho capito, la regola numero uno in questo sistema malato è la rapidità. Cerchi una casa, trovi una casa, chiami l’agenzia, guardi la casa. Che sarebbe (più) facile a farsi se ci si trovasse in loco e non, per fare un esempio a caso, in Spagna. Così, con un preavviso di due giorni, ho chiamato alcune agenzie, fissato appuntamenti e sono partita con spirito d’esploratore verso questa selva di case. La selva di case consisteva in 3 appartamenti, con 1 o 2 stanze da letto, ammobiliate e possibilmente in posti non troppo reconditi (cioè, bella Downtown Abbey ma io voglio avere delle case con delle persone attorno).

Il primo giorno avevo solo un appuntamento e la casa era la mia preferita, un po’ per la posizione e un po’ perché dalle foto sembrava priva di moquette (spoiler: la parola moquette ricorrerà abbondantemente nelle resto del testo). Quando l’incaricato dell’agenzia, che aveva più o meno dodici anni, apre la porta vedo davanti a me una scala stretta e ripida ricoperta di moquette. Mi faccio coraggio e salgo in casa. Una cucina con soggiorno annesso. Una stanza da letto, intendendo che la stanza è per il letto perché non è rimasta alcuna superficie calpestabile. Un bagno per ninja. Ciliegina sulla torta, non è dotata né di lavatrice né di freezer. Praticamente una casa che ti fa assaporare la vita da campeggiatore 365 giorni l’anno. Però non c’era la moquette in cucina/sala.

In preda a tremori e sfoghi cutanei per l’esperienza allucinante arrivo in albergo e chiamo immediatamente un’altra agenzia che ha ben due case che potrebbero fare al caso mio, anche se senza mobilio (tanto io casa me la posso arredare nel giro di un giorno, no?). Visto il poco preavviso non posso fare troppo la schizzinosa sugli orari delle visite alle case e uno è appena un quarto d’ora dopo quello della seconda casa, però sono a un centinaio di metri una dall’altra e al grido di “la velocità è tutto” prendo l’appuntamento. Quindi, con le aggiunte nuove siamo a quota 5 case da vedere.

La seconda casa è in un vicolo cieco. Davanti c’è una casa di riposo e quando arrivo lì alle 10.30 di mattina c’è odore di minestrina. Vista la tempistica incalzante sono lì un po’ in anticipo e mi aggiro nel vicinato cercando di scorgere un viso amico con un mazzo di chiavi, probabilmente avrò allarmato il neighbourhood watch. Ovviamente, l’agente immobiliare era in ritardo. Mancavano cinque minuti all’appuntamento successivo e stavo quasi per andarmene quando ecco che la macchina dell’agenzia sfreccia nella vietta. Faccio presente che sono di fretta e mi fa vedere la casa in due minuti netti. Cucina sì. Soggiorno sì. Camera da letto sì. Bagno sì. Extra camera da letto in cui ci entra sì e no un minipony sì. Tutto ciò che mi ricordo della visita alla casa è che a un certo punto ho esclamato “Ma questa, in paragone a quello che ho visto prima, è Versailles”, per far capire le dimensioni del trauma del giorno prima. Arrivederci e grazie, io devo scappare.

Trafelata arrivo alla terza casa in cui c’è un giocatore di rugby/Jon Snow dei poveri che mi aspetta. La casa è luminosa, nonostante la moquette, forse anche aiutata dal fatto che sia senza mobili. La cucina/soggiorno non è grandissima e anche la stanza da letto è preoccupantemente una stanza DEL letto, senza spazio vitale attorno. Che io mi chiedo ma gli inglesi i vestiti non ce li hanno? Non sentono il bisogno di avere degli armadi? Comunque le condizioni generali dell’appartamento sono buone e la serie positiva di due posti in cui c’è almeno tutto quello che serve a sopravvivere mi mettono di buon umore.

