La preparazione al salto

Continuiamo con l’apologia delle storie balenghe da espatriata al quadrato, chè queste storie che apparentemente non hanno nè un capo nè una coda scaldano sempre tanto il cuore. (Anche i cuori che si sono surgelati in Svezia per quasi tre anni e tu te li ritrovi nel congelatore e non sai più se sono ancora buoni o sarebbe meglio buttarli.)

Comunque la metafora del tuffo ormai ha preso piede e oggi si parla del presalto. Che sono quei trenta secondi in cui il tuffatore è lì sulla piattaforma a dieci metri d’altezza e si chiede sotto sotto “ma a me, chi me l’ha fatto fare?”. Non solo vi parlo del presalto ma mi immergo capo e piedi in questa metafora sportiva che si sta rivelando particolarmente proficua, oppure è solo un incredibile spunto per seghe mentali, a seconda dei punti di vista.

Il tuffatore arriva in cima al trampolino e mentre si chiede perchè mai è lì e se non poteva rimanere a casa a guardare le repliche di Friends in genere si asciuga con il pannetto di renna, quello che mia mamma mi faceva usare per asciugare la macchina quando ancora la macchina si lavava in cortile, per farvi capire che vegliarda che sono. Si sbatacchiano il pannetto di renna sul muscolo scolpito a eliminare ogni traccia di acqua e in realtà dentro di loro c’è una vocina che dice “vai che ce la puoi fare! dai che le repliche di Friends in fondo non sono una gran perdita! sei arrivato fin qua, cosa vuoi fare? tornare indietro dalla scaletta?”. Sbatti una, sbatti due, sbatti tre e la convinzione c’è tutta: si è pronti per il salto. Faccia cazzuta, sguardo avanti e si inizia lo spettacolo.

C’è da sapere che se ci si tuffa da dieci metri è possibile lanciarsi in tre modi. Non è proprio necessario saperlo nella vita quotidiana ma se avete avuto un’infanzia con una sovraesposizione agli sport olimpici minori, ecco allora dovete saperlo.

Il primo tipo di salto si fa come lo farebbe Nando alla piscina comunale di Fregene. Occhio che mi buttooooo! Prendi la rincorsa, conti i passi, arrivi al bordo, batti e via. Che quando dico battere intendo quel saltino a piedi uniti che serve a ricomporsi prima del tuffo, che altrimenti ci si tuffa davvero come Nando e credetemi se vi dico che voi non vi volete tuffare come lui. Questo è il più facile di tutti: vedi dove vai, vedi dove finisce la piattaforma, in casi estremi puoi ancora tirare il freno a mano e bene o male sai cosa ti aspetta dieci metri sotto.

Se sei un po’ più temerario ti metti spalle all’acqua, preghi tutti i tuoi santi e ti butti. Il rischio di frantumarti la calotta cranica contro lo spigolo della piattaforma è centuplicato ma vuoi mettere la soddisfazione quando arrivi a toccare l’acqua ancora con il cervello tutto in unico blocco?

Quando invece non hai altro da fare che complicarti la vita, ti metti sul bordo del trampolino, ti appoggi sulle mani e fai una verticale. Stai lì fermo come un semaforo per qualche secondo e poi con un colpo di reni ti dai la spinta per buttarti di sotto, pensando che sarebbe stato altrettanto facile correre con la faccia al vento e buttarsi di giù invece che stare lì a fare il Circo Orfei per ottenere un risultato del tutto simile.

Ecco, io pensavo di essere pronta a tuffarmi con la rincorsa. Adesso non lo so se davvero mi tufferò, e in ogni caso sarà con una verticale su una mano sola.

Un Commento

  1. zuben71

    Cassssspita, e com’è che si è complicato tutto a questa maniera?!?
    Ti dirò che anch’io sto sperimentando a livello relazionale una cosa che non ho ben capito se mi farà bene o male, ma in ogni caso non ho ancora la metafora sportiva adatta indi per cui non ne posso scrivere. “Ma..” – come direbbe Battisti – “il mio mestiere è vivere la vita”.
    p.s. “vegliarda” conservalo per il prossimo decennio, suvvia! 🙂

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