Jon Snow nel frattempo mi scarrozza alla quarta casa e riesco a fargli dire “You know nothing” riferito al fatto che non conosco niente di questa città. Sono soddisfazioni. La quarta casa è stata ampiamente pubblicizzata da Jon Snow, a cui piace proprio tanto. Farcita di aspettative entro in casa e metto piede sulla migliore moquette che abbia mai visto. Anche questa casa è senza mobili ma si vede che è stata mantenuta meglio della precedente. Su due piani, al piano terra c’è il solito soggiorno/cucina che conta tra gli altri elettrodomestici anche una lavastoviglie, ripeto una la-va-sto-vi-glie. Inoltre, appena fuori la cucina vicino all’ingresso c’è anche un bagno con solo il WC, perché a volte quando si torna a casa ci sono delle faccende da sbrigare urgentemente. Al piano di sopra, un bagno più grande, un ripostiglio che è stato spacciato per cabina armadio e la camera da letto. Con una planimetria un po’ bislacca. Al centro del muro di fronte alla porta d’accesso alla camera c’era una rientranza verso l’interno della camera di buoni trenta centimetri per un metro di larghezza. Ancora estasiata dal resto della casa (leggi lavastoviglie) cerco di farmi una ragione per questa assurdità muraria. Misuro con i piedi e non sono nemmeno due metri tra la porta e il muro. Faccio notare a Jon Snow che io lì un letto doppio non ce lo posso mettere. Lui ci pensa un po’ e risponde: perché non lo metti in diagonale? Ecco Jon Snow, you know nothing.

Con la morte nel cuore riprendo la strada verso l’ultimo cruciale appuntamento. Strada che prenderò per circa un’ora, visto che la lavastoviglie, ehm volevo dire la casa, era nell’ultima periferia, proprio a lato dell’aeroporto locale. Arrivo all’ultima casa delle cinque da vedere e già degli esterni mi sembra che sia una zona della città più trasandata rispetto alle altre e quando arrivo al pianerottolo ne ho la conferma alzando gli occhi al cielo per ammirare una stratificazione decennale di ragnatele sopra di me e il giardino con la spazzatura allo stato brado sotto di me. Il ragazzo dell’agenzia ha qualche problema con le chiavi. Non riesce ad aprire e ne conviene che il proprietario possa aver cambiato la serratura senza comunicarglielo (che burlone!) e che quindi dobbiamo aspettare che ritorni. Io ho un aereo che mi aspetta e me ne vado, lasciando il povero agente immobiliare in compagnia di altri clienti spazientiti.

E quindi il parco case lo abbiamo visto. La scelta è ardua e non posso permettermi di non sceglierne una, visto che da lì a due settimane devo iniziare a lavorare. Dopo una ponderata decisione decido che la seconda casa è la meno peggio tra tutte. L’ho anche paragonata a Versailles, ci sarà pur stato un buon motivo per farlo.

Peccato che l’aver visitato una casa in 120 secondi mi abbia lasciato praticamente zero memorie di quello che ho visto e nelle due settimane successive mi faccio forza riguardandomi le foto che c’erano nell’annuncio, cercando in qualche angolo della memoria reminiscenze della mia visita.

Passate le due settimane, e dopo un’estenuante trafila di documenti da firmare e investigazioni sul mio torbido passato, arrivo all’agenzia, firmo un’altra pila di documenti in cui vendo l’anima al diavolo e mi vengono finalmente consegnate le chiavi di Versaillles. Arrivo, la vedo e al primo impatto la trovo molto meglio di come me la ero immaginata. C’è una superficie calpestabile attorno al letto. C’è la lavatrice, anche se lava solo e non asciuga. C’è addirittura un piccolo giardino sul retro che, abitando io a Versailles, è dotato di un ingresso a prova di gaglioffo: un cancello alto meno di un metro che si raggiunge da un sentierino accessibile a chiunque. Ladri e stalker, siete tutti invitati.

Tra gli altri gadgets che mi preme far presente ci sono la finestra sul salotto e i meta-tappeti.

La finestra sul salotto è una nuova dotazione presente solo nelle case di pregio, come la mia. Metti caso che hai messo a cuocere lo spezzatino e non vuoi stare a fargli la guardia mentre cuoce ma vuoi rilassarti in soggiorno. La finestra sul salotto è quello che fa per te. È una piccola finestra che mette in comunicazione la cucina e il salotto e ti permette di goderti il relax del soggiorno mentre ti affaccendi in cucina. Ma può essere utile anche al contrario. Vuoi assicurarti mentre cucini che il tuo lui stia guardando quell’interessante documentario sulla lince del Bangladesh invece che un programma tette-e-culi qualsiasi, con la finestra sul salotto tutto questo è possibile.

Per quanto riguarda il meta-tappeto, il problema è abbastanza filosofico e sorge dalla questione “la moquette è un tappeto?”. Secondo me la risposta è sì. Cito wikipedia, il tappeto è un drappo di tessuto di materiale vario (…) usato per ricoprire pavimenti, tavoli e superfici simili. Quindi, Versailles è dotata di tappeti in quasi tutti gli ambienti della casa (e ‘sti cazzi!). Io mi chiedo, dunque, se a terra ho già un tappeto (la moquette), che se non è ancora abbastanza chiaro sto odiando con ogni cellula del mio corpo, perché vuoi mettere un altro tappeto sopra alla moquette? È forse uno stratagemma per catturare tutta la polvere del mondo in un solo angolo che, guarda caso, è nel mio soggiorno? Ma soprattutto, perché sopra alla moquette vuoi mettere un’altra moquette? Visto il mio amore per questo tipo di pavimentazione sono stata dotata di aggiuntivi scampoli di moquette con cui adornare la mia abitazione. E se capisco che può essere una buona idea metterla all’ingresso per insozzare solo la moquette semovibile, non mi faccio una ragione per i rimanenti brandelli di moquette. Cosa devo farne?

Ultimo problema esistenziale di questa casa sono i termosifoni elettirci. Come si usano? Perché esistono? Cosa ho fatto di male per meritarmeli? Anche se sono accesi e scaldano a livello locale non raggiungono un livello di riscaldamento globale soddisfacente. Che faccio? Gli appoggio sopra gli scampoli moquette e vediamo che succede?

PS: lo so che non si appoggiano le cose sui termosifoni elettrici. E comunque ho fatto davvero un sacco di domande in queste ultime righe.

Piccoli reporter – Andalusia edition

Prima, anzi mentre!, tutto il cataclisma del nuovo lavoro si stava manifestando, io e quell’altro siamo andati a farci una settimana di vacanza in Andalusia. Per quanto mi riguarda, l’Andalusia non era certo uno di quei posti che volevo vedere assolutamentevolissimevolmente. E forse, quando uno parte senza aspettative è il momento in cui rimane maggiormente colpito.

Prima di andare al succo della vicenda e raccontare con supporti visivi il viaggio ci sono una serie noiosissima di disclaimer che devo proprio fare.

1. Quando dico che sono andata in vacanza in Andalusia non voglio dire davvero che ho visitato l’Andalusia nel suo intero. Sono stata a Granada, Cordoba e Siviglia. Basta. Che è come dire “Sono stato in Italia. Ho visto Venezia, Firenze e Roma”. Però a mia discolpa va il fatto che avevamo poco tempo e che ogni nostro tentativo di andare fuori dal seminato dei percorsi turistici convenzionali è stato cassato senza pietà. Come quando volevamo andare in un parco naturale al delta di qualche fiume e l’unico modo per entrare in quel parco era con un tour guidato su un pulmino insieme ad almeno altre 10 persone. Tour di gruppo? No, grazie. Tieniti pure i tuoi uccelli rari e le linci iberiche che io vado in un posto qualsiasi ma almeno nessuno mi dice dove devo andare e quando.

2. L’Andalusia mi è piaciuta. Per quanto si sia ancora in Spagna, sembra davvero di essere in un posto lontano. Quindi giudizio molto positivo sul posto in sè. A fare sì che il viaggio sia ancora più riuscito, ci sono tutte quei chili di tapas che ci siamo scofanati. Roba che se mi vedesse la mia pediatra, la quale si struggeva per la mia inappetenza, le prenderebbe un infarto. Mentre a me l’infarto mi avrebbe potuto prendere per ragioni fisiologiche. Tipo dopo un doppio misto crocchette di jamon + melanzane fritte con il miele. O dopo la torta Ines Sastre con il pollo al curry sopra. O per quel tortino al cioccolato con la salsa al limone. Ma invece sono sopravvissuta e mi chiedo come gli Andalusi non possano avere dei valori del colesterolo alle stelle per il cibo che si ritrovano.

3. Il mio ruolo in questa vacanza è stato di fare la persona colta. Io ero quella che si leggeva le brochure, la guida e (addirittura!) la mappa. Lui faceva il figo con la macchina fotografica nuova e mi chiedeva i bigini di quello che stava fotografando. Quindi, ogni foto che vedrete di seguito è stata fatta dal mio cellulare scarsissimo, mentre brandivo un’audioguida e/o un mazzo di depliant. Per questa ragione, se all’ascolto abbiamo uno di quelle persone magnanime che regalano macchine fotografiche ai blogger così perchè gli avanzano, vorrei dire a quella persona che io un po’ me la merito. Pensa, o tu regalatore di macchine fotografiche, a cosa avrei potuto fare se invece di scattare una foto dal telefono con una sola mano avessi potuto usare due mani e mi fossi pure messa a inquadrare il soggetto della foto in grazia di Dio. Meditate, regalatori, meditate.

4. L’idea di fare un post con le foto delle vacanze mi è venuta a Cordoba, l’ultimo giorno della vacanza. Ergo ci sono millemila foto di Cordoba. Abbiate pazienza.

E ora che ho fatto le dovute premesse ecco il reportage fotografico, che mi fa tanto ti faccio vedere le diapositive delle vacanze ma comunque.

Revolucion Buenaventura

Era il 6 Gennaio e stavo per bere un tè che non aveva nessun sapore. Il bar, apparentemente molto rinomato e in pieno centro, si chiamava Buenaventura, Horno San Buenaventura. E se sei una a cui piacciono i segni del destino non puoi fare altro che credere che quella non fosse una coincidenza.

Qui urge un rewind spaventoso perchè la mia latitanza dal blog (che posso spiegare!) rende tutto molto fumoso.
Allora, appena arrivata a Barcellona ricevo la mail da un’azienda a cui avevo mandato un curriculum, di quelli senza troppa speranza messo insieme alla buona, e mi invitano per un colloquio per metà Dicembre. Per due settimane quindi sono stata impegnata nella preparazione di una presentazione su misura per questa azienda, oltre che nell’invio matto e disperatissimo di altri brillioni di CV. Una cosa che ho scoperto in questo mese di Dicembre da disoccupata (anche se in trasferta) è che io sono una che non è capace di rimanere a casa senza far niente. Fare il planning settimanale delle pulizie/lavanderia di tutto, anche il cambio estivo/preparazione di un menù variato e sano non sono cose per me. La vita da casalinga non è il mio pane e nemmeno la vita di quella che se ne va allegra a zonzo senza prospettive in tempi brevi. Mi piacerebbe essere quella che prende e se ne va senza paranoie del futuro e invidio chi lo fa, ma è saltato fuori che questa non è roba per me. Che ci posso fare?! Buono a sapersi, dico io.

Nonostante la lunga preparazione per l’intervista, non ero particolarmente nervosa per il colloquio in sè. Mi sono detta che in qualche modo l’avrei svangata. E se proprio fosse andata male che ci sarebbero state altre occasioni. Così in un viaggio quasi Fantozziano (sveglia alle 3.30 del mattino, taxi e volo alle 6.20. Rientro 10 ore più tardi con un’ora di jet lag e occhiaie da panda) mi sono recata all’intervista. La prima intervista vera della mia vita, se non contiamo quella del dottorato in cui avevano sbagliato a segnare il giorno e nessuno era preparato per ricevermi. Io, nel mio inadeguato look total black con i jeans neri pure loro, non sapevo a cosa andavo incontro. L’intervista andò, a mio parere, peggio delle più tetre previsioni. Durante la mia presentazione sono stata interrotta più volte con domande a bruciapelo e dopo la presentazione non è andata meglio. Praticamente un esame di Chimica Organica di quasi 2 ore, che io chimica non sono, durante il quale stramaledicevo il mio professore di quel corso di inizio triennale, quello che si era lamentato che solo 19 persone su 200 avessero passato l’esame. Esame composto di tre, dico tre!, prove in itinere di durata di tre, ridico tre!, ore ciascuna. Corso in cui l’assistente per le esercitazioni (il Dott. Porta) era stato ripudiato per volontà popolare e sostituito da un dottorando (si chiamava Andrea) che ha fatto più del bene lui in qualche ora che il professore e il Dott. Porta in un corso intero. E con questo vorrei anche aprire una parentesi su quante informazioni totalmente inutili conservo nella mia memoria. Terabyte di ciarpame che vengono buoni solo ad allungare questo post di dimensioni già spropositate.

Dicevo. L’intervista è stata le Termopili, una Caporetto, Waterloo e tutte le altre debacle degli ultimi millenni. Quando il fuoco incrociato di domande è finito mi sono risieduta al tavolone presidenziale con poltrone in pelle umana della sala riunioni e mi è stato detto “Hai qualche domanda da fare tu a noi?”. Che cosa vi chiedo?! Come ho recitato?! Capirai… Sta figuraccia che ho fatto! Ho abbozzato una domanda che nemmeno ricordo e ho disconnesso totalmente. Dopo, quando mi hanno affidato a qualcuno per farmi fare un giro della struttura, penso di aver avuto un’espressione catatonica e di aver annuito a caso e sorriso qua e là. Insomma, un’esperienza fortemente traumatica.

Così, sono tornata a casa con le pive nel sacco e non la volevo più nemmeno nominare quell’intervista. Anzi, ero già pronta il lunedì seguente a ricevere una mail di benservito, visto che poi sarebbero arrivate le vacanze di Natale, e mi ero fatta l’idea che avrebbero scelto prima della pausa. Con mia sorpresa non ci furono più notizie. Non prima di Natale e non dopo. Almeno non fino al 6 Gennaio.

Quel 6 Gennaio, davanti al tè insapore, vedo una mail del responsabile risorse umane che mi chiede un numero di telefono alternativo perchè non riesce a contattarmi ed inizio ad agitarmi. Se mi vuoi dire che non hai scelto me, perchè mi vorresti telefonare? Rispondo e aspetto. Arriva la chiamata ed esco in strada, che era appena meno rumorosa del bar in cui stavo. Mi dicono che il posto è mio, se lo voglio. Seguono, pezzi di frase a caso in inglese mentre mi esibisco in pubblica piazza in una galleria di espressioni di stupore.

Nei giorni seguenti alla telefonata non potuto fare a meno di chiedermi se fossero davvero sicuri, se non ci fosse stato uno scambio di file da qualche parte, se le identità non fossero state confuse. Sai che bello arrivare il primo giorno e sentirsi dire “Ah, ma sei tu?! No, perchè c’è stato un errore… Ma davvero credevi che avessimo scelto te?!”.

A botta fresca ho pianto. Non per la gioia ma per la consapevolezza di avere un sacco di cose da fare in poco tempo, ripartire da zero in un posto nuovo che non conosco, almeno all’inizio da sola, e per dover lasciare una vita da señora che non mi soddisfa ma che ha i suoi vantaggi. Poi ho iniziato a razionalizzare e a pensare che se tra tutti hanno scelto me un motivo ci sarà. Che gli inizi sono sempre un po’ spaventosi. Però un’altra cosa che ho imparato in questi anni è che a me gli inizi mi fanno sì tremare le gambe ma poi mi gasano anche. Sono quelle situazioni in cui devi tirare fuori il meglio di te e questa sfida m’intriga da sempre.

E quindi sono qui, in una camera d’albergo di una cittadina universitaria a nord di Londra, bagnata dal fiume Cam (giusto per non confondersi con quell’altra!), alla ricerca di un nuovo posto da chiamare casa. Ho un contratto firmato nella borsa, un po’ di emozione per il mio primo vero lavoro e anche un po’ di strizza.

Di solito ad inizio anno ci tengo a scrivere un post sui buoni propositi per l’anno nuovo. È una di quelle cose che ritengo imprescindibili, che ci sia un blog da scrivere o che siano riflessioni che faccio tra me e me. Quest’anno invece, un po’ perchè avevo ospiti Svedesi a cavallo del nuovo anno e un po’ perchè il 2 Gennaio sono partita per una vacanza*, non ho scritto niente. E nemmeno mi sono impegnata a pensarci a cosa volevo per questo nuovo anno, in un limbo di procrastinazione e incertezza su ciò che sarebbe stato di me e sarebbe stato meglio per me.

Credo che alla fine questa notizia (leggi botta di culo) sia stata una benedizione. Forse. Così quest’anno il mio proposito è già bello e che pronto. Affrontare a testa alta questa nuova situazione, cercando di trarne tutto il meglio possibile, sia sul lavoro che per il resto. E buenaventura a noi!

*un fantastico mini-foto-reportage della vacanza presto su questi schermi!